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N. 4 - Aprile 2008 (XXXV)

NO MAN IS INDISPENSABLE
Trent’anni dal caso Moro

di Leila Tavi

Raramente guardo la televisione, ancora più raramente quella italiana. Di solito sul mio televisore girano le immagini di RU.TV, il canale di sole videoclip russe, a mo’ d’installazione permanente domiciliare.

Quando abbiamo ospiti a casa, per cortesia nei loro confronti, a volte lasciamo che guardino i programmi di infotainment della tv italiana.

L’altra sera, in una di queste occasioni, mi sono imbattuta nell’inizio del programma di Vespa in ricordo dell’assassinio di Aldo Moro.

Che pena vedere come uno degli episodio più drammatici e più importanti della storia dell’Italia contemporanea è stato ridotto ad argomento da salotto per intrattenere quegli italiani, che si attardano davanti alla televisione prima di andare a letto.

Nessuno storico invitato, il solito Andreotti ultraottantenne e onnipresente che, a proposito della linea dura tenuta al tempo del sequestro, ha subito cercato di catalizzare l’attenzione del pubblico sull’allora presunta opposizione delle vedove della scorta a qualsiasi tentativo di dialogo con i brigatisti.

Come se il potere decisionale sulla faccenda fosse stato lasciato alle mogli di due appuntati morti durante lo svolgimento delle loro mansioni; ma tanto chi segue la televisione non ascolta, sente, vede, lascia passivamente l’occhio seguire le immagini compassionevoli dei due familiari dell’onorevole Moro.

La parte del salotto occupata dai politici cercava di convincere gli italiani che non c’è mai stata una verità nascosta, che si è trattato del sacrificio di un grande uomo, un uomo morto “per presunta ragione di Stato”, aggiungiamo noi; dall’altra parte, i familiari delle vittime della scorta ancora alla ricerca della verità, mentre i familiari dell’allora presidente della DC avrebbero voluto che Aldo Moro fosse stato ricordato, almeno una volta, per quello che fece da vivo e non per i 55 giorni di detenzione nella prigione del popolo.

Non sono riuscita a seguire che l’inizio della trasmissione, posso immaginare quale sia stato il seguito.

No man is indispensable, che sia questa la chiave del mistero Moro? In queste parole scritte nella relazione dell’esperto di terrorismo statunitense che Cossiga chiamò al Viminale per indagare sul sequestro. Un esperto di terrorismo sudamericano, con nessuna strategia nei confronti delle BR, se non quella di evitare qualsiasi dialogo e lasciare che il destino facesse il suo corso.

In fondo perché Washington avrebbe dovuto volere indietro, alla guida della DC, l’artefice del compromesso storico?

Moro è stato ucciso prima politicamente dai suoi stessi colleghi che materialmente dalle BR.

D’altra parte le dichiarazioni di Barbara Balzerani nel 1994, durante il processo Moro quater, fecero chiaramente intravedere che vi era stata un’autentica intenzione di utilizzare lo statista della DC come “merce di scambio” per la liberazione di alcuni di quelli che i brigatisti consideravano “prigionieri politici”.

L’ala militarista capeggiata da Moretti prevalse solo quando fu chiaro alle BR che, da parte delle istituzioni, qualsiasi possibilità di dialogo era stata sin dall’inizio preclusa.

Prima di venire ucciso non gli fu imposto di firmare nessuna confessione, indice del rispetto che i carcerieri avevano per Moro.

Moro non fu né strumentalizzato né drogato dalle BR; si è parlato di sindrome di Stoccolma in riferimento alle lettere inviate dal politico ai familiari e ai colleghi di partito.

Gli obiettivi che durante i 55 giorni di sequestro volevano raggiungere, Moro con le sue missive da una parte, e le BR con i loro comunicati dall’altra, non si sovrapposero neanche per un momento.

Nella lettera recapitata alla DC il 28 aprile 1978 Moro così scrive: “È vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d’animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile, per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E se io faccio domanda che si riunisca la direzione o altro organo costituzionale del partito, perché sono in gioco la vita di un uomo e la sorte della sua famiglia, si continua invece in degradanti conciliaboli, che significano paura del dibattito, paura della verità, paura di firmare con il proprio nome una condanna a morte.”

La scelta politica della DC fu, durante tutto il sequestro, evitare la crisi di governo, infondo, di fronte a una presunta ragione di Stato, “no man is indispensable”.

 

 

 

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