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N. 63 - Marzo 2013 (XCIV)

Gaetano Salvemini e il Fascismo
L’avvento del totalitarismo in Italia

attraverso il carteggio dello storico
di Giacomo Zanibelli

 

In una lettera a Mary Berenson scritta dall’America il 15 marzo 1935, Gaetano Salvemini manifestò l’intenzione di coronare la sua attività di scrittore con un’autobiografia dal titolo “Le mie quattro vite”, secondo quelle che riteneva essere le stagioni della sua esistenza. Partendo da questo potremmo parlare, a oggi, di cinque vite del Salvemini, considerando gli anni successivi al 1945 come una nuova stagione della sua esistenza.

 

Cercare di scandire cronologicamente l’esistenza di Salvemini è molto complesso, come tentare di spiegare il rapporto dello storico con il Fascismo. Quest’ultimo divenne un elemento dominante del suo pensiero, fu un evento sconvolgente nella sua vita tanto da turbarlo prima ancora di analizzarlo da storico. Il Fascismo fu per lui così traumatico che sconvolse la sua “terza vita”, quella che va fino al 1925, cambiando in modo radicale il suo stato d’animo. Il trauma si protrasse anche nella “quarta vita”, che inizia con l’esilio e termina con la fine della Seconda Guerra Mondiale. Anche negli ultimi anni della sua esistenza il fenomeno del Fascismo fu al centro dei suoi pensieri.

 

Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921 si scatenò in Italia l’offensiva fascista. Gli eventi che si verificarono in quel periodo fecero scaturire nell’anima di Salvemini, allora quarantaseienne, un profondo sentimento di amarezza e di sconforto. Risale alla fine del 1920 la definitiva cessazione della pubblicazione de l’Unità e anche la conclusione dell’esperienza politica più significativa nella vita del Salvemini. Poco più tardi, dopo lo scioglimento della Camera nel novembre del 1919, rifiuterà di ricandidarsi ritirandosi dalla vita politica, finendo per essere un semplice spettatore di tutte le vicende politiche che porteranno Benito Mussolini al potere. Prima della Marcia su Roma Salvemini si trovava in Inghilterra e in una sua lettera scrisse di essere partito: “…anche per sentirmi un po’fuori dall’ambiente politico del mio paese”. Non si sentiva più a suo agio nella compagine politica del tempo.

 

“Quanto alla utilità di una mia azione nel Partito Socialista, credo tu sia in errore. Non c’è nulla da Fare in quel campo per un uomo come me. Non possono e non vogliono capire: è un gruppo di interessi consolidati, che non si lascia penetrare che dalle bastonate. I fascisti, sfasciando quella organizzazione, accelerano un’opera di decomposizione, che doveva avvenire, e in cui io non potevo fare nulla di utile. Però si potrebbe stare, non dentro, ma accanto al Partito, cercando di orientare gli elementi nuovi. Questo lavoro non si può fare, entrando sotto quella disciplina: si può farlo mediante un contegno di critica amichevole e indipendente. Sarebbe la funzione di una nuova «Unità»: ma è impossibile faute d’argent.” (Salvemini a Ernesto Rossi – Leeds, 24 settembre 1922, Tagliacozzo, p. 83)

 

Sarebbe un errore ritenere che il Salvemini di quel periodo, nonostante la sua assenza dall’Italia, non fosse ancora apertamente e consapevolmente antifascista. La crisi politica che aveva portato all’avvento del Fascismo in Italia era anche l’esito di una battaglia perduta a favore della democrazia, nella quale Gaetano Salvemini aveva ricoperto un ruolo di primo piano, specialmente dalla fine del 1911 con la fondazione del quotidiano “l’Unità” in cui aveva speso le sue energie migliori. Non devono trarre in inganno alcune affermazioni facilmente riscontrabili negli scritti di Salvemini, dove la critica aspra di una situazione rischia di essere fraintesa come la critica di un sistema. Combattere la prassi giolittiana di governo e soprattutto denunciare le prassi degenerative della vita politica italiana, non significò che si fosse indebolito il suo ideale democratico. Tutto questo evidenzia la volontà di riaffermare quei presupposti etici, sociali e intellettuali da cui scaturisce un metodo di governo democratico. Gaetano Salvemini comunque aveva pensato a un suo eventuale ritorno sulla scena politica, sentiva il desiderio di rientrare in questo mondo, ce lo dimostra una lettera a Giacinto Panunzio del 1923.

 

“Se mi offrissero di essere senatore, non rifiuterei certo. Ma chi vuoi che me l’offra? Un padreterno rammollito, non sono. Un pescecane, nemmeno. Un intrigante, meno che mai. E allora? Quanto ad accettare una candidatura, bisognerebbe vedere se, come e quando. Accetterei solamente se si realizzassero insieme le seguenti ipotesi: che si formasse un governo quale te lo descrissi nella mia precedente lettera, il quale chiamasse in aiuto della baracca tutti gli uomini di buona volontà e di buona fede. Non ho più voglia di stare a fare sempre opposizione. Se posso realizzare almeno una parte delle mie idee, mi metto allo sbaraglio; se no me ne sto a casa a scrivere libri…” (143. Salvemini a Giacinto Panunzio – Firenze, 11 maggio 1923, Tagliacozzo, p. 197)

 

A partire dal 1916 la critica di Salvemini si era concentrata verso le forze nazionaliste dalle quali scaturirà il movimento fascista, potremmo dire che il Fascismo nasce già antisalveminiano. Gli echi interiori di questa battaglia perduta si possono riscontrare nell’animo di Salvemini per il quale la crisi che portò Mussolini al potere rappresentò una sconfitta personale, che fece cadere le speranze di venticinque anni d’impegno e militanza politica. Scrisse in una lettera a Girolamo Vitelli del 1922 che, qualora si fosse astenuto dall’esporre qualunque manifestazione di dissenso verso Benito Mussolini, era sufficiente tutta la sua storia passata a porlo in radicale contrasto con il Fascismo.

 

“Il mio silenzio [...] si è esteso a tutte le altre questioni. La esperienza che feci nella Camera fra il 1919 e il 1921, mi disgustò così profondamente degli uomini di tutti i partiti, che non mi sono ancora riavuto di quel disgusto e sono sempre come l’ubriaco all’indomani della sbornia…S’intende che io considero più che sufficiente tutto il mio passato – indipendentemente dalla riserva che mi sono imposta in questi ultimi due anni – a mettermi in contrasto con quella, che Ella chiama «la opinione del paese» e che io chiamo la opinione di un partito che si è impadronito oggi del governo del paese bastonando e ammazzando chi non è d’accordo con Lui. Non volendo nulla disdire del mio passato e delle mie idee mi mettono a contrasto col vincitore di oggi” (91. Salvemini a Girolamo Vitelli – Parigi, 9 novembre 1922, Tagliacozzo, pp. 118-120)

 

Il forte senso autobiografico dell’antifascismo di Gaetano Salvemini è importante non solo rispetto al suo atteggiamento nel momento in cui si verificarono i fatti sopracitati, ma anche in un’ottica più generale in cui la sua critica al Fascismo va analizzata in relazione al suo passato, cioè come una prosecuzione del suo impegno politico precedente, che era in netto contrasto con gli ideali portati avanti dai fascisti.

 

Come i suoi contemporanei anche il Salvemini non comprese appieno la novità e la portata del nuovo movimento fascista, forse l’impossibilità di un coinvolgimento diretto gli impedì di effettuare un’analisi dettagliata su ciò che stava accadendo in Italia. Se analizziamo la vita dello storico notiamo che fino al 1925 non fu un oppositore attivo al fascismo, essendo rimasto politicamente isolato, alcuni suoi scritti di quel periodo ci mostrano quelle che saranno le linee guida nella sua interpretazione sul fascismo.

 

Gli elementi su cui si fonda il giudizio sul fascismo del Salvemini sono tre:

il primo elemento lo possiamo riscontrare nella crisi che ha portato il fascismo al potere, come un disastro morale del sistema politico italiano;

il secondo elemento è l’esigenza di ricostruire, attraverso le fonti, quello che realmente successe in Italia e come i fascisti riuscirono a emergere dal caos politico della nostra Nazione;

il terzo elemento si concentra sul tentativo di analizzare in cosa si differenziava l’azione politica di Benito Mussolini rispetto alla precedente classe dirigente.

 

Da un’analisi attenta possiamo riscontrare alcune tematiche interessanti. Nel luglio del 1922, terminando la prefazione della raccolta Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano, ripercorrendo la storia del Partito Socialista, anche in veste critica, il Salvemini notò che il successo del movimento fascista non aveva causato la depressione del movimento socialista in Italia, ma che proprio la decadenza di quest’ultimo aveva portato al fiorire del Fascismo. E

 

rano molte le cause di questo disfacimento, che si potevano riassumere in una profonda debolezza morale delle organizzazioni socialiste. Questa interpretazione vedeva nell’avvento del Fascismo non la capacità di quest’ultimo di farsi portavoce d’idee innovative per il Paese, ma la debolezza del sistema politico precedente che sarebbe stato il prodromo del successo di Mussolini.

 

Questo giudizio è importante perché indica il tramite tra passato e presente costituendo l’indicazione di una ricerca di responsabilità del successo fascista in quelle stesse forze che uscivano sconfitte. Tale interpretazione sarà ampliata tra il 1922 e il 1923 nel Diario, nel quale l’autore dirà che tutta la società civile ha ricoperto un ruolo di primo piano nell’avvento del Fascismo; le mancanze politiche e intellettuali della classe dirigente, assieme a una quasi accettazione totale da parte dei ceti medi, furono le cause scaturenti della supremazia fascista in Italia.

 

Particolarmente interessante sull’avvento del Fascismo e di come l’Italia stesse cambiando, è una lettera inviata a Salvemini da Tommaso Fiore nel 1923.

 

“Si vuole assolutamente che tutto il paese entri nei fasci, e manganello per i capi che si dimettono, come per quelli che non entrano, che ormai sono pochini. Appresi anche che S. E. Caradonna, in vista dell’amnistia, diceva di essere dolente di non averne ammazzati di più. Limongelli, che è segretario della federazione provinciale fascista, ha rivolto una lettera ai giornali, violentissima, contro la Deputazione e il Consiglio Provinciale, perché le strade sono tenute male e gli appaltatori farebbero i grandi elettori. Si mira allo scioglimento del Consiglio Provinciale, come si è minacciato per Lecce e Foggia. Che cosa ci sia di sotto non so, ma pare che il fascismo sia troppo favorevole alla soluzione del porto di Bari nel senso voluto dall’Italo-francese, affare di moltissimi milioni e di poca pulizia. Così si sopprimerebbe la voce del Consiglio Provinciale. Staremo a vedere. Se le interessa, ho saputo che son passati al fascio anche il Cap.Palladino, che fu con noi il ‘19 e si iscrisse al partito socialista il ‘21 e certo non dei peggiori, nonché un tale Caso di Bari, della stessa situazione. Bonito fu aggredito dai fascisti di Cerignola e non se ne sa più nulla. Di Bitonto non ho notizie. Io sono tornato a leggiucchiare…A proposito, Laterza mi diceva che il Sen. Fortunato ha avuto vivaci alterchi con Benedetto Croce a proposito del fascismo.” (124. Tommaso Fiore a Salvemini – Napoli, 16 gennaio 1923, Tagliacozzo, pp. 169-160).

 

Il declino della classe dirigente italiana, si può cogliere in una lettera del 1922 a Giuseppe Prezzolini.

“Quanto alla situazione dell’Italia, io la vedo sempre più nera. Un paese, in cui il popolo è quale tu e io lo vediamo, e le classi dirigenti sono incapaci di fare altro che retorica, - è un paese condannato a sparire come Stato nazionale indipendente. Quando avverrà questo non lo so. E può darsi che un intreccio di casi fortunati ci permetta di vivacchiare per lungo tempo come certi ubriachi, i quali traballando riescono a tenersi in piedi. È chiaro che in questo periodo di terno al lotto non si formi una nuova classe dirigente meno indegna di quella attuale. Motivo per cui io mi sento come dinnanzi a un ammalato disperato ma che ancora non è morto. Chi sa che non si trovi a un tratto una droga assurda che lo rimetta in gamba.” (95. Salvemini a Giuseppe Prezzolini – Parigi, 14 novembre 1922, Tagliacozzo, p. 128)

 

Seguendo questo ragionamento potremmo ricondurre il pensiero di Salvemini alle interpretazioni più radicali del Fascismo, come quelle di Gobetti o di Fortunato, che vedevano una forte continuità tra Italia liberale e Fascismo.

 

“In realtà, su questa nota Salvemini non insistette allora a lungo, né in tale forma sommaria essa verrà mai ripresa. Tuttavia si tratta di una nota che nel giudizio di Salvemini sul fascismo assumerà sviluppi assai importanti, sia riaffacciandosi in qualche modo anche nelle sue successive opere d’insieme scritte durante il periodo d’esilio, sia soprattutto quando dopo il 1945 egli riprenderà la sua riflessione sul fascismo in rapporto alla precedente storia d’Italia” (Sestan, p. 123)

 

Sin dalle prime settimane, dopo la Marcia su Roma, appare vivissimo in Salvemini il desiderio di documentarsi su come si fossero svolti i fatti tra il 1919 e il 1922, su come Mussolini avesse raggiunto il potere, comprendendo attraverso una visione d’insieme il fenomeno. Questi schemi interpretativi saranno ripresi successivamente nei suoi lavori di sintesi.

 

Le impressioni sul fascismo di Salvemini, sopra citate, si ricollegano principalmente a scritti di carattere personale, come il “Carteggio” e il “Diario”, che hanno un chiaro carattere di provvisorietà. Anche alcuni scritti pubblicati intorno agli anni venti evidenziano le linee di pensiero dello storico. In particolare merita una certa attenzione Il profilo sull’Italia politica nel XIX secolo, pubblicato nel 1925 e gli Studi sulla politica estera italiana dal 1870 al 1915.

 

In questi scritti il Salvemini sembra rivalutare il progresso compiuto dal Paese nel cinquantennio di governi liberali; alcuni studiosi hanno ritenuto che con tali scritti Salvemini negasse ogni legame tra la storia dell’Italia unita e il Fascismo. Nonostante ciò si nota come la rivalutazione dell’Italia liberale vada vista in chiave critica, cioè in contrapposizione all’interpretazione della storia d’Italia della propaganda fascista, che vedeva in Benito Mussolini il salvatore dello stato dalla decadenza portata dalla classe liberale.

 

Dagli scritti di Gaetano Salvemini emerge che fino a San Giuliano, con l’eccezione di Crispi, il giudizio sulla classe politica liberale è sostanzialmente positivo, proprio gli studi sulla politica estera dei governi liberali e quella portata avanti da Mussolini potrebbero aver indotto il Salvemini a porre una precisa distinzione tra fascisti e liberali.

 

Nel 1925 ci fu una vera e propria svolta nella vita di Salvemini, se prima di questa data non aveva combattuto nella pratica il Fascismo, dopo l’esilio l’opposizione al movimento fondato da Mussolini divenne un perno fondante della sua vita. L’esilio volontario non significò per Salvemini la ripresa dell’attività politica all’interno di un gruppo organizzato, nonostante avesse partecipato a numerose iniziative pubbliche contro il Fascismo, la sua comunque fu sempre una partecipazione esterna.

 

L’antifascismo dello storico, quindi, non si fonda su un impegno attivo nei movimenti antifascisti ma sul piano intellettuale, quello della critica storica. Fu proprio lui ad inaugurare il ciclo di letteratura critica sul Fascismo, il suo obiettivo era quello di confutare l’idea propagandistica che il Fascismo dava di se alla nazione, di sviscerarne l’essenza per renderne pubblici i mali.

 

Il Salvemini si impegnò in un forte contraddittorio con articoli di giornale e conferenze, dimostrando una lucida conoscenza dei fatti dovuta ad un grande lavoro di ricerca per la realizzazione delle tre opere più importanti di quel periodo: La dittatura fascista in Italia (1927-1928), Mussolini Diplomatico (1932) e Sotto la scure del fascismo (1936). Salvemini si dedicò a confutare le idee fasciste più comuni, come ad esempio che il Fascismo avesse salvato l’Italia da una rivoluzione rossa o che Mussolini avesse impedito il disastro economico del paese.

 

Nel demolire la propaganda fascista Salvemini ci riporta anche una documentata versione dei fatti in oggetto per una comprensione storica degli eventi. Per lui la crisi liberale era una crisi di carattere politico, nella quale Mussolini non ebbe un ruolo salvifico, ma soltanto la furbizia di sfruttare una situazione per raggiungere il potere. Anche la politica estera, uno dei cavalli di battaglia del Fascismo, non era che una forte ripresa propagandistica dei valori nazionalisti.

 

Nei suoi interventi, lo storico mise in luce la forte contraddittorietà della politica di Mussolini, vedendolo come privo delle qualità per essere un uomo di stato. Anche sul corporativismo Salvemini scrisse che si trattava di una grande montatura, per nascondere che le organizzazioni dei lavoratori avevano perso ogni libertà mentre le organizzazioni padronali avevano mantenuto una forte autonomia e che soprattutto le condizioni di vita degli italiani erano peggiorate sensibilmente. Inoltre evidenziava come lo Stato Corporativo avesse ampliato i quadri e le funzioni della pubblica amministrazione, provocando una notevole crescita del potere della burocrazia. Anche sul rapporto tra Fascismo e popolo italiano e sulle condizioni del paese nel periodo dei governi liberali si impegnò per rivalutare l’onore della nazione italiana; volle documentare come gli italiani, distinguendoli dalla classe dirigente, non avessero accettato passivamente l’avvento del Fascismo. Il popolo si era dovuto piegare allo squadrismo fascista, che poté operare in modo criminale finendo per essere anche tutelato dalle istituzioni.

 

Salvemini esaltava il valore civile di questa battaglia popolare contro il movimento fascista, evidenziando il valore dei grandi caduti sotto la scure del fascismo ma anche di tutti quelli sconosciuti che avevano subito la brutalità fascista. Per Salvemini, dopo l’8 settembre 1943, il popolo italiano rivelò il suo vero volto, mostrando apertamente la propria opposizione ai fascisti.

 

L’apparente tranquillità che si riscontrava nel Paese sotto il governo del Duce, si era ottenuta grazie al terrore che un forte apparato di polizia politica esercitava sullo stato. Salvemini richiamava nei suoi scritti i risultati raggiunti dall’Italia, soprattutto nella partecipazione politica, prima dell’avvento del Fascismo, non tanto per elogiare l’Italia liberale ma per negare le tesi propagandistiche che l’Italia fosse in mano agli anarchici quando Mussolini salì al potere. Mussolini prese in mano un paese vitale dal punto di vista economico e sociale, l’avvento dei fascisti per Salvemini dipese sostanzialmente da una forte crisi della politica.

 

Gaetano Salvemini criticò aspramente anche la politica estera fascista. Riteneva che il Fascismo sarebbe caduto a causa di tale politica, vedendo in una crisi internazionale l’occasione per l’Italia di riacquistare la libertà perduta. Ravvisava nel “Mussolini diplomatico” una completa estraneità all’ordine internazionale e al sistema degli stati occidentali. Per Salvemini le nazioni democratiche, grazie alla loro tradizione politica e culturale, erano le case naturali dell’antifascismo, queste teorie sono uno dei cardini fondanti del pensiero dello storico. Da ciò nasce la sua idea di Europa, identificata con quelle concrete esperienze storiche di governi democratici (Francia e Inghilterra).

 

Nel pensiero di Salvemini il contrasto tra Fascismo e antifascismo equivale al contrasto tra Fascismo e democrazia, quest’ultima intesa come quella incarnata nelle democrazie occidentali. Nonostante questo non sottovalutava la responsabilità dei paesi occidentali nel trionfo di Mussolini, evidenziando come fosse stata importante la responsabilità internazionale nell’avvento del Fascismo. Secondo Salvemini le democrazie internazionali avrebbero poi pagato la miopia dei propri governanti.

 

Da qui nacque l’impegno per cercare di far conoscere all’opinione pubblica internazionale la vera natura del Fascismo, affinché comprendesse come quest’ultimo e la democrazia non fossero conciliabili. S’impegnò per confutare la propaganda fascista in Francia, e in Inghilterra, a dimostrazione di questo i suoi più importanti scritti di quel periodo furono pubblicati in francese e in inglese.

 

La quarta stagione della vita di Salvemini, quella del “Fuoruscito”, si concluse nel 1945. Negli anni 1942 – 1943, compose due opere “Lezioni di Harvard” e “What to do with Italy”. Il suo compito, da questo momento, non è più quello di denunciare le nefandezze del Fascismo ma quello di spiegare all’opinione pubblica americana e inglese come rilanciare l’Italia.

 

Per Salvemini superare il Fascismo significava attuare una società democratica in cui la democrazia politica non poteva più esistere disgiunta da quella economica. Potremmo dire che il ragionamento di Salvemini, da questo momento, analizza nuovamente il fenomeno della democrazia in Italia. Il Fascismo aveva oscurato la democrazia, si doveva indagare su quali erano state le cause del suo successo, al fine di rimuovere gli ostacoli che avrebbero impedito la rinascita del nostro Paese.

 

Cercando di studiare quali furono gli elementi che condussero i fascisti al potere, Gaetano Salvemini esclude un’interpretazione classista. Nella sua analisi i principali responsabili furono il Re, la Chiesa, l’esercito, la magistratura, la forza pubblica, la classe politica e i ceti possidenti. Mentre nel caso del Re e della Chiesa si criticano effettivamente sia le persone fisiche che gli istituti, negli altri casi si lancia una forte accusa alle sole persone fisiche. Si tratta di una critica alla classe dirigente del paese (che non seppe arginare in alcun modo Benito Mussolini), da questo declino nascerà la supremazia fascista. Il ruolo della classe dirigente di fronte al Fascismo è evidenziato in una lettera del 1926 a Ernesto Rossi.

 

“Parlando con uno dei pezzi più grossi dissi: «Voi siete rimasti sempre alla seconda metà del 1924; anche dopo l’assassinio di Matteotti, aspettaste la salvezza del Re, e per non spaventare il Re rimaneste senza far nulla. Oggi sperate dalla crisi economica quel che speraste dalla morte di Matteotti. Aspettate sempre che qualcuno vi mandi a chiamare. Io sono convinto che farete un secondo fiasco. Ma ritengo necessario che questa nuova esperienza avvenga, e che noi non vi creiamo nessuna difficoltà [...] Ma se anche questa nuova prova riesce in un fiasco, e se anche questa occasione la lascerete sfuggire aspettando di essere chiamati da qualcuno cosa farete dopo? Ricomincerete ad aspettare di essere chiamati da qualcuno in una terza occasione? Oppure riconoscerete che la vostra tattica è sbagliata e che occorre adottare un’altra tattica: quella di non aver paura di spaventare il Re, il Papa, i generali, gli industriali, i fascisti, e raccogliere intorno a noi alcune migliaia di persone pronte ad approfittare di qualunque occasione per dare addosso ai fascisti e fare piazza pulita»? A questa domanda non rispose. Cioè a dire, in fondo al suo spirito, c’era il sentimento che bisognerà ricominciare sempre ad aspettare di essere chiamati evitando di spaventare i possibili chiamatori.” (406. Salvemini a Ernesto Rossi – s.l.n., 14 settembre 1926, Tagliacozzo, p. 541)

 

Secondo Gaetano Salvemini il Fascismo sarebbe potuto cadere per la concomitanza di due eventi: una grande inquietudine in vasti strati della popolazione; un grande evento nazionale che riesca a scuotere profondamente le persone.

 

La prima condizione si sarebbe potuta verificare grazie alla cattiva amministrazione fascista, le folle, però, si sarebbero sollevate solo per un evento di grandissima rilevanza. Questo fantomatico evento scaturente doveva venire dall’esterno in quanto, se fosse sorto all’interno del Paese, non avrebbe avuto successo poiché c’erano troppi legami tra il Fascismo e la Nazione.

 

La crisi doveva nascere dall’esterno, essendo la politica estera l’anello debole di Mussolini; per Salvemini il Duce introdusse nella diplomazia i metodi di discussione che aveva visto usare da ragazzo nell’osteria di suo padre in Romagna.

 

Lo storico sperava che le grandi potenze risolvessero il “problema fascista”, per questo ritenne fondamentali due cose per il raggiungimento dello scopo: la propaganda presso gli stranieri; una svalutazione del regime in Italia dovuta alla crisi internazionale.

 

Questo fenomeno di rivolta verso il Fascismo non dovrà essere creato dalla volontà di qualcuno ma dovrà essere un impegno civico che nasce nell’animo di tutti e che, grazie a un moto proprio, riuscirà a debellare il Fascismo dall’Italia.

 

Lo storico di Molfetta, negli anni dopo l’esilio, riprende in parte le sue teorie del 1922, in cui vedeva il periodo fascista come disastro morale, soltanto che il Fascismo viene riletto attraverso il rapporto che ebbe con la storia d’Italia.

 

Il Salvemini affronta anche temi come l’Italia prefascista, Giolitti, l’interventismo e altre tematiche cercando di spiegarle anche attraverso una critica delle sue idee precedenti. In particolare negli anni di ascesa del Fascismo al potere possiamo dire che la critica verso il movimento di Mussolini deve essere vista come un aspetto della battaglia del Salvemini per raggiungere la democrazia.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

G. De Caro, Gaetano Salvemini, la vita sociale della nuova Italia – volume sedicesimo, Unione tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1970

F. Chabod, L’Italia Contemporanea (1918-1948), Einaudi, Milano, 1994.

T. Detti-G.Gozzini, Storia Contemporanea I. L’Ottocento, Bruno Mondadori, Milano, 2000

T. Detti-G.Gozzini, Storia Contemporanea II. Il Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2000

E. Tagliacozzo (a cura di), Gaetano Salvemini – Carteggio 19212-1926, Laterza Bari, Bari, 1985.

E. Sestan (a cura di), Atti del Convegno su Gaetano Salvemini – Firenze 8-10 Novembre 1975, il Saggiatore, Milano 1975.



 

 

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