N. 44 - Agosto 2011
(LXXV)
CARTAGINE & ROMA
Le radici di un’ostilità
di Danilo Caruso
Lo
scontro
tra
Cartaginesi
e
Romani
segnò
in
modo
decisivo
lo
sviluppo
della
civiltà
europea.
Il
teorico
nazista
Alfred
Rosenberg
lo
prese
ad
esempio
nei
suoi
ragionamenti
pseudoscientifici,
in
quella
che
sarebbe
dovuta
essere
una
dimostrazione
della
storia
d’Europa
come
dialettica
tra
ariani
e
semiti.
Le
motivazioni
di
quel
confronto
non
c’entravano
niente
con
i
pregiudizi
razziali,
erano
di
natura
politico-economica:
in
palio
c’era
la
supremazia
nel
Mediterraneo
occidentale
(che
avrebbe
spianato
la
strada
verso
il
Levante
greco
ed
ellenizzante).
Cartagine,
fondata
nell’814
a.C.
(tutte
le
successive
date
sono
da
intendersi
analogamente
a.C.)
in
un
punto
strategico
per
i
commerci,
aveva
concretizzato
la
sua
vocazione
mercantile
e
marina
con
la
creazione
di
un
dominio
che
dal
Nord
Africa
si
allargava
alla
Sicilia
orientale,
alla
Sardegna,
alla
Corsica,
alle
Baleari,
ed
alla
fascia
spagnola
del
sud.
Dopo
la
morte
del
tiranno
siracusano
Agatocle
i
Cartaginesi
avevano
colto
l’opportunità
(289-285)
di
occupare
gran
parte
della
Sicilia,
ma i
Sicelioti
reagirono
chiedendo
l’intervento
di
Pirro.
Cartagine
temendo
l’ambizione
del
re
epirota
spinse
nel
278
Roma
ad
accettare
una
coalizione.
I
Romani,
in
guerra
dal
282
contro
Taranto
sostenuta
da
Pirro,
erano
stati
più
volte
sconfitti
dagli
Epiroti
(in
Italia
dal
281).
Si
definirono
così
due
aree
di
competenza:
ai
Punici
la
Sicilia,
ai
Romani
la
penisola
italica
interessata;
inoltre
l’accordo
prevedeva
che
questi
ultimi,
in
mare
appoggiati
dai
primi,
non
potessero
stipulare
con
gli
Epiroti
la
conclusione
del
conflitto
senza
la
loro
approvazione.
Pirro
nel
277-276
riuscì
a
liberare
quasi
del
tutto
la
Sicilia,
tuttavia
l’opposizione
delle
città
greche
ai
suoi
progetti
lo
portò
a
lasciare
l’isola.
Ritornato
nell’Italia
continentale,
e
sconfitto
nel
275
dai
Romani
a
Benevento,
decise
di
far
ritorno
in
patria.
Morto
nel
273,
nel
272
il
distaccamento
militare
epirota
a
Taranto
si
arrese
all’assedio
romano.
I
Punici
avevano
auspicato,
invano,
una
resa
anche
nelle
loro
mani.
Il
trattato
commerciale
punico-romano
del
508,
riproposto
due
volte,
stabiliva
sfere
d’influenza
conformi
al
piano
bellico.
I
Romani
gli
unici
a
guadagnarci
contro
Pirro,
controllavano
ormai
l’Italia
peninsulare;
i
Cartaginesi
avevano
ristabilito
il
loro
precedente
controllo
in
Sicilia,
però
molti
centri
italioti
erano
caduti
in
mani
romane.
Scomparso
il
comune
nemico
e
fatti
propri
gli
interessi
socioeconomici
della
Magna
Grecia,
Roma
si
preparava
a
fronteggiare
la
forza
punica.
Nel
270
i
Romani
conclusero
un’intesa
con
Siracusa.
Quando
i
Mamertini
di
Messina,
in
difficoltà
di
fronte
ai
Siracusani,
invocarono
nel
265
il
sostegno
cartaginese,
per
i
Romani
non
fu
tollerabile
avere
questa
potenza
navale
alle
porte,
ed
in
grado
di
destabilizzare
l’ordine
interno
della
confederazione
romano-italica
(alcune
popolazioni
precedentemente
rivoltatesi
mal
sopportavano
il
dominio
di
Roma).
Nell’estate
del
264
scoppiò
il
primo
bellum
punicum:
nel
264-262
Roma
liberò
la
Sicilia
orientale
dall’influenza
nemica
pure
dopo
un
breve
conflitto
con
Siracusa,
restia
a
favorire
la
sua
presenza
nell’isola;
nel
260
una
flotta
romana,
allestita
per
quegli
eventi,
sconfisse
i
Cartaginesi
vicino
a
Milazzo
(la
battaglia
navale
si
era
tramutata
in
uno
scontro
corpo
a
corpo
grazie
all’ingegnoso
sistema
d’abbordaggio
dei
corvi
adottato
dai
Romani);
in
seguito
ad
importanti
vittorie
di
Roma
nel
257-256
fu
dato
modo
di
spostare
il
teatro
di
guerra
in
Africa:
il
positivo
inizio
delle
operazioni
romane
culminò
con
la
sconfitta
e la
cattura
di
Marco
Attilio
Regolo,
che
aveva
in
precedenza
preteso
condizioni
giudicate
eccessive
durante
trattative
di
pace.
A
successive
fasi
alterne
della
lotta
seguì
l’azione
di
logoramento,
iniziata
nel
247
dal
generale
punico
Amilcare
Barca,
per
fiaccare
le
forze
romane
(che
avevano
rifiutato
una
nuova
proposta
di
pace);
ma
una
rinnovata
armata
navale
consentì
a
Roma
di
ottenere
la
vittoria
decisiva
alle
Egadi
(241):
la
Sicilia,
con
l’eccezione
momentanea
del
territorio
di
Siracusa,
divenne
possedimento
romano.
Cartagine
pagò
l’errore
di
valutazione
nell’aver
coinvolto
Roma
nello
scenario
mediterraneo,
di
conseguenza
costringendola
ad
adeguarsi
ad
una
politica
navale
di
rilievo,
e
l’abitudine
di
condannare
a
morte
i
generali
battuti,
cosa
che
compromise
le
capacità
dei
quadri
dirigenti
dell’esercito.
Le
prospettive
di
ripresa
punica
si
concentrarono
sull’espansione
in
Spagna,
il
che
turbò
i
Romani,
i
quali,
approfittando
dell’altrui
instabilità
interna,
tolsero
a
Cartagine
pure
la
Sardegna
(235),
che
unita
alla
Corsica
nel
227
diventò
altra
provincia
romana:
il
Mar
Tirreno
si
era
trasformato
in
un
Mare
Nostrum.
All’avanzata
cartaginese
nella
penisola
iberica
fu
inoltre
preteso
un
limite
a
nord
lungo
il
fiume
Ebro
(226).
La
rinascita
di
Cartagine,
agevolata
dalle
risorse
spagnole,
fu
celere,
tant’è
che
Annibale
Barca
giudicò
che
era
giunto
il
momento
della
rivincita
e
conquistò
Sagunto
(219),
in
terra
iberica,
alleata
dei
Romani.
Fu
di
nuovo
guerra.
Il
secondo
bellum
punicum
ruota
tutto
attorno
alla
sua
figura:
nel
218
dalla
Spagna
calò
in
Italia
oltrepassando
le
Alpi.
In
quel
periodo
Cartagine
non
aveva
timori
sul
fianco
egiziano,
mentre
sperava
nelle
complicazioni
che
potessero
provocare
ai
Romani
le
pressioni
macedoni
e
celtiche
dall’esterno.
I
Macedoni
impegnati
in
Grecia
non
poterono
prontamente
attaccare
Roma,
in
compenso
i
Punici,
che
ottennero
subito
un
paio
di
vittorie,
ingrossarono
le
loro
file
con
disertori
galli:
una
delle
aspettative
che
aveva
animato
Annibale
era
una
sollevazione
di
Italici
contro
Roma
tale
da
riportarla
alla
situazione
geopolitica
precedente
le
guerre
sannitiche.
Nonostante
i
Romani
subissero
rilevanti
sconfitte
e
l’ostilità
di
alcune
genti
meridionali
passate
al
nemico,
i
Cartaginesi
concentratisi
in
Puglia,
pur
continuando
a
vincere,
incontrarono
difficoltà
nei
tentativi
di
espugnare
i
centri
militari
antagonisti
e
non
riuscirono
a
demolire
la
tenuta
della
confederazione
romano-italica.
Inoltre
Siracusa,
alla
morte
di
Gerone
II,
schieratasi
nel
215
con
Annibale
tornò
l’anno
successivo
dalla
parte
dei
Romani.
Nel
215
un
tentativo
macedone
di
occupare
i
possedimenti
di
Roma
sull’Adriatico
orientale
fallì.
La
prima
fase
della
guerra
in
Spagna
(iniziata
nel
218)
ed
in
Africa
arrideva
ai
Romani.
I
Punici
nel
211
erano
giunti
a
pochi
chilometri
da
Roma,
ma
senza
l’intenzione
d’impegnarsi
in
un
pericoloso
assedio.
Annibale
aveva
trascurato
completamente
nel
suo
progetto
l’allestimento
di
una
flotta
per
il
trasporto
di
rinforzi.
La
contesa
proseguì
con
circostanze
alternate:
le
regioni
iberiche
perse
furono
rioccupate
assieme
a
tutta
la
Spagna
da
Publio
Cornelio
Scipione
(il
futuro
Africano),
il
quale
conseguì
vittorie
fondamentali
nel
209-207
che
privarono
Cartagine
delle
ricchezze
spagnole.
Dal
210-209
Annibale
cominciò
ad
indietreggiare:
il
fratello
Asdrubale
passato
come
lui
con
un
esercito
dalle
Alpi
fu
sconfitto
ed
ucciso
(207);
la
penisola
era
quasi
del
tutto
ritornata
sotto
il
potere
romano
poiché
il
primo
rimasto
senza
aiuti
ripiegò
verso
l’estremo
sud.
Sul
fronte
macedone
il
conflitto
si
concluse
nel
205
con
un
accordo
che
privava
i
Punici
di
un
importante
alleato.
Senza
più
inquietudini
ai
fianchi
orientale
ed
occidentale
Roma
guardava
verso
l’Africa
per
concludere
le
ostilità.
Publio
Cornelio
Scipione,
sebbene
il
Senato
non
fosse
favorevole
all’impresa,
vi
sbarcò
nel
204
trovando
il
sostegno
dei
Numidi
guidati
da
Massinissa
(contrari
a
quelli
filopunici):
i
Cartaginesi
ormai
chiedevano
la
pace,
però
due
negoziati
non
ebbero
successo;
l’ultimo
per
via
del
ritorno
in
patria
di
Annibale
(203),
richiamato
per
fronteggiare
i
Romani
(nello
stesso
anno
il
fratello
Magone
aveva
cercato
infruttuosamente
di
portare
nuove
milizie
puniche
in
Italia).
L’acerrimo
nemico
di
Roma
fu
irrimediabilmente
vinto
a
Zama
alla
fine
del
202:
la
città
di
Elissa
aveva
perso
la
guerra
ed
il
suo
ruolo
di
potenza
mediterranea,
le
furono
imposte
pesantissime
condizioni
di
resa
che
cancellarono
le
ambizioni
della
politica
espansionistica
promossa
dalla
fazione
interna
barcide,
che
alla
fine
si
rivelò
essere,
negli
sbagli
di
giudizio
e
nella
sua
inasprita
attuazione,
causa
della
sua
rovina.
Annibale
fu
esiliato,
inviso
all’oligarchia
punica
per
le
conseguenze
del
suo
operato,
e
dietro
pressione
romana,
nel
196;
nel
183
si
suicidò,
dopo
una
vita
spesa
a
odiare
e
combattere
fino
all'ultimo
con
ogni
mezzo
Roma,
per
evitare
di
essere
catturato
vivo
dai
suoi
avversari
di
sempre.
Quantunque
ridotta
al
solo
territorio
africano
e
senza
forza
militare,
Cartagine
rifiorì
economicamente:
il
timore
che
queste
risorse
potessero
essere
sfruttate
da
altri
a
loro
discapito
indusse
i
Romani
alla
decisione
radicale
di
cancellare
l’insediamento
urbano.
Sono
note
le
parole
di
Catone
il
censore
(234-149):
«Ceterum
censeo
Carthaginem
esse
delendam».
Nel
contesto
di
un
conflitto
numida-punico,
che
violava
l’imposta
clausola
di
non
belligeranza
senza
consenso,
Roma
propose
la
ricostruzione
dell’abitato
sull’entroterra.
I
Cartaginesi
rifiutarono:
la
città
fu
assediata
(149-146),
espugnata
e
quindi
totalmente
distrutta.
Le
sue
terre
divennero
la
nuova
provincia
d’Africa.
Alla
fine
di
questo
terzo
bellum
punicum
il
Mediterraneo
centroccidentale
era
saldamente
sotto
il
controllo
dei
Romani.