N. 83 - Novembre 2014
(CXIV)
ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
DALLA FILOSOFIA DEL XIX SECOLO A PIRANDELLO E DALÌ - parte iI
di Giulia Elena Vigoni
“E
tu
chi
sei?
”domandò
il
bruco.
Alice
rispose
timidamente:
“ io
a
questo
punto
quasi
non
lo
so
più
signore.
O
meglio,
so
chi
ero
quando
mi
sono
alzata
stamane,
ma
da
allora
credo
di
essere
stata
cambiata
parecchie
volte!”.
Pirandello
è
sicuramente
uno
degli
interpreti
più
acuti
della
“crisi
dell’io”;
la
considera
una
serie
di
stati
incoerenti,
che
suscita
nei
personaggi
angoscia
ed
orrore
nel
vedersi
vivere,
nell’esaminarsi
dall’esterno
come
sdoppiato.
Attraverso
un’attenta
analisi
della
realtà
Pirandello
porta
a un
definitivo
tramonto
l’idea
classica
di
individuo
forte
e
razionale,
dimostrando
la
fragilità
della
condizione
umana.
Il
mondo
esterno
viene
visto
e
vissuto
attraverso
il
filtro
della
nostra
soggettività,
è
impossibile
che
la
conoscenza
di
esso
sia
univoca.
È
quindi
inutile
cercare
una
realtà
unica,
eterna
e
universale,
perché
la
realtà
esterna
è
una
costruzione
diversa
per
ogni
uomo,
il
risultato
di
un
lungo
processo
graduale
che
si
sviluppa
in
stretta
dipendenza
con
l’esperienza
personale.
L’
umorismo,
che
è
alla
base
del
romanzo
di
Pirandello,
nasce
dalla
riflessione
che,
concentrandosi
su
un
sentimento
e
scomponendolo
nei
suoi
aspetti
contraddittori,
ne
fa
sorgere
un
altro,
opposto,
ma
nonostante
ciò
autentico
e
definito
dall’autore
il
sentimento
del
contrario.
L’uomo
osserva
il
mondo
e
cerca
di
farsi
di
esso
delle
idee
generali
da
usare
come
guida
certa,
poiché
non
potrebbe
sopportare
l’idea
di
un
mondo
sempre
diverso,
in
continua
mutazione.
Quel
mondo
nel
quale
si
trova
immersa
proprio
Alice;
mondo
nel
quale
entra
spinta
dalla
curiosità,
ma
mondo
che
non
riesce
a
sostenere.
L’uscita
dal
sogno,
dal
Paese
delle
Meraviglie,
dettato
dalla
collera
per
l’eccesso
di
assurdità
della
dispotica
Regina
di
Cuori
che
spinge
la
bambina
a
dichiarare
“Non
siete
altro
che
un
mazzo
di
carte!”,
ristabilisce
la
divisione
tra
animato
e
inanimato,
riaffida
ogni
cosa
al
suo
posto
e al
suo
ruolo.
È
frase
temibile
e in
un
certo
senso
feroce,
perché
dissolve
il
Paese
delle
Meraviglie
e lo
vanifica,
perché
è la
scelta
di
Alice
a
favore
del
mondo
della
normalità,
dove
le
viene
assicurata
una
perlomeno
ragionevole
follia
invece
della
follia
totale
ed
esasperata.
L’atteggiamento
di
Alice
è
l’atteggiamento
dell’umorista
pirandelliano,
che
si
spinge
con
la
riflessione
sempre
più
lontano
dalle
illusioni
di
cui
è
preda
l’uomo,
si
toglie
la
maschera
ed
arriva
così
a
concepire
la
vita
come
un’
enorme
messinscena,
una
fantasmagoria
meccanica
che
può
frantumarsi
per
un
nonnulla,
e a
scorgere
nel
mondo
quell’abisso
profondo
che
è la
mancanza
assoluta
di
senso.
Uno
degli
episodi
più
interessanti
del
romanzo
è
quello
in
cui
Alice
prende
il
tè
con
il
Cappellaio
e la
“compagnia
dei
matti”
perché
gli
estremi
che
accosta
sono
quelli
da
una
parte
della
massima
serenità
e
padronanza
della
propria
identità
e
del
proprio
tempo,
dall’altra
del
massimo
sfacelo
e
disintegrazione
di
quell’identità.
Il
tempo
descritto
dal
Cappellaio
matto
è
l’appagamento
di
ogni
desiderio,
la
pienezza
del
vivere,
una
capacità
così
consolidata
da
annullare
le
situazioni
penose,
ma è
anche
il
tempo
della
perdita
di
controllo,
del
disagio
senza
via
d’uscita,
dell’immobilità
e
della
paralisi.
“Dovreste
imparare
a
usare
un
po’
meglio
il
vostro
tempo,
invece
di
sprecarlo
con
degli
indovinelli
senza
soluzione”
L’umorista
è
colui
che,
proprio
come
Alice,
ha
compreso
il
gioco
consolatorio
creato
dall’uomo
per
nascondere
a se
stesso
la
tragicità
della
vita
e
che
quindi
cerca
di
mostrare
l’assurdità
di
tale
gioco.
Umoristi
sono
i
protagonisti
di
buona
parte
della
produzione
teatrale
e
letteraria
pirandelliana.
Si
assiste
all’autodistruzione
di
un
individuo,
causata
dall’acquisita
consapevolezza
dell’impossibilità
di
darsi
una
forma
coerente
ed
autentica
e
della
falsità
dei
rapporti
che
ci
legano
agli
altri.
L’uomo
non
sa
più
se è
quello
che
crede
di
essere
o
quello
che
credono
gli
altri
e
scopre
così
di
non
essere
nessuno.
Vitangelo
Moscarda,
protagonista
di
“Uno,
nessuno,
cento
mila”
arriva
però
alla
terribile
conclusione
di
non
essere
centomila
solo
per
gli
altri,
ma
anche
per
sé:
emozioni
e
desideri
ci
condizionano
a
tal
punto
da
farci
cambiare
continuamente
forma,
fino
a
farci
diventare
solo
una
metamorfosi
continua
di
noi
stessi;
decide
così
di
distruggere
le
immagini
di
sé
che
sono
negli
altri
e in
lui
stesso,
ma
per
raggiungere
tale
obiettivo
si
deve
irrimediabilmente
estraniare
dalla
realtà
e da
quelle
credenze
su
cui
si
basa
il
nostro
io.
Accetta
di
alienarsi
totalmente
della
sua
personalità,
rifiuta
addirittura
qualsiasi
nome
o
identità
personale
abbandonandosi
gioiosamente
al
mutevole
fluire
della
vita,
lasciando
che
“la
vita
si
viva
di
lui”,
morendo
ogni
attimo
e
rinascendo
sempre
nuovo
senza
fissarsi
in
alcuna
forma
se
non
in
quella
della
disidentità
che
equivale
alla
follia
ovvero
l’elemento
centrale
della
produzione
artistica
di
Salvador
Dalì,
il
grande
maestro
surrealista.
Il
Surrealismo
riprendeva
e
sviluppava
la
ricerca
iniziata
dal
Simbolismo,
che
vedeva
nell'immagine
non
la
rappresentazione
della
realtà,
ma
la
rivelazione
di
tutto
ciò
che
sfugge
al
mondo
della
ragione.
Si
voleva
cioè
rappresentare
la
realtà
interiore
dell'uomo,
quella
appartenente
alla
sfera
dell'inconscio.
Le
opere
di
pittura
e di
scultura,
miravano
così
alla
creazione
di
un
mondo
fantastico,
che
contemplava
nell'inverosimile
la
fusione
di
realtà
e
sogno.
"L'unica
differenza
fra
me e
un
pazzo
è
che
io
non
sono
pazzo".
Così
amava
definirsi
Salvador
Dalì
che
naturalmente
non
era
pazzo,
ma
si
compiaceva
nel
definirsi
un
essere
fuori
dal
comune.
Nelle
opere
di
Dalì
per
prima
cosa
tutti
osservano
i
soggetti
rappresentati.
Spesso
assurdi,
inquietanti.
Ma
se è
vero
che
le
sue
allucinazioni
dipinte
altro
non
sono
che
immagini
desunte
dal
suo
vissuto
onirico,
è
anche
vero
che
un
particolare
rilievo
lo
assumono
attraverso
il
contrasto
con
gli
sfondi
appartenenti
ai
suoi
dipinti.
Il
Surrealismo
per
Dalí
era
l’occasione
per
far
emergere
il
suo
inconscio,
secondo
quel
principio
dell’automatismo
psichico
teorizzato
da
Breton.
E a
questo
automatismo
psichico
Dalí
diede
anche
un
nome
preciso:
metodo
paranoico-critico.
La
paranoia,
secondo
la
descrizione
che
ne
dà
l’artista
stesso,
è:
«una
malattia
mentale
cronica,
la
cui
sintomatologia
più
caratteristica
consiste
nelle
delusioni
sistematiche,
con
o
senza
allucinazioni
dei
sensi.
Le
delusioni
possono
prendere
la
forma
di
mania
di
persecuzione
o di
grandezza
o di
ambizione».
Dunque
le
immagini
che
l’artista
cerca
di
fissare
sulla
tela
nascono
dal
torbido
agitarsi
del
suo
inconscio
(la
paranoia)
e
riescono
a
prendere
forma
solo
grazie
alla
razionalizzazione
del
delirio
(momento
critico).
Da
questo
suo
metodo
nacquero
immagini
di
straordinaria
fantasia,
tese
a
stupire
e
meravigliare
grazie
alla
grande
artificiosità
della
loro
concezione
e
realizzazione.
La
tecnica
di
Dalí
si
rifà
esplicitamente
alla
pittura
del
Rinascimento
italiano,
ma
da
esso
prende
solo
il
nitore
del
disegno
e
dei
cromatismi,
non
la
misura
e
l’equilibrio
formale.
Nei
suoi
quadri
prevalgono
effetti
illusionistici
e
complessità
di
meccanismi
che
rimandano
inevitabilmente
alla
magniloquenza
ed
esuberanza
del
barocco
iberico.
Nel
1929
Dalì
dipinse
il
suo
primo
quadro
surrealista:
«Il
gioco
lugubre».
In
esso
appare
in
primo
piano
una
figura
maschile
di
spalle
con
mutande
sporche
di
escrementi.
Questo
particolare
suscitò
notevole
sconcerto
tra
gli
altri
surrealisti
decretando
già
le
prime
distanze
tra
Dalí
e il
gruppo
di
Breton.
In
questa
fase
della
sua
pittura
Dalí
fa
largo
ricorso
agli
spazi
prospettici
molto
dilatati
in
cui
inserisce
una
notevole
quantità
di
elementi
(uomini,
animali,
oggetti)
secondo
procedimenti
combinatori
irrazionali.
In
queste
figure,
e
nei
loro
rapporti,
la
deformazione
si
inserisce
come
ulteriore
elemento
di
sconcerto.
In
seguito
la
sua
pittura
tende
a
trovare
una
sinteticità
più
netta,
in
cui
la
concentrazione
su
pochi
elementi
permette
al
quadro
di
esprimere
contenuti
più
chiari
ed
univoci.
È il
caso
di
un
quadro
come
«La
persistenza
della
memoria»
dove
Dalì
crea
una
delle
sue
immagini
più
celebri:
quella
degli
orologi
deformi.
Al
metodo
paranoico-critico
si
collegano
una
serie
di
immagini
di
virtuosistico
effetto.
Si
tratta
di
immagini
doppie,
dove
la
combinazione
delle
figure
fa
apparire
più
cose
simultaneamente.
Scrisse
Dalí:
«Attraverso
un
processo
nettamente
paranoico
è
possibile
ottenere
un’immagine
doppia,
rappresentazione
di
un
oggetto
che,
senza
la
minima
modificazione
figurativa
o
anatomica,
sia
al
tempo
stesso
la
rappresentazione
di
un
oggetto
assolutamente
diverso».
In
questo
gruppo
di
opere
rientrano
alcuni
dei
quadri
più
famosi
di
Dalí,
quali
«Apparizione
di
un
volto
e di
una
fruttiera
sulla
spiaggia»,
«L’enigma
senza
fine».