N. 9 - Settembre 2008
(XL)
in automobile con
Carlo Placci
la febbre del
viaggio
di Carlotta Moreni
Se dai tempi dei
precoci fautori del turismo quali Montaigne, Sidney,
Platter, Bouchard, i cui diari di viaggio nascono
da impressioni riportate sulla carta e da
annotazioni individuali, alle soglie della seconda
metà del XIX secolo, come per tutto il primo
Novecento, la febbre del viaggio è contagiosa per
l’intera Europa degli aristocratici, forse spinti
alla fuga da una condizione frustrante connessa alla
decadenza dell’originaria posizione. La portata del
fenomeno è tale da non rimanere entro i confini di
una vera e propria letteratura di viaggio.
è di moda
viaggiare informati, anche attraverso la stampa
periodica: se in Francia la “Revue des deux mondes”
pubblicava i ricordi di viaggio di Dumas, Hugo e molti
altri, in Italia, l’”Illustrazione Italiana” pubblicava
regolarmente cronache di viaggi corredate da
straordinarie illustrazioni, con preferenza paesi
esotici. Nel contesto italiano tra Otto e Novecento, ad
esempio, la letteratura di viaggio è un genere che si
avvale di molte firme oggi in parte dimenticate.
Il vero protagonista
fin de siècle, per molti aspetti, si può riconoscere
nell’intellettuale cosmopolita, artefice di un’art de
vivre profonda ed effimera al tempo stesso. Il
dilettante, ozioso e frivolo all’occorrenza è tuttavia
attraversato da una perenne inquietudine talora
sperelliana, tal altra sconfinante in una sorta di
reverie gualdiana. E’ sotto questa luce che ci
appare il professor of enjoiment, per ricorrere
alla squisita definizione coniata da Mario Praz in
omaggio a Carlo Placci, modello di un cosmopolitismo e
di un edonismo intessuti del culto della Bellezza e
dell’Arte, leit-motive estetizzante della sua
generazione. Nell’applicazione di un principio di vita
fondato sull’aspirazione perenne a provare quante più
impressioni può dare l’esistenza, egli incarnò lo
spirito esistenziale del cosmopolita, il cui iter
letterario è legato indissolubilmente a quello umano,
alimentato da esperienze uniche, come i contatti
allacciati con larga parte degli intellettuali europei e
le mete raggiunte sulle principiali rotte mondane, che
lo spinsero a scrivere vestendo i panni del di arista
stendhaliano.
Così tra avanguardie e
dannunzianesimo, con i piedi ancora affondati nelle
estetiche fin de siècle, Carlo Placci offriva ai
lettori del 1908 In automobile, come testimone di
una temperie di entusiasmi per il contemporaneo trionfo
del progresso. In automobile, rispondeva ai
dettami della moda del tempo testimoniata da un nutrito
filone letterario in cui l’immagine della macchina
s’affermava in quanto simbolo del progresso, ma
soprattutto della libertà individuale. Il volume
accoglieva nei suoi diciotto capitoli una parte
significativa della lunga collaborazione di Placci alla
rivista fiorentina il “Marzocco”; quadretti a sé stanti,
disposti l’uno accanto all’altro, organizzati in una
forma letteraria oscillante tra letteratura di viaggio e
memorialistica, nulla di più congeniale per uno
scrittore che, agli occhi dei suoi contemporanei, meritò
l’appellativo di “ultimo degli stendhaliani”.
Stendhal scrisse una guida
di Roma ad uso del viaggiatore colto ed elevato; Placci
scrive un testo come In automobile per gli
automobilisti “artistici”, come egli ama definire i
nuovi viaggiatori, e dal momento che la grande
rivoluzione avviata dalla strada ferrata, dall’
“orribile mostro” carducciano, è proseguita con
l’automobile, ne deriva che “per descrivere lo stile
automobilistico è l’ultimissimo che s’impone”. Quel
tempo affrettato impresso alle descrizioni, molte delle
quali buttate giù nelle soste in automobile, segna anche
il tempo della nuova epoca, profetizzato e
cristallizzato, più di settanta anni prima, nella
narrazione di “une occasion de sensation” come fu
l’Italia per il grande francese. La schematicità rapida
del taccuino di viaggio suggellava la poetica
dell’immagine istantanea, casuale, interrotta, espressa
da una sequenza di istanti in successione; in questo
senso, Placci valorizza la modernità di Stendhal,
“precursore straordinario di quel che amiamo adesso”.
Gli scritti
“automobilistici” del Placci, tuttavia, indugiano su un
paesaggio antropico, scivolando in una sorta di racconto
della società europea tra la fine dell’Ottocento e il
primo decennio del secolo successivo. L’automobilismo
artistico e antropologico di Placci alterna ad alcune
tappe intellettuali o mondane, come Bayreuth o l’Engadina,
altre più insolite, come il “primitivo” Abruzzo, le
Marche e la Puglia. E se nel primo caso abbondano le
citazioni letterarie e artistiche, di fronte alla terra
del Mezzogiorno invece, “tanto africana per lacuni suoi
aspetti”, solcata da tratturi tortuosi, o nelle isolate
incursioni dettate dalle mode dilaganti (come nel caso
della trasferta abruzzese effettuata sulla scia
entusiasta del Trionfo dannunziano) egli veste i
panni del viaggiatore affascinato e privilegiato al
tempo stesso, in compagnia dell’amico Bernard Berenson.
Nascono così nuove mete di viaggio mentre si instaura un
rinnovato rapporto tra viaggiatore e paesaggio
circostante. |