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N. 24 - Dicembre 2009 (LV)

i caratteri della monarchia macedone
assoluta o costituzionale?
di Chiara Matarese

 

Un regno tra Greci e barbari

 

Aristotele, nell’operare una classificazione delle forme di governo nella Politica, individua due forme di monarchia: la basileía e la tyrannis.  L’elemento di differenza maggiore riguarda il trattamento che i sudditi si trovano a subire sotto le due forme di governo. Mentre la “tirannide” è “dannosissima per i sudditi” (Aristotele, Politica, V, 1310b.5.), la basileía si basa sul valore personale del sovrano o della famiglia regale, sui servizi resi alla comunità. La dignità regale si fonda sull’essere beneffatore del popolo e delle città, mentre il tiranno bada esclusivamente all’utile personale. Gli esempi citati da Aristotele vanno da Codro a Ciro, “ai re dei Lacedemoni, dei Macedoni, dei Molossi” (Aristotele, Politica, V, 1310b.39-40.).

 

Anche Isocrate ha ben chiara la differenza tra regalità e tirannia: nel Filippo (154) invita il padre di Alessandro a essere benefattore dei Greci, a regnare sui Macedoni e a esercitare il comando sui Barbari aggiungendo però che il potere deve essere esercitato sempre “con i modi propri non del tiranno ma del re”.

 

Da un lato si definisce il potere macedone come basilikós (“regale”), dall’altro si esprime la consapevolezza delle differenze che interessano popoli diversi. I Macedoni non sono certo barbari, ma non sono nemmeno greci, o almeno non sono considerati tali. In questo senso va un altro passo (106-108) in cui l’oratore si congratula con il fondatore della dinastia argeade che “ha abbandonato completamente le regioni greche e ha voluto stabilire in Macedonia il suo regno”. Queste testimonianze sono ancora più significative perché di una voce favorevole al re macedone Filippo. In un altro luogo (127), nel momento in cui esorta Filippo a sfidare il Gran Re, Isocrate distingue tra “gli altri discendenti di Eracle che sono legati alla costituzione e alle leggi della loro patria e Filippo che viene definito áphetos (Il termine áphetos significa letteralmente “lasciato a sé”, detto di animali lasciati liberi al pascolo, di animali sacri e perciò liberi da ogni lavoro (Platone, Protagora 320); per estensione è attribuito con lo stesso significato anche a persone, alle quali l’aggettivo apporta connotazione di sacralità:es. “libero nelle dimore del dio”: Euripide, Ione, 822 ).  

 

Cenni storici sulla regalità macedone e sua evoluzione sotto Filippo II

 

Probabilmente il popolo macedone apparteneva agli ultimi gruppi di invasori di ceppo indoeuropeo giunti nella penisola balcanica. Per la loro posizione geografica periferica erano rimasti a lungo isolati fino a quando nel VII sec. comparve un potere centralizzato la cui esistenza è testimoniata dalla necropoli di Ege. I re macedoni appartenenti alla famiglia dei Temenidi, giunta in quell’epoca da Argo iniziarono a trasmettersi il potere reale in linea ereditaria. A partire dal VI-V sec. si fecero costanti le relazioni commerciali con la crescente potenza ateniese e furono emesse le prime monete: il coniare monete è un chiaro segno di sovranità e testimonia come l’autorità del potere  centrale e regale sul territorio fosse riconosciuta.

 

I re macedoni asserivano la propria origine greca. Alessandro I ottenne che gli arbitri dei Ludi olimpici riconoscessero lui come principe greco e i suoi sudditi come “nazione” greca; fu proprio a partire dal regno  del Filelleno che si manifestò in maniera costante la volontà dei diversi sovrani di assimilare i modelli culturali greci. Furono molte le personalità dell’ambiente letterario e culturale greco ad essere accolte a corte (tra tutti, Euripide e Tucidide). Sembra che alla corte di Perdicca III il filosofo accademico Eufreo di Oreo insegnasse la geometria e la dialettica. Le relazioni tra la società macedone e il mondo greco si fecero più intense quando Filippo II (359-336) estese il potere del sovrano macedone al di fuori dei confini della Macedonia. In un primo momento conquistò la Tessaglia e la penisola calcidica. Nel 346, anno della “pace di Filocrate”, Filippo occupò le Termopili. Da quel momento potè contare all’interno della Anfizionia Delfica sui due voti che sino ad a quel momento erano stati dei Focesi. Gli ambasciatori di Filippo sedevano accanto ai legati delle altre stirpi greche: ciò significava che il processo iniziato con Alessandro I era concluso e il re macedone era ormai accolto definitivamente nella comunità dei Greci.

 

A partire dal 338 il sovrano macedone assunse un ruolo gerarchicamente superiore a tutti gli altri soggetti politici greci. In seguito alla battaglia di Cheronea le città greche “furono private della loro libertà” (Licurgo, Leocrate, 50). Nel 337 inviati di tutte le città, ad esclusione di Sparta, si radunarono a Corinto per sancire la pace comune (koinè eirhénhe) e la nascita di un’alleanza politico-difensiva a tempo indeterminato tra il sovrano macedone, Filippo II, e i Greci confederati riuniti nel Sinedrio. Nel seno del Sinedrio venne sancita la pace comune. Il proclama di Corinto (IG, II, 236) sancisce il divieto dei membri di sollevare le armi gli uni contro gli altri e l’obbligo di fornire aiuto militare all’alleato nell’ambito della tutela della pace comune. Giurando fedeltà alla “regalità” di Filippo e dei suoi successori, gli alleati si sottomettono all’autorità del sovrano macedone a cui è attribuito il titolo di hegemhón della Lega. L’idea di Filippo, seguita poi da Alessandro, fu quella di utilizzare la Lega per perseguire i propri obiettivi politici.

 

Il progetto di Filippo era la spedizione in Asia che si configurava come la naturale prosecuzione dell’occupazione della penisola calcidica e della Tracia. La propaganda macedone presentò la guerra come una guerra panellenica: la guerra in Asia si configurava come la continuazione delle Guerre Persiane, la vendetta che i Greci si sarebbero presi contro i barbari che avevano osato profanare i templi degli dei patrii. Non solo una guerra panellenica dunque ma anche una guerra sacra. Che si trattasse di pura propaganda è chiaro dal fatto che, al tempo delle guerre persiane, l’allora re Alessandro I faceva parte in realtà dell’entourage di Serse. Dopo che fu decretata dal sinedrio della Lega, la spedizione iniziò nella primavera del 336 con l’invio di un esercito al comando di Parmenione e Attalo al di là dell’Ellesponto ma nell’autunno di quello stesso anno Filippo trovò la morte. Alessandro accolse l’eredità paterna. La sua conquista dell’Asia determinò un contatto permanente tra culture greca e orientali, costituendo la base del fenomeno dell’Ellenismo.

 

Per quanto riguarda il regno macedone lo spirito sostanzialmente greco sarà il suo elemento denotativo rispetto ai regni asiatici nati dalla frammentazione dell’impero di Alessandro tanto che, per esempio, non abbiamo nessuna notizia che attesti l’esistenza di un culto dinastico degli Antigonidi di Macedonia.

 

Titolatura del sovrano macedone

 

Per conoscere la natura e i caratteri della regalità macedone si può partire dall’esame della titolatura del re macedone: si tratta di vedere come la persona del re viene definita in vari documenti. Tale procedimento ci permette di indagare quelli che sono i caratteri peculiari della regalità macedone.

 

L’osservazione della ricorrenza di determinati titoli nei documenti a nostra disposizione mostra chiaramente come la monarchia macedone fosse caratterizzata dall’assenza di rigidità nel sistema burocratico e nel protocollo reale. Questo aspetto è trasversale alla storia della Macedonia e la contraddistingue anche in epoca ellenistica rispetto alle altre cancellerie reali.

 

Tuttavia Aymard ha ritenuto a lungo che la formula “giuridicamente corretta e ufficiale” del re macedone fosse basileús Makedónhon

sulla base di una quantità esigua di documenti epigrafici nei quali comunque si riscontra questa formula:

 

1.Iscrizione di Cassandreia (Dittenberger, 332)in cui Cassandro, basileús Makedónhon Kassandros, conferma la cessione di alcune terre a  Perdicca figlio di Ceno;

2.Iscrizione di Labdeia (IG, VII, 3055) in cui Amyntas Perdikkas Makedonhon è nominato all’inizio di una lista di visitatori dell’oracolo di Trifonio;

3.Come anche i documenti del punto  4. e del punto 5., riguarda Filippo V (221-179): si tratta della dedica per la vittoria del re a Delo apò thon katà ghèn aghónhon (Dittenberger, 573);

4.Dedica a Lindo, in seguito alla vittoria di Filippo sui Dardani (Blinkenberg, I, 2);

5.Dedica della Stoà di Filippo a Delo (Vallois, I, p. 155 sgg.).

 

Tuttavia Errington ha mostrato come ognuna di queste testimonianze non sia da considerarsi significativa nel senso voluto da Aymard.

 

Per quanto riguarda il punto 1. Errington spiega la formula come un’affermazione solenne di legittimità del potere del re: Cassandro, in questo contesto doveva dichiararsi come unico ad avere il diritto di confermare (e quindi rendere legittimo) l’atto della cessione di terre. Per quanto riguarda le altre testimonianze, si tratta di documenti non attribuibili alla cancelleria macedone e quindi scevri di pretese di rappresentare qualcosa di “ufficiale”. In più, in riferimento al punto 2.  Errington afferma che esso rappresenterebbe un atto di propaganda nei confronti di uno dei candidati possibili, a pochi mesi dalla morte di Filippo. Inoltre non sarebbe da sottovalutare il fatto che iniziare una lista con un nome noto sottolineandone l’autorità avrebbe dato lustro all’oracolo. Il punto 3. e 4. si riferiscono a vittorie del sovrano, una di carattere sportivo, l’altra militare: all’interno di una dimensione elogiativa ben si inserisce il riferimento ai sudditi sui quali il re vittorioso esercita la propria sovranità. Anche per l’ultimo punto l’ottica è quella celebrativa di un sovrano che, forte del suo potere, sfida Attalo il quale, nello stesso luogo, aveva elevato proprio una stoà.

Nel 1974 Errington non poteva tenere in considerazione l’iscrizione successivamente trovata a Dion.


In essa si ritrova la
stessa formula del punto 1. (Hatzopoulos, II, 23): si tratta di una dedica a Zeus fatta direttamente a nome del sovrano. Anche in questo caso il riferimento etnico ha una precisa motivazione di propaganda: Cassandro si mostra “re dei Macedoni” di fronte ai suoi compatrioti ai piedi del monte Olimpo, uno dei luoghi simbolo della religiosità macedone. Del resto, lo stesso Cassandro nelle occasioni di normale amministrazione era invece semplicemente basileús Kassandros. Con tale formula è indicato per esempio in un’iscrizione da Cassandreia (che è lo stesso luogo di provenienza dell’iscrizione del punto 1.) per l’occasione della concessione dell’ateleia (immunità) a un cittadino della polis (SEG, XLVII, 940).

 

Passando all’uso epistolare, l’analisi dei documenti mostra come il re fosse semplicemente basileús quando comunicava all’interno del proprio territorio senza che questo generasse pericoli di ambiguità. Probanti in questo senso iscrizioni dell’epoca di Filippo V in cui si trova semplicemente: basileús Philippos basilehos Demetriou (“re Filippo, figlio di re Demetrio”).

 

Il suffisso Makedhónhon si trova solamente al di fuori dell’area di controllo con lo scopo di rendere immediata l’identificazione del sovrano ed evitare fraintendimenti.

 

Dall’analisi che abbiamo proposto possiamo concludere che la titolatura del sovrano macedone non può supportare l’attribuzione di un carattere nazionale alla basileia macedone e quindi l’ipotesi che tale elemento influenzi quelli che sono i poteri del basileús e il modo di esercitarli.

 

I poteri del re macedone

 

Andremo ora ad analizzare nel dettaglio quali fossero i poteri del re macedone cercando di delimitarne i limiti.

 

Callistene ricorda come la dinastia macedone proveniente da Argo esercitasse il potere “non con violenza ma secondo legge” (oudè bíai allà nómhoi)lo fa in polemica con Alessandro (Arriano, Anabasi IV, 11.6). Si potrebbe quindi dedurre che il re macedone, nell’esercizio del potere dovesse sottomettersi alla legge. Tuttavia bisogna ricordare che la parola nomos contiene un’ambiguità: essa deve essere intesa come norma scritta oppure nel suo significato originario di maniera abituale di agire, che non sottopone a nessun obbligo giuridico ma semmai a un obbligo di tipo etico? Secondo Anson in questo caso è chiaro che Arriano si stia riferendo non al diritto costituzionale ma ad un’indicazione del diritto consuetudinario. Non vi è cioè in Macedonia nessun potere o nessuna norma superiore al potere personale del re.

 

Il re controllava personalmente gli affari esteri, prima di tutto in qualità di generale a capo dell’esercito macedone. Quest’ultimo, noto come uno dei corpi armati più efficienti del mondo antico, fu riorganizzato proprio da Filippo II che ne fece lo strumento di controllo sul territorio all’interno e soprattutto all’esterno della Macedonia: come ogni monarca che si prefigga obiettivi “imperialistici” il suo potere doveva basarsi sull’appoggio di un esercito militarmente eccellente. Per questo motivo egli aggiunse alla cavalleria pesante (hetaíroi) e alla cavalleria leggera una particolare forma di fanteria, come evoluzione dell’invincibile battaglione tebano, la falange, costituita di fanti corazzati e armati di scudo e di una lancia lunga 5-6 metri, la sarissa. Questo tipo di armata contribuì alla fama di invincibilità dell’esercito macedone, nonché alle vittorie di Alessandro in Oriente.

 

Inoltre era volontà del re occuparsi personalmente delle relazioni politiche: le ambascerie erano inviate a lui personalmente ed egli in persona si preoccupava di concludere alleanze senza usufruire di intermediari del “popolo” macedone.

 

Tuttavia formule d’uso nella lingua dei trattati sembrano indicare come il popolo macedone avesse un certo peso nella gestione della prassi politica. Nell’iscrizione di Delo che ricorda la battaglia di Sellasia (222) che vide la vittoria di Antigono Dosone contro Cleomene III si legge: basileús Antigonos basilehos/Demetriou kai Makedones/kai hoi symmachoi apò thes perì/Sellasias máchhes Apollhoni (“Re Antigono figlio di re Demetrio e (i) Macedoni e gli alleati ad Apollo per la battaglia di Sellasia” (Dittenberger, 518)).

 

Holleaux ha focalizzato la sua attenzione sui termini basileus e Makedones concludendo che i due elementi costitutivi dello Stato macedone fossero il re da una parte e la “nazione macedone”dall’altra: l’azione del re quindi sarebbe non soltanto sul popolo ma anche con il popolo. Tuttavia Errington nota come non si possa cogliere il significato di quel Makedones senza metterlo in relazione con il successivo symmakoi (“alleati”); infatti vi sarebbe la necessità di tenere distinti i Macedoni dagli altri membri della Lega in quanto i primi ricoprono un ruolo primario all’interno di essa come fornitori della maggior parte dei contingenti militari. Vero è anche che questo ruolo primario deriva loro dal fatto di essere i sudditi diretti del capo della Lega che, come ai tempi di Filippo II, è appunto il re macedone.

 

Una monarchia sacra

 

A porre la monarchia macedone sulla linea di un potere assoluto concorre il fatto che l’autorità del re era sancita anche e in primo luogo dal punto di vista religioso: nell’immaginario comune i membri della famiglia reale rimanevano i discendenti di Temeno di Argo che a sua volta era discendente di Eracle figlio di Zeus. La monarchia macedone possedeva quindi un carattere sacrale.

 

Per quanto riguarda le pratiche religiose, non esisteva in Macedonia una classe sacerdotale ma era il re a preoccuparsi di ottenere per il suo popolo il favore degli dei celebrando sacrifici e feste religiose. Significativo l’esempio di Alessandro. I sacrifici venivano svolti giornalmente (per questo Giustino (IX, 4.1) parla di solita sacra). Proprio al principio della spedizione, durante l’attraversamento dell’Ellesponto, egli sacrificò personalmente a Poseidone e alle Nereidi e allo stesso modo si preoccupò di adempiere ai suoi doveri fino a quando la malattia non gli impedì di muoversi (Arriano, VII, 25.3-6).

 

Il re e i sudditi:

 

1.L’ assemblea del popolo

 

Polibio (V, 27) e Arriano (V, 28.1) ci informano che i Macedoni in assemblea avevano uguale libertà di parola. Sulla base di questi passi Aymard ha affermato e sostenuto che la monarchia macedone fosse una monarchia costituzionale. Briant, suo sostenitore, si è ulteriormente sforzato di stabilire una distinzione tra assemblea dell’esercito e assemblea del popolo. Secondo lo studioso francese è l’esistenza di quest’ultima che giustifica la definizione della monarchia macedone come regime relativamente democratico. Briant si basa su un passo di Curzio Rufo (VI, 8.25) : “de capitalibus rebus vetusto Macedonum modo inquirebat exercitus-in pace erat vulgi- et nihil potestas regum valebat nisi prius valuisset auctoritas”. Tuttavia Lévy nota come i moderni si siano posti un falso problema e abbiano creato una distinzione che gli antichi non avvertivano: l’assemblea macedone rimaneva un’assemblea di cittadini maschi adulti, gli stessi che in tempo di guerra erano chiamati a impugnare le armi; (quindi semmai la discussione si può spostare sul fatto che in tempo di pace partecipassero o meno all’assemblea anche quei cittadini che per motivi di età o inattitudini fisiche erano impossibilitati a partecipare alla guerra).

 

I passi citati documentano l’esistenza dell’isegoría (“uguale facoltà di prendere parola”) all’interno dell’assemblea ma altri luoghi testimoniano come i Macedoni percepissero come loro diritto il rivolgersi liberamente al sovrano anche al di fuori del contesto assembleare. Tuttavia, constatare l’esistenza dell’isegoría non è sufficiente a considerare i sudditi, singolarmente o come comunità, un’entità politica. Allo stesso tempo non si può negare che alcuni testi riportino l’esistenza di un certo ruolo dell’assemblea. Si tratta di casi limitati ai processi capitali e alla nomina del re. Si rende perciò necessario esaminare questi testi per vedere quanto fosse effettivo il potere politico di tale assemblea.

 

1a.L’assemblea del popolo nei processi capitali

 

Dovremo cercare di comprendere se il ruolo dell’assemblea nei processi capitali fosse in qualche modo sancito o comunque costante o se si trattasse di una norma consuetudinaria o comunque non vincolante per il sovrano. La prima situazione che andiamo a esaminare è il processo a Filota. Curzio Rufo (VI, 8.1) riferisce che Alessandro, venuto a sapere che Filota tramava contro di lui, “Advocato tum consilio amicorum, cui tamen Philotas adhibitus non est, Nicomacum introduci iubet”.

 

Il consiglio conclude che Filota è colpevole e che debba essere costretto a fare i nomi dei suoi compagni nella cospirazione (Curzio Rufo,VI, 8.10-15). Il giorno successivo Alessandro convoca omnes armati (Curzio Rufo, VI, 8.23 e Arriano, III, 26.2) ma ormai la decisione è stata presa: la totalità dell’esercito non riveste nessun ruolo politico.

 

Diversa la situazione per quanto riguarda il processo ai paggi, quei giovani dell’aristocrazia macedone che ordirono una congiura ai danni di Alessandro (estate 327): Curzio Rufo sostiene che la questione fu posta innanzi a un frequens consilium (“un consiglio affollato” (Livio, XLII, 62.9)). Tuttavia Goukowsky sottolinea la particolarità del caso dato che si trattava di imputati “minorenni” e che non abbiamo prova del fatto che questa sia la norma, tantomeno qualora debbano essere giudicati uomini pienamente adulti. Conferma a quest’ipotesi si potrebbe trovare in Plutarco dove vengono riportate le parole di Alessandro in una lettera inviata ad Antipatro (Vita di Alessandro, 55): hoi paídes hupo thon Makedónhon kateleústhhesan, ton de sophisthèn (scil. Callistene) eghò kholasho (“i paggi sono stati giudicati dai Macedoni, ma il filosofo lo punirò io personalmente”).

 

Alla luce di queste testimonianze è difficile credere che l’assemblea del popolo avesse un potere effettivo in materia giudiziaria: tuttalpiù viene convocata nel momento in cui il re lo ritiene necessario, senza che il suo parere sia vincolante. Le adunanze dell’assemblea del popolo possono essere equiparate alle contiones della Roma repubblicana, assemblee  convocate e presiedute da un personaggio dotato di potestas o di una qualche auctoritas riconosciuta dalla comunità. Nessuno al di fuori di lui poteva intervenire senza il suo permesso e il popolo non esercitava alcun potere decisionale; le contiones quindi costituivano un importante strumento di comunicazione politica ma solo in una direzione: dall’elite al popolo. Sono queste anche le modalità con cui il generale si rivolge alle truppe: l’obiettivo è quello di testare la propria autorità davanti ad esse e mantenere un rapporto di fiducia con i soldati, condizione indispensabile per gestire una campagna militare. Così faceva Giulio Cesare e possiamo immaginare che Alessandro facesse altrettanto.

 

1b.L’assemblea del popolo e la scelta del monarca

 

Per ricercare un’eventuale coinvolgimento dell’assemblea nella scelta del sovrano guardiamo il caso di Filippo II, dato che le fonti fanno menzione di una partecipazione dell’assemblea alle fasi di esordio del suo regno. Diodoro riferisce che Filippo convocò assemblee plenarie prima di essere eletto (XVI, 3.1), mentre Giustino sostiene che accettò la carica perché “costretto” dal popolo (VII, 5.9). Sulla base di queste fonti Granier e Briant hanno sostenuto un coinvolgimento dell’assemblea nell’elezione del sovrano, intendendo l’uno l’assemblea dell’esercito, l’altro l’assemblea del popolo, secondo quella distinzione che abbiamo già notato essere discutibile. Tuttavia l’affermazione di Giustino è poco chiara mentre il riferimento di Diodoro si colloca quando Filippo è già re. Per questo Anson sostiene che l’atto di convocare l’assemblea avesse ancora una volta una finalità di “moral building” e non l’elezione del sovrano. Gli eventi successivi alla morte di Alessandro mostrano, secondo Levy, che anche qualora l’individuo avesse ricevuto una legittimazione da parte dell’assemblea questa non fosse sufficiente a considerarlo re. Per questo acquista grande significato la lite tra Perdicca e Tolomeo che si contendono le spoglie di Alessandro e il fatto che ciascuno dei Diadochi cerchi attraverso matrimoni di istituire legami di sangue con la dinastia del defunto re perchè questi funzionino da elementi di legittimazione. Sono rari i casi in cui l’intervento dell’assemblea può essere significativo nella scelta del sovrano; Levy ne distingue principalmente due: il caso dell’estinzione della dinastia regnante (e l’unico caso effettivo è il passaggio da Demetrio a Pirro nel 284) e quello in cui più pretendenti si contendono il titolo (anche se come abbiamo visto per Alessandro altri sono gli elementi di legittimazione essenziali).

 

Levy quindi conclude che sia per quanto riguarda il potere giudiziario, sia per la nomina del re, l’assemblea sembra essere non un organo di governo ma piuttosto un mezzo per il re per saggiare l’opinione pubblica e ottenerne l’appoggio.

 

2.L’aristocrazia

 

Tra i sudditi macedoni ve ne erano alcuni particolarmente vicini al re: si tratta degli hetairoi che costituiscono l’aristocrazia macedone e compongono le file della cavalleria. Essi sono i membri di quelle famiglie il cui potere risiede nel possesso di terre, ricchezze e nella nobiltà di nascita(come nel caso dei principi della Lincestide). Granier rapporta la regalità macedone ad un sistema patriarcale di tipo omerico delineando un potere basato su rapporti di fiducia e reciprocità tra il re e i suoi stretti collaboratori, gli hetairoi appunto. Hampl aggiunge che la donazione di terre da parte del re si configurava come contropartita del servizio militare reso: in questo modello di Heerkönigtum (monarchia militare) la conquista diverrebbe  una necessità dato che permetterebbe al re di proseguire la pratica delle donazioni. Hampl vede per esempio una prova di queste donazioni nel fatto che una parte consistente della cavalleria macedone di Alessandro proveniva da regioni periferiche della Macedonia: secondo lo studioso ciò significa che terre di recente  conquista in seguito all’ampliamento dei confini del Regno erano state date in dono proprio alla cavalleria.

 

Il legame re-nobiltà divenne particolarmente stretto sotto Filippo II. Il sovrano si mostrava particolarmente prodigo sia nei confronti della vecchia nobiltà, sia dei nuovi uomini che si univano a lui, ottenendo in questo modo di legarli sempre di più a sé. Filippo fondò l’istituzione dei paggi: Arriano afferma che il loro compito consisteva nell’aiutare il re a montare a cavallo “secondo il modo persiano” (IV, 13.1). I figli dei nobili più importanti ricevevano un’educazione a corte a diretto contatto con il re, sviluppando profondo attaccamento alla sua persona e configurandosi come garanzia del comportamento leale delle loro famiglie. Per quanto riguarda Alessandro le fonti mostrano come il re durante la campagna d’Asia interloquisca con loro, per esempio prima della battaglia di Isso, a Tiro (Arriano, II, 7.3; II, 16.8), in occasione dell’affare Filota (Curzio Rufo, VI, 8.1). Ma la testimonianza più significativa si riferisce al momento precedente la battaglia di Gaugamela. Arriano afferma: “Dopo aver radunato i Compagni (hetairoi), gli strateghi…si consultava se dovesse lanciare subito di là la falange, come i più invitavano a fare, o come invece pareva opportuno a Parmenione, per il momento dovesse porre il campo là…Prevalse il parere di Parmenione…” (Arriano, III, 9.3-4). Ciò mostra che durante la campagna in Asia Alessandro consultò gli hetairoi prima di prendere delle decisioni e che, almeno in alcuni casi, tenne in considerazione il loro punto di vista.

 

L’immagine della Macedonia che ricaviamo da queste osservazioni si avvicina più a quella di una monarchia assoluta piuttosto che ad una monarchia costituzionalmente limitata. Tuttavia, come abbiamo visto,  gli hetairoi presenti a corte, pur privi di un potere politico ufficiale, esercitano una certa influenza sul sovrano.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

AA. VV., The Cambridge Ancient History, II ed., Cambridge, 1988.

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