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N. 19 - Luglio 2009 (L)

I carabinieri romani nei lager
Incontro con Anna Maria Casavola

di Arturo Capasso

 

Ci conoscemmo negli ultimi anni dell’Università e subito ci sintetizzammo sulla stessa lunghezza d’onda verso i tanti problemi che avviluppavano il mondo giovanile.

 

Forse le uniche polemiche – ma sempre pacate e mai furiose – riguardavano le nostre convinzioni religiose.

 

Appena scrivevo un racconto, un breve saggio o un reportage di viaggio, correvo da lei per avere il suo parere.

 

Abitava dall’altra parte della città, a Piazza Stella, sede della Compagnia Napoli-Stella Caserma “Podgora”. Suo padre era maresciallo maggiore.

 

Faceva uno strano effetto entrare in quella grande caserma, con tanti carabinieri. E arrivando alla loro casa, la visione di dolci volti femminili era particolarmente gradevole e gradita.

 

Mi accoglieva sempre con un dolce sorriso, ascoltavo quanto le dicevo, a volte velocemente per non perdere il filo, le lasciavo i miei fogli e andavo via.

 

Leggeva attentamente tutto, aveva grande pazienza. Ci sentivamo per telefono - ed erano lunghissime conversazioni – o ricorrevamo al vecchio metodo dell’epistola. Pagine e pagine di osservazioni, commenti, puntualizzazioni.

 

Una volta laureato, andai fuori per lungo tempo e così ci perdemmo di vista

 

Un paio d’anni fa ho cercato Anna Maria e dopo vari tentativi ci sono riuscito. Le ho presentato Italo Carlo Sesti e insieme abbiamo concordato alcuni progetti editoriali.

Poi il mio caro direttore di Scena Illustrata si è ammalato e tutto è tornato nel limbo.

 

Da qualche giorno – gradita sorpresa – è sul mio tavolo l’ultimo lavoro di Anna Maria:

7 OTTOBRE 1943. La deportazione dei carabinieri romani nei Lager nazisti, Edizioni Studium.

 

Un lavoro di ricerca accurata, ricco di documenti e testimonianze, con il pregio di presentare una materia ostica in forma piana, direi godibile, se non fosse un argomento così triste.

 

Ho rivolto alcune domande ad Anna Maria, ma prima desidero fare qualche considerazione

 

Tempo fa ho scritto un articolo sulle radici dell’Europa annotando: ”In conclusione, l’Europa lancia una sfida. È una sfida che si basa su tradizioni millenarie, su culture stratificate e gratificate, sofferte e vissute. Non vorrei essere paradossale, ma anche i gulag e i lager sono patrimonio europeo, sono nostro sangue versato copiosamente. È una sfida basata sulla civiltà. E, perciò, sul buon senso”.

 

I diari di deportati nei due terribili centri di morte sono spesso affini.

 

Nel Diario storico personale di Carlo Sabatini, ampiamente riportato dall’autrice, si coglie a piene mani il dramma dei deportati verso la Germania e la Polonia: “… inizia così quel viaggio verso l’ignoto… durerà per giorni e diventerà ogni giorno di più un calvario per l’angustia dello spazio, l’aria inquinata, l’afa… Nell’interno dei vagoni si soffrono pene infernali per l’ambiente ristretto ed inquinato dai respiri affannosi e dalla polvere della paglia tritata fino all’impalpabile. Ogni tanto le porte dei vagoni vengono aperte per dare sfogo ai nostri bisogni lungamente trattenuti tanto che qualcuno ha dovuto adoperare a mo' di vaso la gavetta o qualche barattolo vuoto o addirittura le mutande per buttarle via quando finalmente si decidono ad aprire i portelloni”.

 

Leggiamo la testimonianza di Gustavo Herling (Un mondo a parte verso) l’altro universo concentrazionario. Siamo in una stazione di transito: “dormivano l’uno vicino all’altro sdraiati sui fianchi, ammucchiati insieme come aringhe in un barile, ed emanando un fetore inumano. Nella luce verde-giallastra delle lampade da notte, le facce dei dormienti, le loro bocche aperte, spalancate come buchi, sembravano maschere mortuarie di annegati. Nella notte, qualsiasi tentativo di aprirsi una strada attraverso la massa di corpi per raggiungere il secchio più vicino, di solito finiva con la morte di qualcuno. Se il piede si posava sul torace di un dormiente, che si sollevava o abbassava con l’inquieto respiro del sonno febbricitante, un breve gemito soffocato avvertiva di scostarsi; ma io stesso, ancora semi-incosciente per essermi svegliato d’improvviso, una volta camminai sulla faccia di un uomo. Una delle mie gambe si era incuneata tra due corpi, e per cercare di liberarla spostai tutto il mio peso sull’altra gamba, e sentii una massa spugnosa frantumarsi e scricchiolare sotto il mio pesante stivale, mentre il sangue sprizzava sotto la suola”.

 

Prima di rispondere alle domande, Anna Maria scrive :

 

“Anch’io voglio premettere qualcosa di personale: è stata un’amicizia di ragazzi che si è conservata sorprendentemente intatta nei cinquanta anni in cui nessuno ha saputo nulla dell’altro, tanto che quando ci siamo incontrati, a seguito di una tranquilla telefonata ed un appuntamento, abbiamo ripreso a parlare e ad interrogarci quasi sugli stessi argomenti di allora. La vita che avevamo vissuto in quei cinquanta anni sembrava esserci passata accanto. A me ha fatto enorme piacere che si sia interessato al mio libro e abbia desiderato di leggerlo: un libro è sempre autobiografico anche se parla di storia come il mio. Ed ora rispondo alle domande che Arturo mi ha poste”.

  

E veniamo al libro di Anna Maria Casavola. Le domande poste ripercorrono tutto il suo documentato e puntiglioso lavoro:

 

il disarmo e la deportazione; il valore del giuramento; le radio clandestine; i giorni dei prigionieri nel lager; i Carabinieri lasciati soli e le tristi vicende che ne scaturirono.
 

Le risposte di Anna Maria Casavola ad Arturo Capasso:

 

Le tante letture fatte sul tema delle deportazioni mi avevano permesso quasi di identificarmi con i miei protagonisti, quei carabinieri deportati da Roma il 7 ottobre 1943, ma certo molto mi ha aiutato il ritrovamento di quel diario del mar.llo Sabatini di cui ha parlato Arturo, perché un racconto storico non può essere una fiction.

 

Leggendo i documenti, mi ha colpito la modalità di questa deportazione ed ho sentito il desiderio di raccontarla: fatti affluire ignari nelle caserme in esecuzione di ordini, furono disarmati dai loro stessi superiori e colleghi e poi consegnati ai tedeschi.

 

Dirà il magg.Vestuti ex deportato: ”Ci fu tolto anche il conforto di aver ceduto in combattimento con le armi in pugno perché il giorno della cattura fummo fatti cadere in un tranello, tesoci dai tedeschi e dai non meno crudeli repubblichini”.

 

La deportazione come tutte le deportazioni ha inizio con l’incubo del treno ermeticamente chiuso, con l’angustia dello spazio, l’affollamento dei corpi, l’impossibilita di soddisfare i propri bisogni, l’angoscia di leggere nei volti dei compagni la stessa identica domanda: ”Dove ci stanno portando? Che sarà di noi?”. La percezione dell’impotenza deve essere terribile.

 

Con l’arrivo nel Lager si verifica la materializzazione dell’incubo: la perdita dell’identità, la riduzione a numero, gli appelli di ore per sfiancarli, gli ordini urlati, le botte.

 

Per fortuna i militari potevano conservare la divisa con la quale erano partiti, seppure logorata, a volte a brandelli rappresentava ancora il loro paese, il corpo di appartenenza, un modo di sentirsi italiani.

 

Nei Lager i carabinieri si confondono con tutti gli altri militari italiani prigionieri, tutti oggetto di un forte razzismo da parte dei tedeschi., considerati non soldati ma banditi, ribelli, chiamati con gli epiteti più spregevoli “porci, traditori, bastardi”.

 

Tutto questo perché dopo l’8 settembre gli italiani avevano rifiutato l’offerta di continuare a combattere al loro fianco. Il gen. Kesselring avuta notizia dell’avvenuto armistizio, la sera stessa aveva detto: ”Il governo italiano ha commesso il più infame dei tradimenti. Le truppe italiane dovranno essere invitate a proseguire la lotta al nostro fianco… altrimenti non vi è clemenza per i traditori”.

 

La figura giuridica di internato fu inventata da Hitler proprio per togliere a questi prigionieri ogni tutela ed anche l’assistenza della Croce Rossa Internazionale.

 

La sotto alimentazione o per meglio dire l’affamamento degli italiani fu una scelta politica dei nazisti per spezzarne la resistenza cioè la volontà più volte manifestata di opporsi con tutte le loro forze ad ogni forma di collaborazione con i tedeschi e, dopo la risurrezione dello Stato fascista in Italia, con la Repubblica di Mussolini I nostri militari si attaccano al giuramento fatto al re: il giuramento è una cosa sacra non ne potrebbero fare un altro.

 

Il rifiuto quasi plebiscitario dei militari italiani è uno dei più affascinanti interrogativi per storici e psicologi. Se il primo no dopo la cattura è un no istintivo che scaturisce probabilmente dalla stanchezza di una guerra che si percepisce perduta, i no successivi (perché l’opzione fu possibile fino a tutto il 44) acquistano più spessore e sono espressione del proprio senso dell’onore e della propria dignità di uomo calpestata dall’arroganza e brutalità nazista.

 

Insomma la possibilità di scelta offre loro uno spazio insperato di libertà che li fa sentire uomini, non oggetti in mano ai loro aguzzini, anche questi in definitiva li sentono uomini, infatti dagli italiani richiedono per l’opzione una articolata formula di giuramento che deve essere espressa a voce e sottoscritta, ha quindi una ritualità che non può essere sottovalutata.

 

Proprio questo rende gli italiani più convinti a rifiutare, a resistere nella consapevolezza che non si tratta tanto di salvare il corpo dalla fame e dagli altri patimenti, ma si tratta di salvarsi l’anima. Che fosse in gioco questa posta, non sfuggiva certamente ai loro aguzzini a cui non bastava obbligarli con la forza, ne volevano il consenso, l’adesione, la complicità.

 

Diversa la situazione degli ebrei, il cui destino era stato stabilito in partenza e a cui non si rimproverava nulla se non di essere quello che erano cioè ebrei, quindi non uomini.

 

Tra le tante testimonianze che ho trovato che esprimono questo concetto, bellissima mi è parsa quella di un sottufficiale, Domenico Lusetti, Lager11b Fallingbostel: ”Il tedesco con voce stridula grida e l’interprete traduce. 'Chi non è fascista alzi la mano'. Eravamo 2.000, consapevoli che stavamo per decretarci un destino di sofferenza forse di morte, ma tutti nessuno escluso abbiamo alzato la mano. Era una selva di mani e in quell’istante ci siamo sentiti Noi. L’ufficiale domanda ancora: 'Da dove vengono?' Da tutti i fronti è stata la risposta”.

 

Evidentemente ciò che li teneva saldi era la coscienza di fare qualcosa di giusto e di utile per il proprio paese, di riscattare se stessi e la patria. Dopo aver combattuto una guerra ingiusta a fianco dei nazisti, nel Lager si erano sentiti dalla parte giusta quella degli oppressi, delle vittime e non dalla parte dei carnefici.

 

Per questi motivi, per la eredità morale che quei resistenti ci hanno lasciato, la proposta di legge 1360, in discussione al Parlamento, che vorrebbe parificare i combattenti di Salò ai deportati, agli internati e ai partigiani, in omaggio ad una ipotetica “memoria condivisa,” va rigettata perché è non solo una falsificazione della storia ma vorrebbe addirittura far convive questa memoria eroica, che ci ha onorato e riabilitato come nazione, con quella di chi si è fatto complice delle nefandezze dai nazisti, e il discorso della buona fede, nel 43/44 è davvero assai poco sostenibile.

 

Le radio clandestine hanno indubbiamente alimentato la Resistenza nei Lager perché grazie ad esse gli internati conoscevano le notizie degli avvenimenti militari, a volte, prima dei loro stessi carcerieri tedeschi.

 

Gli italiani erano bravi a costruirle quasi dal nulla, bastava una valvola, il resto lo si fabbricava in casa e il complesso stava comodamente in una gavetta e funzionava così rapidamente – dice scherzosamente un illustre internato, Giovannino Guareschi – che appena Churcill da Radio Londra cominciava a parlare, per le baracche giravano i foglietti con la prima parte del discorso già tradotta.

 

La più famosa fu la radio Caterina costruita a Sandbostel da un ingegnere di Torino Oliviero Olivierio ora conservata a Padova nel Museo dell’Internato Ignoto.

 

L’occultamento di una radio era un reato gravissimo, parificato ad un attentato al Reich per cui costituiva per gli internati una sfida ad alto rischio, spesso venivano sottoposti a perquisizioni anche in piena notte, durante le quali si rimaneva nudi di fronte agli addetti che frugavano dovunque e spesso molti ufficiali sospettati di propagare notizie pagarono con il carcere duro o con lo Straflager

 

Come erano i giorni dei prigionieri nei Lager?

 

Per la truppa erano giorni di lavoro coatto, destinati da subito in Germania ai lavori più pesanti, nelle fabbriche di armi o nelle miniere o a sgomberare le città dalle macerie dopo i bombardamenti, pungolati da Kapò civili o da sorveglianti militari - agli italiani tra l’altro era fatto divieto di ripararsi nei rifugi in caso di allarmi - per loro il Lager era solo un dormitorio, uscivano all’alba per ritornarvi la sera. ”Non c’era né inverno né freddo né pioggia che ci facevano smettere di lavorare, sempre costretti a lavorare per non esser fucilati” così lamenta l’alpino Astolfo Landi.

 

Gli ufficiali mandati in Polonia almeno inizialmente riuscirono, appellandosi alla Convenzione di Ginevra del 1929, a non lavorare, per loro la giornata trascorreva nell’ozio ma anche nella depressione e nell’inedia, perché era più difficile procurarsi cibo, non avendo occasione di uscire dal campo. Per gli ufficiali che ci riuscirono si trattò di un’altra forma di resistenza, ma in molti casi – come il mio libro documenta – furono obbligati. al lavoro.

 

Dice il col. Testa, responsabile del campo Offlager 83 di Wietzendorf, che nonostante le loro proteste, gli ufficiali venivano portati di forza sotto i proiettori, spogliati del loro grado e fatti scegliere da impresari e contadini per i loro lavori. Comunque in genere gli ufficiali, avendo più tempo libero ed essendo più acculturati dei soldati, si sono dedicati di più alla scrittura, redigendo di nascosto dei diari, cosa che era severamente vietata, ma che come la costruzione di radio clandestine era un altro modo di fare resistenza.

 

Che cosa confortava le giornate dei prigionieri? Prima di tutto la speranza che un giorno la guerra sarebbe finita, poi il pensiero dei loro cari, la nostalgia di casa e dell’Italia, infine per molti la scoperta della dimensione religiosa.

 

Il tempo del Lager è stato infatti anche tempo di Dio. Moltissime sono le testimonianze in questo senso, che ho trovate come quell’abitudine nelle baracche ad intonare il rosario in comune, la sera.

 

Gli stessi tedeschi, loro malgrado, avevano dovuto permettere ai cappellani la celebrazione della Messa e la distribuzione della comunione al campo. In genere, importante supporto a non cedere alla depressione, nelle lunghe giornate della prigionia, erano le lettere che gli internati potevano ricevere o inviare, per quanto ridotte dalla censura a comunicazioni solo formali, erano il filo che attaccava alla vita e ai progetti per il futuro, alla voglia di farcela.

 

La deportazione dei carabinieri romani è solo una pagina della deportazione militare che ha interessato, come abbiamo detto quasi 700mila persone.

 

I carabinieri complessivamente deportati sono stati 5mila, di essi 620 sono i caduti in Lager secondo i dati dell’Ufficio Storico dell’Arma.

 

Quelli che sono rimasti in Italia o hanno abbandonato le caserme e sono affluiti nella Resistenza – non dimentichiamo il Fronte militare clandestino dei Carabinieri che ha affiancato quello di Montezemolo o sono transitati nella Guardia Nazionale Repubblicana.

 

Infatti in data 24 ottobre 1943 venne sciolta l’Arma e l’8 dicembre al suo posto costituita la GNR, che comprendeva insieme con i carabinieri la milizia fascista e la PAI.

 

Successivamente ai carabinieri fu imposta anche la camicia nera. Certamente si verificò uno sbandamento in seno all’Arma, dai vertici non ci furono direttive precise, ognuno si regolò in base alla situazione, alla convenienza, alla coscienza. Il giuramento alla RSI fu prestato dai carabinieri con riserva mentale, sicuri della sua non validità, trovandosi in stato di costrizione.

 

”Per scrivere una storia dell’Arma in quei due anni – dice il magg. Nulli – sarebbe indispensabile esaminare ciò che avvenne in ogni città ed in ogni comune, ricostruire attraverso deposizioni di militari e di civili ciò che avvenne in ogni più piccolo comando, rendersi conto della triste odissea che ogni appartenente all’Arma, ufficiale o gregario subì in quei tristi mesi nelle strettoie del più ingrato servizio, nel rischio continuo della vita alla macchia, nelle tristezze squallide della deportazione”.

 

Quali potevano essere i più ingrati servizi? La cattura degli ebrei, per esempio, poiché nella carta di Verona, fondativa della RSI, all’art.7 l’ebreo era parificato a nemico.

 

Come si comportarono i carabinieri? Ci sono esempi di carabinieri salvatori ed altri di carabinieri esecutori di ordini. Spesso prima di effettuare gli arresti cercavano di avvertire le persone, ebrei o partigiani che fossero. Per fornire i partigiani di armi si simulavano false aggressioni alle caserme e così via.

 

Questo comportamento non sfuggì ai fascisti che, evidentemente stanchi del loro doppio gioco, d’intesa con i tedeschi organizzarono l’8 agosto del 1944 una deportazione di massa dalle caserme in tutte le grandi città del Nord, in seguito alla quale i carabinieri scomparvero dall’Italia per ricomparire solo con la Liberazione.

 

Questa seconda deportazione ci fa comprendere che la RSI non era riuscita a piegarli né con le persecuzioni né con le offerte di carriera più facile o di più lauti stipendi, la tradizione aveva tenuto soprattutto nella truppa e nei gradi inferiori della ufficialità.

 

La proverbiale fedeltà al re che era fedeltà alle istituzioni, una volta ricostituitasi l’Arma, i carabinieri la trasferirono sul nuovo Stato, la Repubblica italiana e la sua Costituzione, che era nata dalle rovine del fascismo e dalla esperienza terrificante della guerra.


 

 

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