N. 20 - Gennaio 2007
CAOS
IN MEDIORIENTE
Tensione tra
Al Fatah ed Hamas
di
Daniel Arbib Tiberi
A
poche settimane dalla firma della tregua tra Israele e
palestinesi (una tregue che, per chiarirci, riguarda
la Striscia di Gaza), in Medioriente ritorna l’incubo
del caos. Il popolo palestinese è infatti sull’orlo
della guerra civile.
Le fazioni di Al Fatah
(che esprime il presidente Abu Mazen) e il governo di
Hamas (che invece esprime il Primo Ministro in carica
Ismail Haniyeh), si trovano oramai contrapposte su
quasi tutti i fronti.
Il fallimento dei
negoziati per un governo di unità nazionale, ha
portato il Presidente Abu Mazen, leader impegnato per
il raggiungimento della pace, ha dichiarare in un
discorso pubblico la necessità di sciogliere il
Consiglio legislativo della Autorità Nazionale
Palestinese e di svolgere elezioni anticipate.
In tutto questo, il 10
dicembre 2006, il leader politico di Hamas a Damasco
Khaled Meshal (un fallito tentativo di avvelenamento
alle spalle), ha rilasciato una intervista in cui
proponeva una hudna, ovvero una tregua, di
dieci ani agli israeliani e prendeva atto della
esistenza di Israele pur non accettando di
riconoscerne in pubblico la legittimità (per Meshal un
riconoscimento pubblico sarebbe equivalso ad una
legittimazione dell’occupazione dei Territori).
Ovviamente Israele non
ha potuto che respingere al mittente le offerte. Se
infatti all’epoca di Arafat la Conferenza di Madrid
(1991) si apriva senza ancora un cambiamento ufficiale
dello statuto dell’Olp (statuto varato nel 1964 e che
prevedeva tra i suoi scopi la cancellazione dello
Stato di Israele), oggi le cose sono radicalmente
mutate.
Nonostante i fallimenti
di quei negoziati (chiusisi nel 2001 a Taba con un
accordo storico solo sfiorato purtroppo) e nonostante
i numerosi attacchi terroristici, Israele riuscì per
alcuni anni a creare un canale di flebile fiducia con
i leader palestinesi. L’Olp, pur dipendendo in maniera
fortissima dai finanziamenti esterni e attuando
politiche ondivaghe, manteneva comunque una sua forte
capacità di agire.
Oggi Hamas, pur
dominando la scena interna, rappresenta un movimento
totalmente dipendente dagli ordini dei suoi
“benefattori”. Sono l’Iran e la Siria infatti a
mantenere la vera chiave decisionale. Le piccole
scelte sono certamente demandate all’elite locale ma
le grandi decisioni, quelle che per capirci servono
per arrivare alla pace, dipendono unicamente da realtà
esterne. Un fatto simile a questo stà accadendo ad
esempio con il movimento sciita di Hezbollah in Libano
per intenderci.
A fronte di ciò quindi
perché Israele dovrebbe accettare una lunga tregua
armata?
Dovrebbe dire si a un
movimento che mira ancora ufficialmente alla sua
distruzione e che approfitterebbe della calma per
continuare ad armarsi e a preparasi per lo scontro
finale?
Quale Stato potrebbe
accettare un foglio di apparenti buone intese senza
garanzie?
L’Iran in fondo non fa
che parlare giornalmente di distruggere Israele. Forse
sono solo parole, ma chi ha il coraggio di far
dipendere il proprio futuro da un forse?
Insomma, sebbene la
politica debba sempre continuare a fare il suo corso
(ovvero con Hamas si deve parlare di nascosto e si
deve cercare ogni varco possibile per mutarne
l’essenza), ciò non giustifica un arakiri da
parte di una nazione democratica.
Le belle parole, dette
per impressionare il pubblico mondiale, non possono
sempre avere il diritto di far nascere vacue speranze. |