N. 10 - Ottobre 2008
(XLI)
il
canguro di ghiaccio
storia di Steven
Bradbury
di Simone Valtieri
“C’era una volta, in una cittadina sperduta tra le
montagne dello Utah, un atleta venuto da un’isola
lontana, un’isola talmente grande che per comune
convenzione si è soliti definire come un continente...”.
Con questo incipit, probabilmente, un qualsiasi
narratore inizierebbe a raccontare la storia di Steven
Bradbury. Le cronache ci tramandano poco delle sue
origini e della sua vita privata, ma non importa. Quello
che ci interessa è la sua storia sportiva e più
precisamente, ciò che accadde la sera del 16 febbraio
2002, in quella “cittadina” dello Utah, che tanto
sperduta non è e che risponde al nome di Salt Lake City.
Steven Bradbury nasce il 14 ottobre 1973 a Camden,
Australia, una (stavolta sì) cittadina sperduta e
tranquilla di tremila abitanti nel Nuovo Galles del Sud,
a una manciata di chilometri da Sydney. Il giovane
Steven ha un hobby insolito per quella che è la
tradizione del suo Paese. Non gioca a rugby e neanche a
football australiano, non emerge nel nuoto e non ha, per
ora, nemmeno una particolare predilezione per i mezzi a
motore. Quella è prerogativa esclusiva di Matt Mladin,
campione della American Superbike e suo più noto
concittadino, almeno fino al 2002. Steven, invece, adora
pattinare, e neanche su rotelle, come sarebbe facile
immaginare in una cittadina dove gli inverni sono miti e
le estati torride, ma su ghiaccio. Impensabile, ma
tant’è: un canguro anomalo, che si trova a suo agio più
tra i pinguini che in mezzo ai suoi simili.
La disciplina in cui si specializza è lo short track,
letteralmente “pista corta”, parente del tradizionale
pattinaggio su pista lunga, presente nel programma
olimpico sin dagli albori. Lo short track differisce dal
suo fratello maggiore sia, come dice il nome, per la
lunghezza della pista, che misura 111 metri ed ha una
forma spiccatamente ovale, sia per la tipologia di gara.
La disciplina deriva infatti dalle gare di pattinaggio
di velocità con partenza in massa, diffuse nel Nord
America, a differenza del tradizionale speed skating
dove si gareggia due per volta a cronometro. Inoltre la
percorrenza è quasi esclusivamente in curva con una
tecnica particolare che consiste nell’appoggiare un
braccio su ghiaccio che funge come perno e permette una
maggiore velocità durante la parabola.
Il confronto diretto con l’avversario stimola Steven,
che diventa bravo, molto bravo, addirittura il più forte
nel suo Paese. E’ un giovane promettente quando, tra il
1993 e il 1994, trascina due volte sul podio dei
Mondiali la staffetta australiana e addirittura ottiene
la riconferma di questo piazzamento alle Olimpiadi di
Lillehammer 1994, contribuendo a conquistare la prima
medaglia assoluta per l’Australia in una edizione
invernale dei giochi olimpici. A livello individuale,
però, Steven paga il gap con i più quotati atleti
asiatici e nord-americani. Poco importa, lui ce la mette
tutta e continua a viaggiare per i vari continenti e ad
accumulare esperienza nelle gare di Coppa del Mondo. Il
destino, tuttavia, sembra avergli riservato una strada
lunga e tribolata per arrivare al suo sogno.
Pochi giorni dopo il rientro dalla Norvegia con il
bronzo al collo, Bradbury partecipa ad una gara di Coppa
del Mondo in Canada, a Montreal. Non è una gara
qualsiasi, è la finale che assegna gli ultimi punti
validi per conquistare la classifica generale. Steven
non è in lizza per la vittoria, ma può puntare a un
piazzamento di prestigio. Durante la gara, però, ha la
sfortuna di ritrovarsi nella pancia di una rovinosa
caduta e mentre scivola sul ghiaccio un altro
concorrente non riesce ad evitarlo e con il pattino gli
passa sopra una gamba. La lama, più affilata di un
coltello, recide di netto l’arteria femorale dell’arto
sinistro e il povero Steven rischia seriamente la vita.
In pochi minuti perde quattro litri di sangue, se
sopravvive lo deve soprattutto alla tempestività dei
soccorsi. Centoundici punti per chiudere la ferita,
curiosamente tanti quanti sono i metri di una pista da
short track. Pista che dopo questo infortunio non
avrebbe mai più dovuto calcare.
Eppure Steven è un ragazzo cocciuto, passa un anno e
mezzo in ospedale per la riabilitazione e sogna di
ritornare a macinare chilometri su quell’anello di
ghiaccio su cui sente di aver ancora qualcosa da
dimostrare. Il suo talento è però irrimediabilmente
minato dall’infortunio. Quando rientra nelle
competizioni non riesce a ripetere gli exploit dei suoi
primi anni, diventa un discreto pattinatore che può però
al massimo aspirare a passare qualche turno nelle gare
di coppa. La sua partecipazione a Nagano 1998 non è tra
le più esaltanti: termina al terzo posto la prima
batteria dei 1000 metri, non qualificandosi per i quarti
di finale, ed è terzo anche nella semifinale di
staffetta dietro a Sud Corea e Italia, fallendo il posto
in finale. In fondo va bene così, l’importante è
partecipare e non vincere, massima che vale per lui più
che per chiunque altro. Steven è però ancora giovane, ha
25 anni, e fissa il suo prossimo obiettivo: partecipare
alle successive Olimpiadi tra le montagne dello Utah.
Inizia a lavorare duramente e riscontra i suoi
miglioramenti giorno dopo giorno, fino a quando però nel
2000, durante una seduta di allenamento, cade, urta
violentemente sul ghiaccio e si frattura l’osso del
collo. Scongiurato il pericolo di rimanere sulla sedia a
rotelle, passa sei settimane con un collarino ortopedico
rigido senza la possibilità di muoversi e i successivi
mesi ancora in riabilitazione. Comunque Steven ce la fa.
Riesce a qualificarsi per le Olimpiadi, grazie anche
alla fortuna di essere nato in un paese atipico nella
tradizione del pattinaggio, dove è meno difficoltoso
emergere. Fosse stato un coreano avrebbe probabilmente
smesso nel 1994 e cercato altre vie.
A Salt Lake City si presenta senza troppe aspettative di
podio, ma ha una sicurezza: non può continuare ad essere
così sfortunato, è convinto che prima o poi la ruota
girerà anche per lui e che un passaggio del turno nella
gara dei mille metri, obiettivo massimo che Steven si
era prefissato per ritenersi soddisfatto, è possibile.
Non può che avere ragione. Si presenta ai nastri di
partenza della batteria fortemente motivato ma la
sfortuna sembra perseguitarlo anche durante il
sorteggio: i suoi avversari già al primo turno sono due
potenziali aspiranti all’oro olimpico. Apolo Anton Ohno,
superfavorito idolo di casa dagli occhi a mandorla
ereditati dal padre (un barbiere nato nel paese del sol
levante e trasferitosi con la famiglia negli Stati
Uniti), e il canadese Marc Gagnon, già bronzo a
Lillehammer nella gara in questione e considerato, a
detta dei tecnici, in forma smagliante (tanto che
vincerà l’oro nei 500 metri e il bronzo nei 1500 pochi
giorni più tardi).
L’australiano parte male, i due favoriti scappano e
davanti a lui c’è anche il giapponese Tamura. Non si dà
per vinto, recupera una posizione sull’atleta nipponico
che sbaglia l’ultima curva e taglia il traguardo al
terzo posto. Sarebbe eliminato se non fosse che la
giuria, ad onor del vero un po’ contestata in questa
edizione dei giochi per i presunti favori fatti
all’idolo locale Ohno, squalifica Marc Gagnon, che aveva
vinto la prova in 1 minuto, 28 secondi e spiccioli.
Steven arriva in semifinale: è il massimo che può
ottenere, è contento così. Si presenta ai nastri di
partenza con lo spirito di chi sa di non poter lottare
contro gli dei della specialità ed è deciso a godersi
l’atmosfera unica ed irripetibile di questa semifinale
olimpica.
Al via, accanto a Bradbury, il cinese Li Jiajun, il
canadese Mathieu Turcotte, il sudcoreano Kim Dong Sung e
il giapponese Satoru Terao, quattro mostri sacri dello
short track. Parte male anche qui, non tanto per un
qualche errore tecnico, ma perché se gli altri sono
delle Ferrari, tu povera Cinquecento fai poca strada
anche se azzecchi la partenza. All’inizio dell’ultimo
giro, quinto e finora staccato, Steven approfitta della
caduta del giapponese Terao a cinquanta metri
dall’arrivo per guadagnare il quarto posto, che a poco
serve visto che in finale passano i primi tre. Davanti a
lui però si agganciano Turcotte e Kim cadendo entrambi e
lasciando strada libera ad un incredulo Bradbury.
Steven è in finale olimpica, il sogno di ogni atleta, la
fortuna ci ha messo lo zampino ma intanto lui è lì, male
che vada spettatore privilegiato della gara più
importante di un quadriennio. Dietro le quinte del Delta
Center, il palazzetto del ghiaccio americano, tutti
iniziano a considerarlo come un portafortuna, c’è chi lo
tocca per provare a trasferirsi addosso un po’ della sua
buona sorte e c’è chi gli chiede esplicitamente di
prestargliene un po’, come se fosse una cosa seria.
Steven parte lontano dalla corda, il posto più
svantaggiato se non si dispone di un buon abbrivio. Ha
di fianco a sé ancora il cinese Li, il sudcoreano Ahn
Hyun-Soo, il ripescato Turcotte, che la giuria ha
ritenuto essere stato danneggiato da Kim in semifinale,
e il favorito Apolo Anton Ohno. Neanche a dirlo,
Bradbury parte lentissimo e all’inizio dell’ultimo giro
è staccato di una decina di metri dagli altri quattro
agguerritissimi pattinatori. A questo punto per Steven
arriva il momento di passare alla cassa e di riscuotere,
dopo anni di infortuni e calvari, il tanto credito
accumulato con la buona sorte. La dea bendata decide per
una volta di togliersi la fascia dagli occhi e di
vederci benissimo.
Gli atleti passano per l’ultima volta sul traguardo
prima dell’arrivo, Ohno è in testa. Sul breve rettilineo
opposto all’arrivo, il cinese prova a passarlo
all’esterno ma l’americano non ci sta e allarga il
gomito. Intanto all’interno prova ad approfittare della
bagarre il coreano, che si infila tra gli avversari ma
troppo velocemente e scivola in curva andando lungo. Il
cinese e l’americano si agganciano a dieci metri dalla
linea e cadono entrambi travolgendo anche il canadese
subito dietro. Uno sbalordito e tranquillissimo Bradbury
taglia il traguardo al primo posto in surplace, mentre
dietro si affannano arrancando sul ghiaccio, cercando di
riportarsi nei pressi della linea d’arrivo. Giungerà
secondo, scivolando sulle natiche, lo statunitense Ohno,
terzo Turcotte in spaccata.
L’impresa più incredibile della storia dello sport si è
compiuta. Un ventinovenne australiano, nella sua divisa
verde e col suo caschetto giallo guarnito dal numero
300, entra in maniera particolare e del tutto imprevista
nella storia delle Olimpiadi. In patria verrà celebrato
come un eroe. E’ il primo oro di un’atleta proveniente
dall’emisfero australe ai giochi olimpici invernali.
Le poste gli dedicheranno persino un francobollo da 45
centesimi per commemorare l’impresa e il 26 gennaio 2007
verrà decorato per meriti sportivi con la medaglia
dell’Ordine dell’Australia. Subito dopo la finale di
Salt Lake City, Steven decide che può bastare così:
appende i pattini al chiodo e si dà alla velocità,
quella automobilistica però, diventando pilota di
Formula Vee, una serie minore australiana, e
conquistando anche un paio di buoni piazzamenti. Della
sua impresa dirà: “Non ero certamente il più veloce, ma
non penso di aver vinto la medaglia col minuto e mezzo
della gara. L’ho vinta dopo un decennio di calvario”. |