N. 61 - Gennaio 2013
(XCII)
Il XX BATTAGLIONE ERITREO
L’IMPRESA D’ETIOPIA secondo MONTANELLI
di Massimo Manzo
Nel
maggio
del
1935
il
ventiseienne
Indro
Montanelli
si
imbarcava
come
volontario
per
l’Africa
orientale
partecipando
alla
conquista
italiana
dell’Etiopia,
il
cui
inizio
era
ormai
imminente.
Da
questa
straordinaria
avventura,
che
lo
stesso
Montanelli
ricorderà
sempre
con
nostalgia
negli
anni
seguenti,
nacque
un
romanzo
particolarissimo,
intitolato
“XX
battaglione
eritreo”,
dal
nome
dell’unità
indigena
alla
quale
il
giovane
fu
assegnato
col
grado
di
sottotenente.
Il
libro,
pubblicato
da
una
piccola
casa
editrice
nel
periodo
in
cui
il
suo
autore
si
trovava
ancora
in
Africa,
ebbe
un
notevole
successo
in
patria,
tanto
da
ricevere
entusiastiche
recensioni
da
parte
di
esponenti
importanti
della
cultura
italiana
dell’epoca.
Fino
a
tempi
recentissimi,
però,
non
fu
più
pubblicato,
entrando
nel
limbo
delle
opere
semisconosciute
del
grande
giornalista
toscano.
Tra
le
pieghe
di
questo
romanzo,
che
sarebbe
più
opportuno
definire
un
insieme
di
racconti
brevi
e di
memorie,
si
scorge
una
visione
originalissima
dell’impresa
coloniale
italiana,
lontana
sia
dai
resoconti
ufficiali
delle
battaglie,
sia
da
alcuni
memoriali,
spesso
di
scarsa
qualità
letteraria
e
infarciti
di
vuota
retorica.
Al
contrario,
in
XX
battaglione
eritreo,
Montanelli
racconta
una
guerra
diversa,
la
“sua
guerra”
in
Africa,
vissuta
in
prima
persona
in
mezzo
agli
eritrei
della
sua
unità.
Con
uno
stile
già
inconfondibile,
ma
ancora
grezzo,
il
giornalista
di
Fucecchio
riesce
così
a
coinvolgere
il
lettore
trascinandolo
in
un
mondo
fatto
di
paesaggi
maestosi
e
personaggi
che
sembrano
usciti
da
un
racconto
di
Kipling:
dal
maggiore
Gonella,
comandante
di
ferro
del
XX e
veterano
di
molte
campagne
africane,
a
Tesemmà
Uorché,
vecchio
e
fedelissimo
ascaro.
Sono
due
i
protagonisti
assoluti
del
racconto
montanelliano:
la
natura
dell’Eritrea
e
dell’Etiopia,
aspra
e
selvaggia,
e
gli
ascari
che
compongono
il
battaglione,
la
cui
devozione
agli
italiani
rasenta
l’idolatria.
Nei
riguardi
della
prima,
Indro
appare
a
tratti
stupito
dalla
sua
spoglia
magnificenza,
riuscendo
spesso
a
descriverla
efficacemente
in
poche
righe.
Sono
soprattutto
i
monti
del
Tigrai,
nell’altopiano
etiope,
a
colpire
l’immaginazione
di
Montanelli,
ispirando
alcune
delle
pagine
più
poetiche
dell’intera
opera.
Di
notte,
esso
assume
un
fascino
particolare:
“quando
si
veglia
ai
margini
del
bivacco
e
tutto
s’accende
di
fuochi
che
lo
punteggiano,
come
fossero
gli
occhi
fosforescenti
di
un
immenso
mostro
silenzioso.
Han
ragione
gli
ascari
che
nei
loro
canti
se
lo
rappresentano
come
l’ultimo
epigono
di
una
razza
di
giganti
partoriti
direttamente
dalla
Terra
che
li
concepì
in
un
amplesso
smisurato
col
Cielo
e
gli
danno
voci
e
sensi
e
aspirazioni
umane.
È
vivo,
infatti,
il
Tigrai,
anche
se
sono
spenti
i
crateri
dei
suoi
enormi
vulcani.
E
credo
anch’
io a
quel
che
si
dice:
che,
sotto
la
pelle
dura,
fluisca
un
sangue
ricco
di
ferro
che
ogni
tanto
spumeggia
anche,
e
s’incrosta
alla
superficie”.
Nei
confronti
degli
ascari
eritrei
al
seguito
delle
truppe
italiane
Indro
assume
un
atteggiamento
estremamente
curioso,
che
lo
porta
a
descriverne
in
modo
vivido
ed
accurato
i
comportamenti,
le
abitudini,
il
carattere.
Guerrieri
coraggiosi
per
natura,
gli
ascari
hanno
una
mentalità
fortemente
condizionata
da
superstizioni
e
riti
difficili
da
decifrare
per
un
occidentale.
Usanze
tipiche
di
una
società
preindustriale
che
non
possono
lasciare
indifferente
un
acuto
osservatore
come
Montanelli.
Gli
ascari
considerano
inoltre
i
loro
superiori
bianchi
alla
stregua
di
semidei,
talché
il
comportamento
degli
ufficiali
italiani
in
loro
presenza
deve
essere
ben
diverso
da
quello
al
quale
sono
stati
abituati
nelle
accademie.
Per
guadagnarsi
il
rispetto
degli
ascari
il
“Goitana”
bianco
non
può
tradire
la
minima
esitazione
nei
momenti
difficili,
e
quando
occorre
deve
amministrare
la
giustizia
in
modo
imparziale,
mostrando
freddezza
ed
inflessibilità:
“Coll’ascaro
quel
po’
di
crosta
democratica,
che
anche
in
noi
italiani
è
qua
e là
attaccata,
deve
cadere.
Tu,
ufficiale,
ricordati
che
sei
<<Goitana>>
e
impara
– è
l’ascaro
stesso
che
te
lo
insegna
–
che
questa
parola
racchiude
un
concetto
non
europeo.
Goitana
è
tutto:
non
soltanto
<<signore>>
come
in
genere
si
crede,
o
per
lo
meno
non
è
<<signore>>
che
nel
senso
più
alto,
qualcosa
che
sta
al
disopra,
il
motore
immobile,
l’Assoluto
[…]
Se
non
sei
attore,
devi
imparare
a
diventarlo:
devi
apparire
il
più
forte,
il
più
coraggioso,
il
più
saggio.
Il
primo
incontro
con
queste
truppe,
con
quell’imperativo
categorico
ch’esse
t’impongono
d’essere
un
Dio,
ti
dà
quasi
le
vertigini.
È
difficile
far
l’idolo…”
Si
instaura
così
uno
strano
dialogo
tra
ufficiali
e
indigeni,
che
inevitabilmente
conduce
ad
un
forte
legame
e ad
una
comprensione
profonda
della
reciproca
diversità,
cementata
dalla
guerra
combattuta
insieme.
Proprio
gli
avvenimenti
bellici,
in
XX
battaglione
eritreo,
appaiono
quasi
sempre
sullo
sfondo,
e
sono
vissuti
solo
a
sprazzi,
come
nel
caso
del
racconto
dell’eroica
morte
del
capitano
Ghizzoni,
narrata
come
un
intermezzo.
L’unità
di
cui
fa
parte
Montanelli,
d’altronde,
fu
impegnata
raramente
in
prima
linea
e
svolse
soprattutto
operazioni
di
retroguardia
scontrandosi
il
più
delle
volte
con
un
nemico
già
in
fuga.
Per
ricostruire
la
guerra
in
Etiopia
oggi
esiste
una
numerosa
bibliografia,
anche
molto
accurata;
ben
più
importante
per
il
lettore
moderno
è
invece
conoscere,
attraverso
il
racconto
di
Montanelli,
il
sentimento
che
animò
la
generazione
alla
quale
apparteneva
rispetto
all’impresa
d’Abissinia,
considerata
come
un
vero
e
proprio
riscatto
nazionale
dopo
l’onta
subita
ad
Adua
quarant’anni
prima.
Da
ogni
riga
del
libro
traspare
infatti
la
candida
certezza
di
un
ventiseienne
convinto
in
buona
fede
della
giustezza
di
quell’avventura
e
determinato
a
svolgere
con
zelo
il
proprio
dovere.
Leggendo
XX
battaglione
eritreo
inoltre,
si
possono
comprendere
a
pieno
le
posizioni
mantenute
negli
anni
da
Montanelli
sul
fenomeno
del
colonialismo
italiano,
che
lo
portarono
fino
alla
tarda
età
ad
un’aspra
polemica
con
lo
storico
Angelo
del
Boca.
La
permanenza
di
Indro
in
terra
d’Africa
durò
quasi
due
anni,
nei
quali
scrisse
tantissimo.
Fu
alla
fine
di
quel
periodo,
però,
che
la
sua
fede
nel
fascismo
cominciò
a
incrinarsi.
Con
essa,
terminarono
anche
le
certezze
e le
illusioni
della
sua
gioventù.