N. 19 - Luglio 2009
(L)
la CAMPAGNA ELETTORALE DEL '48
PArte
III -
Il plebiscito e la grandine
di Cristiano Zepponi
Venerdì
16
aprile
alcuni
grandi
comizi
chiusero
la
campagna
elettorale
per
le
elezioni
politiche
del
1948.
Togliatti
parlò
a
Roma,
in
una
Piazza
San
Giovanni
gremita
ma
incline
alla
sfiducia,
e
abbandonò
i
toni
misurati
per
rispondere
a De
Gasperi,
accusato
di
aver
detto
che
il
capo
del
Pci
avesse
“come
il
diavolo,
il
piede
forcuto”;
spiegò
allora
di
aver
pensato
alla
possibilità
di
andare
nelle
piazze
per
mostrare
di
possedere
“un
piede
come
tutti
gli
altri”,
ma
di
aver
repentinamente
cambiato
opinione:
“Mi
tengo
le
scarpe
ai
piedi,
anzi
ho
fatto
mettere
ad
esse
due
file
di
chiodi
e ho
deciso
di
applicarle
a De
Gasperi
dopo
il
18
aprile
in
una
parte
del
corpo
che
non
voglio
nominare”.
Che
si
trattasse
di
un
tentativo
per
rincuorare
i
militanti,
per
dimostrare
di
non
aver
lasciato
nulla
d’intentato
o
semplicemente
di
un
cedimento
del
buon
gusto,
si
discorre
da
sessant’anni.
Così
Massimo
Caprara
ricorda
gli
ultimi
giorni
di
campagna
elettorale
del
Pci:
“La
direzione
del
Pci
all’avvicinarsi
del
18
aprile
teme
l’intervento
americano.
I
dirigenti
del
partito
nei
giorni
delle
elezioni
si
allontanano
dalle
loro
case.
A
Botteghe
Oscure
sulle
porte
delle
varie
stanze
si
affiggono
cartellini
coi
nomi
dei
compagni
deputati,
affinché
se
la
polizia
avesse
fatto
irruzione
per
sequestri,
perquisizioni
o
arresti,
si
potesse
invocare
lo
status
di
sede
parlamentare.
Fin
dalla
sera
del
17
aprile
Togliatti
ed
io
da
soli,
ci
trasferiamo
nell’Istituto
Eastman,
quasi
nel
Policlinico:
era
un
posto
dove
nessuno
–
credo
–
avrebbe
immaginato
che
fossimo
nascosti,
Togliatti
trascorre
la
serata
leggendo
le
Odi
di
Orazio”.
L’
On.
Nilde
Jotti,
al
contrario,
raccontò
di
una
vigilia
tranquilla
del
leader
comunista;
come
quella
di
De
Gasperi,
che
dopo
aver
votato
nella
sezione
del
suo
quartiere
(alle
Fornaci)
si
diresse
nella
villa
di
Castel
Gandolfo.
Ma
che
il
clima
di
scontro
avesse
raggiunto
in
quell’occasione
il
culmine
è
dimostrato
dalle
dichiarazioni
del
Ministro
dell’Interno
Scelba,
ormai
noto
come
“lo
Sbirro”
nei
circoli
di
sinistra
che
lo
accusavano
di
corresponsabilità
politica
e
morale
per
le
decine
di
omicidi
di
sindacalisti
siciliani
vittime
della
mafia
e
rimasti
impuniti;
il
quale,
da
parte
sua,
rivelò
a
Piazza
del
Popolo
di
aver
chiesto
a De
Gasperi
“di
convocare
il
Consiglio
dei
Ministri
la
mattina
del
18
aprile
contemporaneamente
all’apertura
delle
urne,
e di
tenerlo
riunito
in
permanenza,
per
decretare
l’immediata
sospensione
delle
elezioni
qualora
fossero
pervenute
notizie
di
violenze
o di
tentativi
di
brogli
nelle
sezioni
elettorali”,
completando
a
distanza
di
mesi
lo
slogan
coniato
a
febbraio
(“O
votano
tutti
o
non
vota
nessuno”)
.
Stando
così
le
cose
non
furono
poche,
in
quei
giorni,
le
famiglie
ricche
–
specie
nelle
zone
“calde”,
in
primis
l’Emilia,
dove
il
clima
di
“resa
dei
conti”
si
avvertiva
maggiormente
–
espatriate
prima
del
18
aprile,
o
subito
dopo
aver
votato,
per
paura
che
il
‘plebiscito’
si
risolvesse
a
loro
svantaggio:
“So
di
alcuni
che
hanno
predisposto
un
primo
passaporto
per
la
Svizzera
e un
secondo
per
l’Argentina
e
che
a
mezzogiorno
della
data
fatidica
saranno
già
a
Chiasso
o a
Lugano
a
tender
ansiosi
l’orecchio
alle
presunte
convulsioni
ed
eversioni”,
riferì
in
proposito
Arturo
Carlo
Jemolo
su
“La
Stampa”.
Durante
le
operazioni
elettorali
non
si
registrarono
tuttavia
gravi
incidenti,
ma
solo
sporadici
episodi
che
“anche
quando
sono
di
una
certa
gravità,
non
hanno
mai
assunto
una
forma
da
impressionare
gli
elettori
[…]
Si è
quasi
sempre
trattato
di
azioni
individuali,
non
imputabili
ai
partiti
come
tali,
e
soltanto
raramente
azioni
di
masse
organizzate
[…]
Le
votazioni
si
sono
potute
svolgere,
quindi,
in
piena
libertà
e
con
una
percentuale
altissima
di
elettori,
specialmente
nei
centri
cittadini.
Incidenti,
brogli
ed
abusi
si
sono
verificati,
ma
sono
stati
contenuti
in
limiti
talmente
modesti,
per
il
pronto
intervento
delle
competenti
autorità,
che
non
hanno
avuto
ripercussioni
ed
influenza
di
rilievo”,
secondo
il
parere
dei
Prefetti.
Alla
fine,
dunque,
la
parola
passò
ai
27
milioni
di
italiani
(il
92%
degli
elettori)
che
si
recarono
alle
urne,
sorvegliati
dai
330
mila
uomini
che
lo
stesso
Scelba
aveva
schierato
a
garanzia
dell’ordine
pubblico
e
incoraggiati
dai
tre
giorni
di
“ferie
elettorali”
stabiliti
per
evitare
incidenti
al
momento
della
proclamazione
dei
risultati.
Fino
al
20,
il
margine
d’incertezza
consentì
ad
entrambi
gli
schieramenti,
all’“Unità”
come
a
“Il
Popolo”,
di
rivendicare
la
vittoria;
poi,
nel
corso
della
mattinata
del
21,
ogni
dubbio
scomparve:
De
Gasperi
aveva
trionfato.
La
Dc
(forte
di
12.741.0000
voti)
balzò
dal
35,2%
del
2
giugno
del
1946
al
48,5%
accaparrandosi
305
seggi
su
574
(la
maggioranza
assoluta)
alla
Camera
e
131
(maggioranza
relativa)
al
Senato;
il
Fronte
piombò
dal
39,7%
(raccolto
dal
vecchio
Psiup
e
dal
Pci)
al
31%,
eleggendo
183
deputati
alla
Camera
e 72
al
Senato;
le
liste
di
Unità
socialista
ottennero
un
buon
risultato
(7,1%,
33
deputati),
al
contrario
di
repubblicani
(2,5%)
e
liberal-qualunquisti.
Oltre
all’alta
affluenza
alle
urne,
va
sottolineata
in
questa
sede
la
notevolissima
percentuale
di
voti
validi
(il
97,8%
di
quelli
espressi).
De
Gasperi
commentò,
valutando
l’ampiezza
della
vittoria:
“Credevo
che
piovesse,
non
che
grandinasse”;
e
come
lui
rimasero
stupiti
la
gran
parte
degli
osservatori,
tratti
in
inganno
dall’affluenza
oceanica
ai
comizi
frontisti.
Il
dato
politico
incontrovertibile
fu
rappresentato
dalla
portata
della
sconfitta
frontista:
“I
risultati
furono
più
neri
delle
più
nere
previsioni.
La
Democrazia
Cristiana
passò
dagli
8
milioni
di
voti
del
1946
ai
12
milioni
del
1948
[…]
Il
grande
guadagno
lo
fa
la
Democrazia
Cristiana”,
scrisse
con
grande
sincerità
Giorgio
Amendola.
Il
Fronte
raccolse
8,5
punti
percentuali
meno
del
’46,
e
particolarmente
sensibile
fu
l’arretramento
del
Psi
di
Nenni,
capace
di
eleggere
solo
39
deputati
contro
i
115
presenti
nell’Assemblea
Costituente.
“Le
elezioni
del
18
aprile
sono
state
l’ultima
occasione
per
tentare
nel
’48
ciò
che
avremmo
dovuto
tentare
nel
’45
e
cioè
la
scalata
al
potere”,
scrisse
Nenni,
deluso;
come
lui
la
“base”,
specie
al
Nord,
accolse
male
la
notizia
della
sconfitta,
imbevuta
com’era
di
teorie
sull’inevitabile
crollo
del
capitalismo
e
sulla
definitiva
presa
del
potere,
e
rivolse
la
rabbia
contro
i
dirigenti,
fautori
di
una
linea
giudicata
fin
dall’inizio
troppo
“morbida”.
Togliatti,
da
parte
sua,
accolse
inaspettatamente
bene
la
notizia,
ed a
Franco
Rodano
confessò
che
“erano
i
risultati
migliori
che
potevamo
ottenere.
Va
bene
così”.
Le
sinistre,
scopertesi
indebolite,
puntarono
il
dito
contro
“il
ricatto
della
fame”
(Togliatti),
i
brogli
elettorali
(Lelio
Basso),
le
scissioni
(prima
fra
tutte
quella
di
Saragat),
la
paura
(“Come
mai
ci è
sfuggito
il
senso
di
paura
al
quale
dobbiamo
la
sconfitta?”,
si
chiese
ad
esempio
Nenni),
l’egoismo
comunista
(ancora
Nenni),
l’alleanza
tra
le
principali
‘centrali
reazionarie’
e
l’assimilazione
delle
destre
e
dei
fascisti;
ma
dovettero
confrontarsi
con
un
massiccio
arretramento
nel
Nord
(soprattutto
in
Trentino
Alto
Adige
e
Friuli
Venezia
Giulia,
rispettivamente
con
un
-26%
e
-22%,
seguite
dalla
Lombardia,
-17,3%,
dal
Piemonte,
-16,7%,
dalla
Liguria,
-15,3%),
nelle
zone
tradizionalmente
“amiche”,
nei
distretti
operai
e
nei
centri
industriali:
“il
5/7%
a
Genova,
Savona,
Torino,
Novara;
l’8/10%
a
Milano,
Bologna,
Ferrara,
Modena
ecc.
Insomma,
poiché
il
fenomeno
riguarda
l’intera
Italia
centro-settentrionale,
sono
almeno
un
milione,
e
forse
un
milione
e
mezzo,
gli
elettori
che,
avendo
due
anni
prima
manifestato
un
orientamento
di
sinistra,
votano
questa
volta
per
il
partito
di
De
Gasperi”;
a
cui,
senza
dubbio,
vanno
aggiunti
gli
spostamenti
di
voti
verso
Unità
socialista.
A
peggiorare
le
cose,
si
scatenarono
vivaci
recriminazioni
per
l’assegnazione
sperequata
dei
seggi
frontisti:
dei
183
deputati
eletti,
infatti,
solo
41
rappresentavano
il
Psi,
mentre
gli
altri
(140
circa)
appartenevano
al
Pci,
meglio
organizzato,
capace
di
predisporre
i
“bloccaggi”
delle
preferenze
in
modo
più
disciplinato
ed
efficiente
e
favorito
dalla
sfasatura
tra
le
previsioni
della
vigilia
e
risultati
conseguiti.
In
un
quadro
così
fosco
passò
in
secondo
piano
il
buon
risultato
ottenuto
dal
Fronte
al
centro-sud,
dove
in
effetti
si
era
guadagnato
qualche
posizione:
a
Napoli
(dal
14,9%
del
Psiup/Pci
nel
1946
al
20,5%),
e
soprattutto
a
Roma
(dove
si
passò
dal
24,8%
al
27,1%).