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N. 19 - Luglio 2009 (L)

la CAMPAGNA ELETTORALE DEL '48
PArte II - propaganda e paura

di Cristiano Zepponi

 

Lo scontro propagandistico costituì la vera novità nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche del 1948: scesero in campo santi, miti, pregiudizi e timori, paure ataviche e isterie collettive, imbrogli e doppi sensi, sarcasmi e antiche rivalità, e poi slogan, richiami, sbeffeggi e bassezze, tutto il repertorio improvvisato di un’Italia che si lasciò andare ad una lotta insieme casalinga ed internazionale, paesana ma ideologica, comiziale o metafisica.

 

Relativamente alla Calabria (ma il discorso può allargarsi senza forzature) il sopracitato Leonida Repaci tinteggiò l’affresco variopinto di un’umanità dominata da un grandioso “intrallazzo della paura”, capace di prendere “il pezzente timoroso di vedersi socializzare il somarello, la gallina, i pidocchi” come “la madre di famiglia” spaventata all’idea che l’America chiudesse l’intervento assistenziale, il “travet” timoroso di “perdersi nella massa indifferenziata del proletariato”, l’elettorato campagnolo femminile terrorizzato dall’inferno e la “bruttissima agit-prop convinta che la vittoria del Fronte avrebbe istaurato il libero amore”.

 

In questo clima, i Comitati Civici scesero in campo; e schierarono in prima linea una novità assoluta: la “Madonna pellegrina”, trasportata in solenni processioni serali, scenografiche e suggestive.

 

Questa pratica, simbolo della crociata anti-comunista in Italia, fu in realtà introdotta in Francia (con il nome di “Peregrinatio Mariae”) a partire dal 1943, quando quattro riproduzioni della statua di Notre Dame de Boulogne attraversarono il paese tra Te Deum, campane, odi e cori sacri; la novità era costituita dal fatto che Maria, per la prima volta, si recava direttamente dai fedeli, che da parte loro abbandonavano sempre più spesso la pratica cristiana: in Italia la pratica si caricò di suggestioni scenografiche e si estese alle fabbriche, dove l’effige era trasportata in visita agli operai.

 

Maria, carica dei simboli della maternità, dell’amore e del dolore, scortata spesso da sindaci ed amministratori, fu spesso usata come grimaldello, come passe-partout dalla Chiesa per penetrare negli ambienti più ostili e difficili, “nelle zone di lunga tradizione socialista, tra i braccianti in lotta per la terra, tra gli operai inaspriti dalle difficoltà materiali e dalla messa in dubbio di tante speranze” con un compito d’intermediazione nel riavvicinamento a Dio e di evangelizzazione.

 

Divenne infine un canale d’orientamento politico, dato che “solo nel pieno riconoscimento delle virtù mediatrici di Maria […] il fedele accumula le energie spirituali necessarie per porsi come docile strumento nelle mani del magistero ed instaurare secondo i suoi insegnamenti l’ordine voluto da Dio nel mondo”.

 

Anche in questo senso si spiega l’insistenza della propaganda mariana nel periodo; ed insieme l’esplosione di processioni (a Napoli, in marzo), prodigi (ad esempio ad Assisi, dove a febbraio accorsero migliaia di fedeli richiamati dai movimenti della statua della Vergine) e avvistamenti mariani, di cui avremo modo di riparlare.

 

Parallelamente proliferarono enti solidaristici, patronati, attività sociali, forme varie di militanza politico-religiosa, “giornali parlati” (com’erano definiti gli altoparlanti, particolarmente indicati nelle regioni a più alto tasso d’analfabetismo), opuscoli, depliant, forme di propaganda murale, manifesti (fino al secondo o terzo piano dei palazzi).

 

L’offensiva cattolica, in particolare, si avvalse di tutti gli strumenti disponibili per la propaganda di massa. In primis – stracciando clamorosamente il Fronte - del cinematografo, oggetto di un assalto senza precedenti di assetati fruitori capace di totalizzare 588 milioni di biglietti venduti nel 1948, con una media di 1 milione e 600.000 spettatori al giorno.

 

In questa enormità si tuffarono i cavalli di battaglia dell’offensiva mediatica filo-occidentale: con la ‘settimana Incom’, breve notiziario di politica, cronaca e costume proiettato nelle sale prima dei film, di proprietà del futuro senatore democristiano Teresio Guglielmone; col documentario sulla giornata del papa Pastor Angelicus girato nel 1942 (con la regia di Romolo Marcellini, la sceneggiatura di Ennio Flaiano, vincitore del premio strega nel ’47, e la partecipazione di Gedda); e col film Ninothcka (Greta Garbo), una vecchia pellicola “anti-marxista” di dieci anni prima riesumata all’uopo dai Comitati Civici. Una raccolta eterogenea, capace di captare strati piuttosto vasti della popolazione, capillarmente propagandata – specie al Centro-Sud - grazie all’ausilio di speciali “carri-cinema”.

 

I militanti democristiani ricorsero inoltre ad un’enorme quantità di materiale; diffusero, sulla base delle indicazioni del settimanale “L’ora dell’azione” e dei “fogli di disposizioni” che accompagnavano gli invii, 5 milioni e 400.000 manifesti di 14 tipi, 38 milioni e 200.000 volantini di 23 tipi, 4 milioni e 800.000 striscioni di 12 tipi, 7 milioni e 600.000 cartoline/immaginette di 7 tipi, 590.000 opuscoli di 21 tipi, 250.000 quadri murali di 5 tipi : un totale di 56 milioni di pezzi destinati a 29 milioni di elettori, due a testa circa, che ridimensiona – e di molto – l’immagine di una campagna elettorale improvvisata e disorganizzata, proposta tra gli altri da Montanelli.

 

Al contrario, ci si riferì in modi diversi ai vari segmenti dell’elettorato, scomponendolo in categorie peculiari, in una riedizione “fordista della propaganda, non a caso nata all’interno dei grandi partiti operai”.

 

Contemporaneamente, si ricorse alla tradizione. Scesero in campo più santi che uomini, nel corso della campagna; e l’epifania d’icone sacre inquietò fino al 18 aprile i dirigenti frontisti, costretti a condannare le strumentalizzazioni della pietà popolare per fini elettorali (tra cui le peregrinatio Mariae), adeguarsi – specie nel Mezzogiorno - al clima di fervore religioso imperante ostentando pubblicamente la propria fede e la propria devozione ai patroni locali ed infine appropriarsi a propria volta della figura di San Giuseppe, l’umile falegname senza pregi particolari che, trovatosi ad allevare il Figlio di Dio, abbracciò una fede semplice e genuina (quella degli operai e dei contadini) così lontana da cerimoniali ampollosi, pratiche rituali e velleità politiche.

 

L’insistenza di toni apocalittici, eccitati e dualistici favorì la creazione di quel clima di contrapposizione totale tra due Weltanschauungen di cui le forze-anticomuniste necessitavano per mobilitarsi in pieno; si creò così un’atmosfera di scontro tra civiltà irriducibili, tra alternative secche che si fronteggiavano senza possibilità d’incontro o di punti di contatto: “Dilemma centrale di tutte le discussioni: comunismo o anticomunismo. Tutte le altre alternative scritte sulle cantonate o gracidate degli altoparlanti non sono state che formule mascherate dal dilemma centrale; nel campo costituzionale scelta tra libertà e dittatura; nel campo spirituale, tra salvezza e dannazione; nel campo economico, tra pane e fame; nel campo internazionale tra America e Russia”, per usare le parole di Calamandrei.

 

Naturalmente, una delle due parti poteva godere del sostegno trascendente (“Nel segreto della cabina Dio ti vede, Stalin no. Vuoi tradire come Giuda il Cristo?”, recitava l’efficace slogan dei Comitati Civici), e di un caleidoscopio di immagini più vasto a cui attingere (non fosse altro che per la bi-millenaria storia della Chiesa cattolica).

 

Ma fu comunque comune il ricorso a suggestioni radicate nell’immaginario collettivo, riattualizzate e riproposte all’occorrenza: “Mentre Satana crede sia giunta l’ora del suo Trionfo, Dio prepara il suo, e mediante un particolare intervento di Maria”, scrisse Mondrone in “La civiltà cattolica”, “[…] la Vergine ha restaurato le sorti del Portogallo, che all’inizio del secolo venne a trovarsi completamente rovinato dalla tirannia del governo massonico; la Madonna farà così per l’Italia sulla quale grava il pericolo comunista.

 

In questo clima (che a dire il vero il Pci, conscio della propria inadeguatezza, non aveva cercato affatto), il comunismo ereditò il ruolo di “nuovo Islam mongolico”, la necessità d’arrestarne l’espansione favorì il richiamo ad una “nuova Lepanto” ed Alcide de Gasperi si trasformò nel prode (e pio) Giovanni d’Austria, la colonna contro cui si era infranta la minaccia della Sublime Porta.

 

Il Fronte, messo all’angolo (specie dopo i fatti cecoslovacchi) dalla radicale contrapposizione povertà/ricchezza, oriente/occidente, dittatura/libertà, tentò con scarso successo di esorcizzare la paura del comunismo che si andava diffondendo e di recidere (si pensi allo slogan la preghiera a Dio, il voto a Garibaldi) il legame tra fervore religioso e scelte politiche, tra credente e cittadino.

 

Optò quindi per un richiamo alla Resistenza ed al clima unitario degli anni precedenti, di cui il Pci era stato attivo protagonista; ma sulla campagna elettorale delle sinistre pesò come un macigno il rinfocolarsi di quel mito (negativo) russo che equilibrava e completava l’equivalente (positivo) statunitense.

 

E su questo quadro, già compromesso, pesarono anche le richieste sovietiche nel Trattato di pace: “La Russia ha preteso da noi 100 milioni di dollari di riparazioni di guerra e ne ha fatto assegnare altri 120 ai suoi satelliti; la Russia ci ha fatto perdere Trieste e quasi tutta la Venezia Giulia; la Russia pretendeva le nostre colonie e si prende le nostre navi; la Russia nel drammatico dopoguerra non ci ha inviato mai un chicco di grano o una scatola di cerini; la Russia non vuole la revisione del nostro duro trattato di pace; la Russia si oppone all’entrata dell’Italia nell’ONU; la Russia ci ha uccisi quasi 80 mila prigionieri di guerra e quasi ciò non bastasse ci ha dato Togliatti… Dopo tutte queste benemerenze come non sentire uno sviscerato amore e una stima illimitata per questa nazione?”.

 

Alle sfortune del Fronte contribuirono infine le defezioni dal campo sovietico di personaggi che, trasferitisi o fuggiti in Occidente, cominciavano proprio allora a rivelare gli orrori e le storture dell’URSS stalinista: tra questi Victor Kravcenko, autore del best-seller “Ho scelto la libertà”, capace di influenzare sensibilmente una parte non secondaria dell’elettorato italiano.

 

A poco servivano gli equivalenti frontisti, come l’articolo di un giornalista sovietico (I.Z.) che raccontava di essersi recato negli Stati Uniti alla ricerca di libertà e – dopo un inevitabile inventario di episodi patetici – arrivava a rendersi conto di aver sbagliato destinazione: “l’aria cominciava a mancarmi nella libera America, ed io prendevo la decisione di tornarmene immediatamente nell’URSS, in aereo” : l’effetto, in mancanza d’un pregiudizio anti-americano, l’impatto non poteva essere lo stesso.

 

I social comunisti - sostenitori almeno all’inizio di una propaganda comunque più ragionata che urlata, più sensibile all’argomentazione che allo slogan, più composta che grottesca - non conobbero miglior fortuna puntando su altri argomenti, decisamente troppo sofisticati per un’ora tanto esasperata: né tentando di ricondurre il confronto elettorale sui grandi temi concreti ed attuali (“Le elezioni decidono della direzione politica del Paese, non sono un corso superiore di filosofia o di sociologia”, scrisse Nenni ) né denunciando il tradimento del Vangelo perpetrato dalle gerarchie, nè riprendendo il motivo dell’asservimento democristiano agli interessi clericali e statunitensi: “Perché il Vaticano invece di occuparsi di religione fa della politica? E perché invece di difendere i popoli fa la politica dei ricchi? Perché il Vaticano è una grande potenza capitalista che ha stretto alleanza con banchieri, latifondisti, speculatori”, campeggiava ad esempio in un manifesto del Fronte ornato dalla cupola di S. Pietro assediata da sacchi di denaro.

 

Analoghi risultati ottennero insistendo su una serie di falsi documenti circolati nell’imminenza del voto, contenenti supposte “rivelazioni” riguardo le trame vaticane, oppure prendendo spunto dalle (modeste) irregolarità finanziarie di alcuni sacerdoti, come nel caso di Eduardo Prettner Cippico, monsignore italo-slavo ridotto allo stato laicale e condannato dalla magistratura italiana per un reato di truffa e malversazione; non bastò l’impegno dei militanti di sinistra, che dedicarono al prelato slogan autoironici e beffardi (“La classe operaia a tavola se lagna, per monsignor Cippico invece che cuccagna” ), e neppure quello dei giornali satirici d’ispirazione frontista che ironizzarono sul tema del Cristo fra i ladroni e coniarono uno slogan all’epoca famoso (“con Cip..Cip..si impara a Cippicare”). Rintuzzati, in breve, dalla risposta per le rime degli avversari (“Don..Don.. Dongo”), che alluse esplicitamente al bottino “scomparso” dei gerarchi fascisti in fuga.

 

Non servì appellarsi a tecniche surrettizie, come il volantino che, nella speranza di aggiudicarsi voti facendo illudendo gli elettori più sprovveduti di aver seguito le indicazioni del pontefice, attribuiva a Pio XII la frase “Se sei per Cristo, cancella Garibaldi”.

 

Le forze anti-comuniste, oltre a sbeffeggiare l’allineamento ideologico dell’“Unità” e l’ottusa credulità degli agit-prop frontisti (una celebre vignetta del periodo rappresentava il dialogo tra una coppia di militanti, uno dei quali impiccato: “Compagno, hai una corda al collo”; “Compagno, l’Unità non lo dice”; “Hai ragione, compagno; allora è una cravatta”), puntarono a delegittimare politicamente e moralmente il Fronte, denunciandone la doppiezza e l’inaffidabilità con slogan quali “Chi vota Fronte vota bifronte”, “Nenni: ovvero il grimaldello di Togliatti”, “Chi vuole me non vota me”, o raffigurando un lupo dall’aria feroce malamente travestito da agnello, oppure ancora un Garibaldi che, ruotato, si trasformava in Stalin.

 

Effetti minori riscossero le repliche frontiste, che agitavano l’immagine egualmente duplice di De Gasperi l’austriaco, il nordico, l’anti-italiano, evocato nel discorso di Togliatti del 18 febbraio:

 

“Ha paura della verità quest’uomo. Teme le cose limpide, chiare. Vuole la confusione; cerca la rissa. Per questo fa appello alla paura; per questo semina il panico; per questo evoca fantasmi di torbida morbosità medievale. Ogni volta che lo ascolto, che leggo le sue parole, più lo sento distante dall’animo nostro di latini, che Beethoven siamo capaci di godere nella successione dei ritmi suoi aerei, senza concedere al nordico costume che anche nella musica sua divina introduce tenebrose interpretazioni e finzioni”.

 

‘Ogni volta che lo ascolto, che leggo le sue parole’, disse Togliatti. E infatti una delle novità della campagna elettorale del 1948 fu costituita proprio dal ruolo di radio e quotidiani, ed in particolare dalla rubrica radiofonica La voce dei partiti (già impiegata nel 1946, ma destinata stavolta a rivelarsi l’ultimo esempio di questo genere targato Rai per dodici anni, fino al 1960); i nuovi arrivati permisero finanche di assistere ad un dialogo a distanza tra i principali leader ed al rapido deterioramento dei loro rapporti.

 

Se da una parte non esisteva ancora un unico luogo dove tutti fossero contemporaneamente presenti e testimoni, ed è vero che “una simile unificazione si avrà solo con l’avvento della televisione”, dall’altra si assistette ad una rivitalizzazione della piazza, che dismise le vesti di palco di regime e tornò a scoprirsi perno dei pubblici rapporti.

 

È ancora Italo Calvino, allora giovane redattore dell’“Unità”, a parlare: “Le piazze sono tornate alla funzione che avevano nelle città antiche: di centro della vita pubblica, di parlamento e d’arengo. Piazza San Carlo e Piazzetta Reale non solo si riempiono periodicamente di folla ai comizi di fine settimana, ma la sera sono seminate di capannelli in cui si svolgono comizi e dibattiti improvvisati, spesso calorosi, ma che mai trascendono, e sono una bella prova di maturità democratica della nostra cittadinanza”.

 

Da sottolineare è anche l’esordio su larga scala del militante politico – quella “macchia d’olio che caduta si dilata tutt’allingiro” e “irraggia d’ogni parte nel buio della notte sociale e sprizza scintille, che cadendo lontano accendono sempre più nuovi fuochi a loro volta irradiatori” – il quale, tenuto a battesimo dai partiti socialisti e operai ottocenteschi, da quel fatale 1948 prese a gravitare intorno alle fonti d’informazione controllate dalla propria fazione d’appartenenza, strutturando la scena pubblica “in enclave comunicative separate”.

 

L’onnivora contrapposizione s’impossessò d’ogni frammento della società: dell’informazione, delle realtà locali (esemplificata dalle vicende di Peppone e Don Camillo), dello sport (dove Coppi il comunista e Bartali il democristiano si spartivano titoli e folle), dello spettacolo (si pensi alle vignette sul “Vittorioso” ad opera del disegnatore Jacovitti, capaci di suggerire diversi piani e chiavi di lettura), dei punti strategici delle città (dove, in assenza d’una legge che delimitasse gli spazi, allo scoccare della mezzanotte si riversano scale e manifesti e squadre d’attacchini, pronti a scatenare gare di pennello non di rado degenerate in risse), delle strade e delle piazze (dominate dagli “agit-prop”, introdotti dai comunisti e subito imitati dagli avversari – tra i quali si diceva agissero molti preti in borghese, da cui l’ironico neologismo “agit-pret” – che innescavano interminabili discussioni politiche e confutando le argomentazioni dell’avversario), della Rai (di cui Togliatti ebbe a lamentarsi, rilevando che alcune rubriche “sono quanto di più parziale, di più reazionario, di più forcaiolo si sia ascoltato finora alla radio” ) e delle favole (quella di Pinocchio assunse un carattere dichiaratamente anti-frontista, con Nenni e Togliatti nelle vesti del gatto e la volpe, mentre in quella di cappuccetto rosso Truman e De Gasperi s’identificarono con l’orco Mangiatutto ed il demone Gasperaccio ).

 

Affianco ed insieme ai denti stretti, alle minacce proferite sottovoce ed alle cariche della polizia convisse un clima da guerra contradaiola, da sagra paesana, in cui sabotaggi improvvisati, dispettucci da comari, gallerie di goliardate all’italiana smorzarono la gravità della contesa: e così le campane che coprivano gli oratori, il supporto audio che veniva improvvisamente meno, gli agguati dialettici tesi ai comizi avversari, i manifesti strappati o ritoccati, fino al candidato democristiano che – recatosi per un comizio nella rossa Rignano Flaminio – non fece caso al contadino con l’asino fermatosi ad ascoltarlo, “Ma basta un soffio nelle froge dell’animale che la bestia solleva il muso e raglia al sole, stizzita, con tutta la voce che ha. Il parroco che attraversava in quel momento la piazzetta scoccò di sbieco un’occhiata furibonda: conosceva bene quello scherzo grossolano del somaro ragliante, già inscenato due giorni prima fuori dalla porta della chiesa, durante una funzione religiosa”.

 

Lo scontro in atto coinvolse addirittura la figura proposta dal Fronte, Garibaldi (la cui figlia, Clelia, a sua volta candidatasi per il Pri in Sardegna, svelò i propri dilemmi di coscienza “nell’aver dovuto vedere l’adorata immagine fatta simbolo di idee che non furono e mai avrebbero potuto essere le sue”, rivelò la difficoltà di scendere “in campo contro il viso di mio padre” e confessò di dover addirittura “far finta di non vederlo” ): e l’eroe dei due mondi, a sua volta, si sdoppiò anche in alcuni manifesti democristiani – che lo rappresentavano, spada tratta e giubbe rosse al seguito, all’inseguimento di un Togliatti in fuga al motto di “18 aprile si scoprono le tombe si levano i morti, va fuori d’Italia va fuori o stranier!”.

 

I due blocchi scelsero di rivolgersi, in alcuni casi, a soggetti diversi. Il Fronte mobilitò personalità della cultura, dell’arte e dello spettacolo, riuniti nel Manifesto dell’Alleanza della cultura sorto – il 21 febbraio del 1947 – contro la bomba atomica, ma velocemente convertitosi al sostegno politico.

 

Nella firma di manifesti propagandistici si cimentarono figure come Concetto Marchesi, Antonio Banfi, Emilio Sereni, Corrado Alvaro, Salvatore Quasimodo, Leonida Repaci, Giorgio Strehler, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Sibilla Aleramo, Fedele D’Amico, Renato Guttuso, Giuseppe Ungaretti, Carlo Bo ed altri ancora; Benedetto Croce, a sua volta, preparò un manifesto anti-totalitario dal titolo Europa cultura e libertà – appoggiato da Einaudi, Silone, Parri, Salvatorelli, Gonella, Gorresio, La Pira, Vittore Branca, Stuparich ed altri – e sei giorni prima delle elezioni organizzò una manifestazione a Napoli per l’indipendenza della cultura.

 

La Dc, di fronte al massiccio spiegamento culturale avversario, ripiegò saggiamente su un terreno più congeniale. Innanzitutto insistette sul motivo degli aiuti americani, rimarcando le difficoltà comuniste (“Coi discorsi di Togliatti non si condisce la pastasciutta”). Inoltre si volse ai bambini, dipinti nei manifesti alla stregua d’involucri della coscienza capaci di accusare i genitori di aver votato male, o non aver votato affatto; oppure s’appellò all’emotività e alle angosce della diade genitore/figlio, fino a prospettarne la dissoluzione in caso di sconfitta.

 

Così parlò il sopracitato onorevole Fausto Gullo, nel corso del suo intervento: “Io stesso ho sentito dei sacerdoti dire alle donne che erano in chiesa: voi dovete costringere i vostri mariti a piegarsi alla necessità. I preti hanno finanche consigliato nelle chiese alle loro fedeli lo sciopero notturno […] Si sono, per esempio, fatte scrivere ai bambini lettere dirette alla mamma, piene di ricordi commoventi. Sentite: ‘Ti ricordi, mamma, quando per la prima volta mi portasti in Chiesa per fare la Cresima? Quando cullandomi sulle tue ginocchia, accarezzandomi, mi insegnasti per la prima volta il segno della Croce? Quando il giorno della prima Comunione mi baciasti sul petto che racchiudeva il Signore e piangemmo insieme di gioia? Quando, contenta si, ma con le lacrime agli occhi mi accompagnasti all’altare?…Oggi dei cattivi vogliono cancellare questa fede che mi donasti…vogliono distruggere le Chiese dove mi conducesti piccino, vogliono togliere la Croce sopra la tomba dei nostri cari morti e dirci che non esistono più, che non ci rivedremo più. Mamma questo tu vorrai? Forse la tua mano sarà una di quelle mani sacrileghe che voteranno…mamma, io sento la tua bella voce mentre mi stringi e mi baci in fronte, che mi grida: Non lo farò mai. Grazie, mamma’.”

 

 “Un altro mezzo usato dai propagandisti democristiani” – proseguì il deputato – “era questo: se vincerà il Fronte vi saranno rubati i bambini! Vado in un paese della mia Calabria, in giro di propaganda elettorale, e trovo che correva per le piazze un volantino del genere che rileggo: ‘Donne e mamme calabresi volete bene ai vostri bimbi? Ascoltate: In questi giorni i comunisti della Grecia hanno rubato tante migliaia di bambini dai tredici ai quattordici anni e li hanno spediti in Russia. Sapete il perché? Per farne dei comunisti accesi, per farne uomini e donne senza amore, senza religione, senza famiglia. Quando saranno grandi torneranno alle case e non conosceranno i genitori e per servire il comunismo saranno pronti a denunciare i loro parenti. Una canzone comunista dice: Per servire il comunismo ucciderò mio padre e mia madre. Ecco la libertà che vogliono darci i comunisti; mamme d’Italia per la difesa dei vostri figli non votate la testa di Garibaldi. Per la difesa della religione votate lo scudo crociato!”.

 

Anche le donne, in quei mesi, risultarono dunque corteggiate da ambedue i contendenti; i loro volti spiccavano su molti dei manifesti, e la Dc tentò di coinvolgerle nella difesa di quei valori – prima fra tutti la famiglia - che, a suo dire, il comunismo avrebbe minacciato.

 

Insistito fu il tentativo di portarle al voto massicciamente: ed in questo senso non si può non citare la trovata del settimanale Oggi, che propose un concorso di pronostici elettorali femminili promettendo un sostanzioso premio economico (un milione) alla donna capace di avvicinarsi di più ai risultati finali, a patto che si fosse recata a votare.

 

Lo stesso, ma in versione maschile, fu proposto dalla società Sistema: il concorso nazionale a premi per il pronostico dei risultati elettorali Totalvoto, simile nel funzionamento all’omologo femminile, prevedeva allo stesso modo una verifica del voto effettuato. A tutto vantaggio dei Comitati Civici.

 

La Dc potè anche sfruttare in sede propagandistica il netto miglioramento della situazione economica (rispetto al 1939 il rapporto nella primavera del 1948 era di 1 a 49 per il costo della vita, di 1 a 51 per i salari).

 

E insistette particolarmente, con risultati notevoli, sull’affluenza alle urne: si guadagnò in questo modo il sostegno delle masse meno politicizzate, meno illuminate dai riflettori nelle processioni, nei cortei e nelle adunate e conseguentemente più difficilmente valutabili sotto il profilo numerico; gli elettori, per intenderci, che in caso di competizione elettorale “tradizionale”, depurata dall’isterico clima di scontro di civiltà (o di religione) imperante, non sarebbero probabilmente andati a votare.

 

Per farlo, oltre agli incentivi pratici, sfruttò appieno le potenzialità del senso di colpa, giocando – neanche troppo velatamente – sull’equazione astenuto = disertore: “Chi si astiene dal votare tradisce se stesso e la sua famiglia”, “100.000 prigionieri non sono tornati dalla Russia; Mamma, votagli contro anche per me” e ritornelli simili comparivano infatti su diversi manifesti democristiani, accompagnati e sostenuti da sketch antiastensionistici imbevuti di riferimenti inequivocabili (Ponzio Pilato, Incubo, Il signor Temistocle, Dubbio di Amleto).

 

A tal proposito, un classico esempio è rappresentato dall’opuscolo “Non votò la famiglia De Paolis”, in cui l’autore (Leo Longanesi) descrisse le vicende di una famiglia media italiana che, al posto di votare, decide di recarsi alla vigna di Frascati; gli incauti De Paolis, così – insieme a molti altri – favoriscono la vittoria del Fronte, prima dell’inevitabile precipitare della situazione e l’avverarsi di un’interminabile sequenza di disastri (miseria, arresti di massa, incarcerazione, condanna e fucilazione del marito, prigione per la moglie, fuga nella macchia – a richiamare la Resistenza, ma volgendola contro il comunismo - del figlio Ginetto). Inutile dire che il pamphlet suscitò molta impressione.

 

Resta impossibile da valutare, invece, l’effetto della campagna epistolare avviata in America – e sovvenzionata da diversi gruppi industriali: ma non dovette essere nullo, a giudicare dalla violenta reazione delle sinistre.

 

Queste, a loro volta, rivolsero molte delle loro speranze al Mezzogiorno, fin’allora roccaforte democristiana. Diversi dirigenti si dissero sicuri, prima del 18 aprile, che il Sud avrebbe consegnato la vittoria alle sinistre.

 

Tra loro Togliatti: “De Gasperi ha capito che questa volta il verdetto di condanna delle masse popolari contro questo governo non verrà dall’Italia del Nord. Ma verrà prima di tutto dal Mezzogiorno, lavoratore, contadino e piccolo borghese, il quale si schiererà accanto agli operai, ai professionisti, agli intellettuali delle regioni più progredite dell’Italia settentrionale, per mettere fine alla vergognosa dittatura del governo dei clericali”.

 

La profezia, come del resto il sondaggio della Doxa di Milano che pure fotografava i mutati rapporti di forza (pronosticando il 45% dei voti alla Dc, il 27% al Fronte) non si rivelò indovinata; l’immensa affluenza ai comizi di sinistra aveva ingannato gli analisti e ubriacato i leader del Fronte, distorcendo clamorosamente ogni tipo di previsione politica: “eravamo convinti di essere riusciti a ricreare un’atmosfera simile a quella del CLN”, e le piazze plaudenti “ci confermavano nella certezza di avere con noi la maggioranza del Paese”, riferì poi Pajetta.

 

Non si resero conto, coinvolti com’erano, che in fin dei conti la campagna propagandistica avrebbe premiato il blocco filo-occidentale, più influente, presentabile, sorretto da forze energiche e istanze religiose, carico di miti, esperienze e suggestioni; non capirono, in fondo, che a trainarlo c’era la comune volontà di non peggiorare una situazione già drammatica.

  

All’inizio del 1948, in un’Europa scopertasi improvvisamente irrigidita, solo due Paesi attendevano la definitiva collocazione in un blocco e godevano ancora di una situazione apparentemente elastica: la Cecoslovacchia e l’Italia.

 

Della prima si è detto: l’incertezza si risolse con il colpo di mano comunista, ed il Paese fu infine annesso – con i metodi che conosciamo - al suo blocco “naturale”, mentre si consumò l’esperienza dell’“alleanza antifascista”; restava da risolvere, per un mese ancora, la collocazione dell’Italia, che aveva da tempo adempiuto al secondo passaggio.

 

“Il governo s’impegna a rispettare la sovranità popolare?”, chiese più volte Togliatti sul finire della campagna elettorale, senza ottenere mai una risposta chiara: anche se, forse, quel silenzio di De Gasperi parlava da sé.

 

Sarebbe ingenuo, infatti, pensare che gli Usa avrebbero accettato per amor di democrazia un passaggio nel campo avversario dell’Italia - fin dal 1943 unanimemente inserita nel blocco atlantico, e neanche nominata nel famoso “accordo delle percentuali” tra Stalin e Churchill, tanto scontata appariva la sua collocazione - dopo tutti gli sforzi che da un certo momento in poi avevano profuso per mantenere il paese legato al “carro occidentale”; e sarebbe altrettanto ingenuo ritenere che una parte della “base”, oltre a tutta quella fetta del Pci che faceva capo a Secchia ed ai quadri partigiani e si preparava da tempo ad un’eventualità simile, non sarebbe intervenuta in caso di vittoria non riconosciuta del Fronte, e forse anche in caso di maggioranza relativa o sostanziale parità.

 

I dirigenti di sinistra (con alcune illustri eccezioni) mostrarono di accorgersene, presentandosi sotto spoglie rassicuranti e tutto sommato tradizionaliste, senza auspicare brusche rotture nè quei traumatici rivolgimenti che erano inscritti nella stessa natura del Fronte: basti il proposito di affidare il governo, in caso di vittoria, non a Togliatti o Nenni – evidentemente troppo compromessi con il lato “sbagliato” della barricata – ma ad un democristiano di sinistra, per mitigare in qualche modo la reazione americana; oppure bastino le sollecitazioni di Togliatti al Comitato centrale d’intesa per la libertà elettorale presieduto da Terracini, nei primi d’aprile, che ottennero l’invito ufficiale ad evitare la derisione degli sconfitti mediante manifesti o altri strumenti propagandistici.

 

Togliatti, “il Migliore”, come leader di massa conosceva la situazione politica del periodo e comprendeva come la stabilizzazione dei blocchi minasse alla radice il fondamento della proposta di governo comunista; per tutte queste ragioni – come confermato da diversi contemporanei - non avrebbe accolto negativamente un’eventuale sconfitta: “I miei compagni di Torino sono impazziti”, avrebbe detto secondo quanto riportato da Liliana Lanzardo qualche giorno prima del voto, “Per fortuna non saremo in grado di ottenere i risultati che voi prevedete, perché se per combinazione – dico per combinazione perché non sono profeta, quindi queste cose potrebbero anche darsi – avessimo la maggioranza alle elezioni, chi di voi sarebbe all’altezza di reggere alla situazione, se fate politica con il sentimento e non con il calcolo?”.

 

Montanelli, a questo riguardo, faticò ad ammettere la possibilità che Togliatti avesse intuito le difficoltà conseguenti ad un’affermazione elettorale frontista: la quale, forse, avrebbe allontanato il Pci da quel profilo legale che il segretario del partito aveva imboccato anni prima; lo studioso toscano propose in sostituzione “l’abitudine, acquisita in decenni di sopravvivenza staliniana, a prepararsi assicurazioni e contro assicurazioni per ogni evenienza”, si disse al contempo certo che “non poteva non preferire una trattativa da posizioni di forza” e concluse che “dedurne che gli piacque la bastonatura politica del 18 aprile è troppo”.

 

É una lettura che non convince; a nostro parere, il buon senso va distinto dal masochismo.

 

Togliatti non era un grande oratore, privo com’era di quella capacità di leggere le pulsioni e i desideri della folla, d’infiammare gli animi e le platee che si ritrova in tanti leader, certo; ma era per converso un formidabile uomo “di curia”, cresciuto all’ombra dell’apparato, e come fine meteorologo della politica coglieva alla perfezione la direzione del vento.

 

Aveva probabilmente intuito, quindi, che gli italiani, chiamati – da ultimi - a sanzionare l’immutabile, ad adeguare “il soggettivo all’oggettivo” e a riconoscere l’evidenza del quadro geo-politico, erano in un certo senso obbligati in senso filo-occidentale, se volevano evitare di demolire l’ordine geopolitico, di attirare un intervento americano e, forse, d’avviare una distorsione, in senso autoritario, degli stessi regimi democratici occidentali (una “grecizzazione”, per così dire), aprendo una crisi dalle conseguenze incalcolabili.

 

è come se, da un certo punto in poi, le principali forze in gioco – eccettuato forse il solo Nenni, con il suo ingenuo ottimismo - avessero tacitamente accettato, ed auspicassero quasi (magari inconsciamente) un determinato esito del confronto: dall’URSS al Vaticano, da Togliatti agli Stati Uniti, era chiaro a tutti che un eventuale sconfinamento nell’eterodossia, un clamoroso insuccesso elettorale del “blocco” filo-occidentale e dei suoi rappresentanti avrebbe messo a rischio la giovane Repubblica, incrinato pericolosamente l’intero equilibrio strategico delle due superpotenze e rimescolato i rapporti di forza stabiliti dal conflitto, precipitando gli uni e gli altri - i vincitori come i vinti – in una spirale nebbiosa e imprevedibile, dove entrambi i contendenti avrebbero rischiato di perdere quanto guadagnato. Nessuno aveva intenzione di rischiare tutto il capitale politico accumulato nel corso del conflitto, e precariamente stabilizzatesi, in una sola mano risolutiva; neanche l’URSS, che in fin dei conti si mostrava molto più interessata al consolidamento che all’espansione, e che aveva pagato con un cumulo di morti la secolare aspirazione ad un “cordone sanitario” che la proteggesse da vicini ostili.

 

Scrisse il 6 aprile, pochi giorni prima delle consultazioni, l’analista Walter Lippmann, le cui simpatie democratiche non indulgevano certo al catastrofismo: “Dopo la seconda guerra mondiale, l’Armata rossa è avanzata fino al centro dell’Europa. Tutti i Paesi rimasti alle sue spalle […] sono stati sottoposti al dominio comunista. Ma fino a oggi nessun Paese che non sia stato occupato o circondato dall’Armata rossa è diventato comunista […] Se il popolo e il governo italiani si arrendono ora al comunismo, l’Italia sarà il primo Paese in cui la sola quinta colonna comunista, separata dalle altre quattro colonne dell’Armata rossa, sarà riuscita a conquistare uno Stato moderno. Il risultato [delle elezioni] in Italia dimostrerà dunque se il Cremlino può o meno assicurarsi il controllo dell’Europa attraverso la guerra fredda. Io sono uno di coloro che hanno sempre pensato che non avrebbe potuto farlo, che in tutti i Paesi europei che non si trovano entro l’orbita di espansione dell’Armata rossa o non erano sotto la minaccia di invasione, le forze nazionali si sarebbero dimostrate più forti della quinta colonna comunista […]. L’Italia è il terreno dove si potrà provare se questa teoria, derivata dall’esperienza di 30 anni, è vera […] Molto, forse l’intero problema della guerra e della pace, è connesso alla capacità italiana di dimostrare che il comunismo non può espandersi attraverso la guerra fredda. Se il comunismo si può espandere promuovendo la guerra fredda, allora io temo che questo significherà che noi siamo in un’epoca di lotte intestine senza fine, che non possono essere concluse con l’ausilio della diplomazia: significherà che il conflitto è di natura tale da non poter essere affrontato dai governi costituzionali con nessuno dei metodi che fino a oggi hanno regolato gli affari internazionali”.

 

Il 18 aprile del 1948 il popolo italiano fu quindi chiamato a sancire, riconoscere la divisione dell’Europa in blocchi e insieme a collocarvisi: il dilemma delle elezioni del 1948 si nasconde almeno in parte nelle pieghe di questa contraddizione tra universale e particolare, tra internazionale e locale, e nella collettiva percezione d’uno scollamento da ricomporre.

 

Il destino di molti, forse – come sosteneva Lippmann – degli stessi governi costituzionali che caratterizzavano l’Europa occidentale, passava dunque per quell’Italia povera, dipendente, strattonata da ogni parte affinché comprendesse, “costi quel che costi”, qual’era la parte assegnatagli sul palcoscenico della Storia, barcollante per la paura di non esserne all’altezza.

 

Scrisse Piero Calamandrei nell’imminenza del voto: “Tutte le questioni di carattere specifico e concreto, di cui in tempi ordinari è fatta la politica, passate in seconda linea; i programmi tecnici messi da parte; come si dovrà costruire il fastigio che manca ancora alla Costituzione, cioè la Corte Costituzionale, o come si attuerà l’ordinamento regionale, che è ancora tutto da fare e che pur ieri pareva argomento vivo nelle regioni – nessuno se ne cura più. Tutto è ridotto ad un’alternativa; ancora una volta, più che alla scelta dei suoi rappresentanti, il popolo italiano è chiamato a un plebiscito, che non importa (o almeno così si dice) altro che due soluzioni: un sì o un no”.

 

Un’alternativa carica dunque di significato, quella italiana: ma dall’esito obbligato, valutando l’imponenza, gli sforzi del blocco occidentale ed i paventati, catastrofici effetti d’una sua sconfitta, capace di rimettere in moto il carosello di tensioni che proprio con le elezioni italiane si era sperato di congelare - dall’una come dall’altra parte - nella monolitica struttura dei blocchi.


 

 

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