N. 19 - Luglio 2009
(L)
la CAMPAGNA ELETTORALE DEL
'48
PArte II - propaganda e paura
di Cristiano Zepponi
Lo scontro propagandistico costituì la vera novità nel corso
della
campagna
elettorale
per
le
elezioni
politiche
del
1948:
scesero
in
campo
santi,
miti,
pregiudizi
e
timori,
paure
ataviche
e
isterie
collettive,
imbrogli
e
doppi
sensi,
sarcasmi
e
antiche
rivalità,
e
poi
slogan,
richiami,
sbeffeggi
e
bassezze,
tutto
il
repertorio
improvvisato
di
un’Italia
che
si
lasciò
andare
ad
una
lotta
insieme
casalinga
ed
internazionale,
paesana
ma
ideologica,
comiziale
o
metafisica.
Relativamente alla Calabria (ma il discorso può allargarsi
senza
forzature)
il
sopracitato
Leonida
Repaci
tinteggiò
l’affresco
variopinto
di
un’umanità
dominata
da
un
grandioso
“intrallazzo
della
paura”,
capace
di
prendere
“il
pezzente
timoroso
di
vedersi
socializzare
il
somarello,
la
gallina,
i
pidocchi”
come
“la
madre
di
famiglia”
spaventata
all’idea
che
l’America
chiudesse
l’intervento
assistenziale,
il
“travet”
timoroso
di
“perdersi
nella
massa
indifferenziata
del
proletariato”,
l’elettorato
campagnolo
femminile
terrorizzato
dall’inferno
e la
“bruttissima
agit-prop
convinta
che
la
vittoria
del
Fronte
avrebbe
istaurato
il
libero
amore”.
In questo clima, i Comitati Civici scesero in campo; e schierarono
in
prima
linea
una
novità
assoluta:
la
“Madonna
pellegrina”,
trasportata
in
solenni
processioni
serali,
scenografiche
e
suggestive.
Questa pratica, simbolo della crociata anti-comunista in
Italia,
fu
in
realtà
introdotta
in
Francia
(con
il
nome
di
“Peregrinatio
Mariae”)
a
partire
dal
1943,
quando
quattro
riproduzioni
della
statua
di
Notre
Dame
de
Boulogne
attraversarono
il
paese
tra
Te
Deum,
campane,
odi
e
cori
sacri;
la
novità
era
costituita
dal
fatto
che
Maria,
per
la
prima
volta,
si
recava
direttamente
dai
fedeli,
che
da
parte
loro
abbandonavano
sempre
più
spesso
la
pratica
cristiana:
in
Italia
la
pratica
si
caricò
di
suggestioni
scenografiche
e si
estese
alle
fabbriche,
dove
l’effige
era
trasportata
in
visita
agli
operai.
Maria, carica dei simboli della maternità, dell’amore e del
dolore,
scortata
spesso
da
sindaci
ed
amministratori,
fu
spesso
usata
come
grimaldello,
come
passe-partout
dalla
Chiesa
per
penetrare
negli
ambienti
più
ostili
e
difficili,
“nelle
zone
di
lunga
tradizione
socialista,
tra
i
braccianti
in
lotta
per
la
terra,
tra
gli
operai
inaspriti
dalle
difficoltà
materiali
e
dalla
messa
in
dubbio
di
tante
speranze”
con
un
compito
d’intermediazione
nel
riavvicinamento
a
Dio
e di
evangelizzazione.
Divenne infine un canale d’orientamento politico, dato che
“solo
nel
pieno
riconoscimento
delle
virtù
mediatrici
di
Maria
[…]
il
fedele
accumula
le
energie
spirituali
necessarie
per
porsi
come
docile
strumento
nelle
mani
del
magistero
ed
instaurare
secondo
i
suoi
insegnamenti
l’ordine
voluto
da
Dio
nel
mondo”.
Anche in questo senso si spiega l’insistenza della propaganda
mariana
nel
periodo;
ed
insieme
l’esplosione
di
processioni
(a
Napoli,
in
marzo),
prodigi
(ad
esempio
ad
Assisi,
dove
a
febbraio
accorsero
migliaia
di
fedeli
richiamati
dai
movimenti
della
statua
della
Vergine)
e
avvistamenti
mariani,
di
cui
avremo
modo
di
riparlare.
Parallelamente proliferarono enti solidaristici, patronati,
attività
sociali,
forme
varie
di
militanza
politico-religiosa,
“giornali
parlati”
(com’erano
definiti
gli
altoparlanti,
particolarmente
indicati
nelle
regioni
a
più
alto
tasso
d’analfabetismo),
opuscoli,
depliant,
forme
di
propaganda
murale,
manifesti
(fino
al
secondo
o
terzo
piano
dei
palazzi).
L’offensiva cattolica, in particolare, si avvalse di tutti
gli
strumenti
disponibili
per
la
propaganda
di
massa.
In
primis
–
stracciando
clamorosamente
il
Fronte
-
del
cinematografo,
oggetto
di
un
assalto
senza
precedenti
di
assetati
fruitori
capace
di
totalizzare
588
milioni
di
biglietti
venduti
nel
1948,
con
una
media
di 1
milione
e
600.000
spettatori
al
giorno.
In questa enormità si tuffarono i cavalli di battaglia dell’offensiva
mediatica
filo-occidentale:
con
la
‘settimana
Incom’,
breve
notiziario
di
politica,
cronaca
e
costume
proiettato
nelle
sale
prima
dei
film,
di
proprietà
del
futuro
senatore
democristiano
Teresio
Guglielmone;
col
documentario
sulla
giornata
del
papa
Pastor
Angelicus
girato
nel
1942
(con
la
regia
di
Romolo
Marcellini,
la
sceneggiatura
di
Ennio
Flaiano,
vincitore
del
premio
strega
nel
’47,
e la
partecipazione
di
Gedda);
e
col
film
Ninothcka
(Greta
Garbo),
una
vecchia
pellicola
“anti-marxista”
di
dieci
anni
prima
riesumata
all’uopo
dai
Comitati
Civici.
Una
raccolta
eterogenea,
capace
di
captare
strati
piuttosto
vasti
della
popolazione,
capillarmente
propagandata
–
specie
al
Centro-Sud
-
grazie
all’ausilio
di
speciali
“carri-cinema”.
I militanti democristiani ricorsero inoltre ad un’enorme
quantità
di
materiale;
diffusero,
sulla
base
delle
indicazioni
del
settimanale
“L’ora
dell’azione”
e
dei
“fogli
di
disposizioni”
che
accompagnavano
gli
invii,
5
milioni
e
400.000
manifesti
di
14
tipi,
38
milioni
e
200.000
volantini
di
23
tipi,
4
milioni
e
800.000
striscioni
di
12
tipi,
7
milioni
e
600.000
cartoline/immaginette
di 7
tipi,
590.000
opuscoli
di
21
tipi,
250.000
quadri
murali
di 5
tipi
: un
totale
di
56
milioni
di
pezzi
destinati
a 29
milioni
di
elettori,
due
a
testa
circa,
che
ridimensiona
– e
di
molto
–
l’immagine
di
una
campagna
elettorale
improvvisata
e
disorganizzata,
proposta
tra
gli
altri
da
Montanelli.
Al contrario, ci si riferì in modi diversi ai vari segmenti
dell’elettorato,
scomponendolo
in
categorie
peculiari,
in
una
riedizione
“fordista
della
propaganda,
non
a
caso
nata
all’interno
dei
grandi
partiti
operai”.
Contemporaneamente, si ricorse alla tradizione. Scesero in
campo
più
santi
che
uomini,
nel
corso
della
campagna;
e
l’epifania
d’icone
sacre
inquietò
fino
al
18
aprile
i
dirigenti
frontisti,
costretti
a
condannare
le
strumentalizzazioni
della
pietà
popolare
per
fini
elettorali
(tra
cui
le
peregrinatio
Mariae),
adeguarsi
–
specie
nel
Mezzogiorno
- al
clima
di
fervore
religioso
imperante
ostentando
pubblicamente
la
propria
fede
e la
propria
devozione
ai
patroni
locali
ed
infine
appropriarsi
a
propria
volta
della
figura
di
San
Giuseppe,
l’umile
falegname
senza
pregi
particolari
che,
trovatosi
ad
allevare
il
Figlio
di
Dio,
abbracciò
una
fede
semplice
e
genuina
(quella
degli
operai
e
dei
contadini)
così
lontana
da
cerimoniali
ampollosi,
pratiche
rituali
e
velleità
politiche.
L’insistenza di toni apocalittici, eccitati e dualistici
favorì
la
creazione
di
quel
clima
di
contrapposizione
totale
tra
due
Weltanschauungen
di
cui
le
forze-anticomuniste
necessitavano
per
mobilitarsi
in
pieno;
si
creò
così
un’atmosfera
di
scontro
tra
civiltà
irriducibili,
tra
alternative
secche
che
si
fronteggiavano
senza
possibilità
d’incontro
o di
punti
di
contatto:
“Dilemma
centrale
di
tutte
le
discussioni:
comunismo
o
anticomunismo.
Tutte
le
altre
alternative
scritte
sulle
cantonate
o
gracidate
degli
altoparlanti
non
sono
state
che
formule
mascherate
dal
dilemma
centrale;
nel
campo
costituzionale
scelta
tra
libertà
e
dittatura;
nel
campo
spirituale,
tra
salvezza
e
dannazione;
nel
campo
economico,
tra
pane
e
fame;
nel
campo
internazionale
tra
America
e
Russia”,
per
usare
le
parole
di
Calamandrei.
Naturalmente, una delle due parti poteva godere del sostegno
trascendente
(“Nel
segreto
della
cabina
Dio
ti
vede,
Stalin
no.
Vuoi
tradire
come
Giuda
il
Cristo?”,
recitava
l’efficace
slogan
dei
Comitati
Civici),
e di
un
caleidoscopio
di
immagini
più
vasto
a
cui
attingere
(non
fosse
altro
che
per
la
bi-millenaria
storia
della
Chiesa
cattolica).
Ma fu comunque comune il ricorso a suggestioni radicate
nell’immaginario
collettivo,
riattualizzate
e
riproposte
all’occorrenza:
“Mentre
Satana
crede
sia
giunta
l’ora
del
suo
Trionfo,
Dio
prepara
il
suo,
e
mediante
un
particolare
intervento
di
Maria”,
scrisse
Mondrone
in
“La
civiltà
cattolica”,
“[…]
la
Vergine
ha
restaurato
le
sorti
del
Portogallo,
che
all’inizio
del
secolo
venne
a
trovarsi
completamente
rovinato
dalla
tirannia
del
governo
massonico;
la
Madonna
farà
così
per
l’Italia
sulla
quale
grava
il
pericolo
comunista.
In questo clima (che a dire il vero il Pci, conscio della
propria
inadeguatezza,
non
aveva
cercato
affatto),
il
comunismo
ereditò
il
ruolo
di
“nuovo
Islam
mongolico”,
la
necessità
d’arrestarne
l’espansione
favorì
il
richiamo
ad
una
“nuova
Lepanto”
ed
Alcide
de
Gasperi
si
trasformò
nel
prode
(e
pio)
Giovanni
d’Austria,
la
colonna
contro
cui
si
era
infranta
la
minaccia
della
Sublime
Porta.
Il Fronte, messo all’angolo (specie dopo i fatti cecoslovacchi)
dalla
radicale
contrapposizione
povertà/ricchezza,
oriente/occidente,
dittatura/libertà,
tentò
con
scarso
successo
di
esorcizzare
la
paura
del
comunismo
che
si
andava
diffondendo
e di
recidere
(si
pensi
allo
slogan
la
preghiera
a
Dio,
il
voto
a
Garibaldi)
il
legame
tra
fervore
religioso
e
scelte
politiche,
tra
credente
e
cittadino.
Optò quindi per un richiamo alla Resistenza ed al clima
unitario
degli
anni
precedenti,
di
cui
il
Pci
era
stato
attivo
protagonista;
ma
sulla
campagna
elettorale
delle
sinistre
pesò
come
un
macigno
il
rinfocolarsi
di
quel
mito
(negativo)
russo
che
equilibrava
e
completava
l’equivalente
(positivo)
statunitense.
E su questo quadro, già compromesso, pesarono anche le richieste
sovietiche
nel
Trattato
di
pace:
“La
Russia
ha
preteso
da
noi
100
milioni
di
dollari
di
riparazioni
di
guerra
e ne
ha
fatto
assegnare
altri
120
ai
suoi
satelliti;
la
Russia
ci
ha
fatto
perdere
Trieste
e
quasi
tutta
la
Venezia
Giulia;
la
Russia
pretendeva
le
nostre
colonie
e si
prende
le
nostre
navi;
la
Russia
nel
drammatico
dopoguerra
non
ci
ha
inviato
mai
un
chicco
di
grano
o
una
scatola
di
cerini;
la
Russia
non
vuole
la
revisione
del
nostro
duro
trattato
di
pace;
la
Russia
si
oppone
all’entrata
dell’Italia
nell’ONU;
la
Russia
ci
ha
uccisi
quasi
80
mila
prigionieri
di
guerra
e
quasi
ciò
non
bastasse
ci
ha
dato
Togliatti…
Dopo
tutte
queste
benemerenze
come
non
sentire
uno
sviscerato
amore
e
una
stima
illimitata
per
questa
nazione?”.
Alle sfortune del Fronte contribuirono infine le defezioni
dal
campo
sovietico
di
personaggi
che,
trasferitisi
o
fuggiti
in
Occidente,
cominciavano
proprio
allora
a
rivelare
gli
orrori
e le
storture
dell’URSS
stalinista:
tra
questi
Victor
Kravcenko,
autore
del
best-seller
“Ho
scelto
la
libertà”,
capace
di
influenzare
sensibilmente
una
parte
non
secondaria
dell’elettorato
italiano.
A poco servivano gli equivalenti frontisti, come l’articolo
di
un
giornalista
sovietico
(I.Z.)
che
raccontava
di
essersi
recato
negli
Stati
Uniti
alla
ricerca
di
libertà
e –
dopo
un
inevitabile
inventario
di
episodi
patetici
–
arrivava
a
rendersi
conto
di
aver
sbagliato
destinazione:
“l’aria
cominciava
a
mancarmi
nella
libera
America,
ed
io
prendevo
la
decisione
di
tornarmene
immediatamente
nell’URSS,
in
aereo”
:
l’effetto,
in
mancanza
d’un
pregiudizio
anti-americano,
l’impatto
non
poteva
essere
lo
stesso.
I social comunisti - sostenitori almeno all’inizio di una
propaganda
comunque
più
ragionata
che
urlata,
più
sensibile
all’argomentazione
che
allo
slogan,
più
composta
che
grottesca
-
non
conobbero
miglior
fortuna
puntando
su
altri
argomenti,
decisamente
troppo
sofisticati
per
un’ora
tanto
esasperata:
né
tentando
di
ricondurre
il
confronto
elettorale
sui
grandi
temi
concreti
ed
attuali
(“Le
elezioni
decidono
della
direzione
politica
del
Paese,
non
sono
un
corso
superiore
di
filosofia
o di
sociologia”,
scrisse
Nenni
) né
denunciando
il
tradimento
del
Vangelo
perpetrato
dalle
gerarchie,
nè
riprendendo
il
motivo
dell’asservimento
democristiano
agli
interessi
clericali
e
statunitensi:
“Perché
il
Vaticano
invece
di
occuparsi
di
religione
fa
della
politica?
E
perché
invece
di
difendere
i
popoli
fa
la
politica
dei
ricchi?
Perché
il
Vaticano
è
una
grande
potenza
capitalista
che
ha
stretto
alleanza
con
banchieri,
latifondisti,
speculatori”,
campeggiava
ad
esempio
in
un
manifesto
del
Fronte
ornato
dalla
cupola
di
S.
Pietro
assediata
da
sacchi
di
denaro.
Analoghi risultati ottennero insistendo su una serie di
falsi
documenti
circolati
nell’imminenza
del
voto,
contenenti
supposte
“rivelazioni”
riguardo
le
trame
vaticane,
oppure
prendendo
spunto
dalle
(modeste)
irregolarità
finanziarie
di
alcuni
sacerdoti,
come
nel
caso
di
Eduardo
Prettner
Cippico,
monsignore
italo-slavo
ridotto
allo
stato
laicale
e
condannato
dalla
magistratura
italiana
per
un
reato
di
truffa
e
malversazione;
non
bastò
l’impegno
dei
militanti
di
sinistra,
che
dedicarono
al
prelato
slogan
autoironici
e
beffardi
(“La
classe
operaia
a
tavola
se
lagna,
per
monsignor
Cippico
invece
che
cuccagna”
), e
neppure
quello
dei
giornali
satirici
d’ispirazione
frontista
che
ironizzarono
sul
tema
del
Cristo
fra
i
ladroni
e
coniarono
uno
slogan
all’epoca
famoso
(“con
Cip..Cip..si
impara
a
Cippicare”).
Rintuzzati,
in
breve,
dalla
risposta
per
le
rime
degli
avversari
(“Don..Don..
Dongo”),
che
alluse
esplicitamente
al
bottino
“scomparso”
dei
gerarchi
fascisti
in
fuga.
Non servì appellarsi a tecniche surrettizie, come il volantino
che,
nella
speranza
di
aggiudicarsi
voti
facendo
illudendo
gli
elettori
più
sprovveduti
di
aver
seguito
le
indicazioni
del
pontefice,
attribuiva
a
Pio
XII
la
frase
“Se
sei
per
Cristo,
cancella
Garibaldi”.
Le forze anti-comuniste, oltre a sbeffeggiare l’allineamento
ideologico
dell’“Unità”
e
l’ottusa
credulità
degli
agit-prop
frontisti
(una
celebre
vignetta
del
periodo
rappresentava
il
dialogo
tra
una
coppia
di
militanti,
uno
dei
quali
impiccato:
“Compagno,
hai
una
corda
al
collo”;
“Compagno,
l’Unità
non
lo
dice”;
“Hai
ragione,
compagno;
allora
è
una
cravatta”),
puntarono
a
delegittimare
politicamente
e
moralmente
il
Fronte,
denunciandone
la
doppiezza
e
l’inaffidabilità
con
slogan
quali
“Chi
vota
Fronte
vota
bifronte”,
“Nenni:
ovvero
il
grimaldello
di
Togliatti”,
“Chi
vuole
me
non
vota
me”,
o
raffigurando
un
lupo
dall’aria
feroce
malamente
travestito
da
agnello,
oppure
ancora
un
Garibaldi
che,
ruotato,
si
trasformava
in
Stalin.
Effetti minori riscossero le repliche frontiste, che agitavano
l’immagine
egualmente
duplice
di
De
Gasperi
l’austriaco,
il
nordico,
l’anti-italiano,
evocato
nel
discorso
di
Togliatti
del
18
febbraio:
“Ha paura della verità quest’uomo. Teme le cose limpide,
chiare.
Vuole
la
confusione;
cerca
la
rissa.
Per
questo
fa
appello
alla
paura;
per
questo
semina
il
panico;
per
questo
evoca
fantasmi
di
torbida
morbosità
medievale.
Ogni
volta
che
lo
ascolto,
che
leggo
le
sue
parole,
più
lo
sento
distante
dall’animo
nostro
di
latini,
che
Beethoven
siamo
capaci
di
godere
nella
successione
dei
ritmi
suoi
aerei,
senza
concedere
al
nordico
costume
che
anche
nella
musica
sua
divina
introduce
tenebrose
interpretazioni
e
finzioni”.
‘Ogni volta che lo ascolto, che leggo le sue parole’, disse
Togliatti.
E
infatti
una
delle
novità
della
campagna
elettorale
del
1948
fu
costituita
proprio
dal
ruolo
di
radio
e
quotidiani,
ed
in
particolare
dalla
rubrica
radiofonica
La
voce
dei
partiti
(già
impiegata
nel
1946,
ma
destinata
stavolta
a
rivelarsi
l’ultimo
esempio
di
questo
genere
targato
Rai
per
dodici
anni,
fino
al
1960);
i
nuovi
arrivati
permisero
finanche
di
assistere
ad
un
dialogo
a
distanza
tra
i
principali
leader
ed
al
rapido
deterioramento
dei
loro
rapporti.
Se da una parte non esisteva ancora un unico luogo dove
tutti
fossero
contemporaneamente
presenti
e
testimoni,
ed è
vero
che
“una
simile
unificazione
si
avrà
solo
con
l’avvento
della
televisione”,
dall’altra
si
assistette
ad
una
rivitalizzazione
della
piazza,
che
dismise
le
vesti
di
palco
di
regime
e
tornò
a
scoprirsi
perno
dei
pubblici
rapporti.
È ancora Italo Calvino, allora giovane redattore dell’“Unità”,
a
parlare:
“Le
piazze
sono
tornate
alla
funzione
che
avevano
nelle
città
antiche:
di
centro
della
vita
pubblica,
di
parlamento
e d’arengo.
Piazza
San
Carlo
e
Piazzetta
Reale
non
solo
si
riempiono
periodicamente
di
folla
ai
comizi
di
fine
settimana,
ma
la
sera
sono
seminate
di
capannelli
in
cui
si
svolgono
comizi
e
dibattiti
improvvisati,
spesso
calorosi,
ma
che
mai
trascendono,
e
sono
una
bella
prova
di
maturità
democratica
della
nostra
cittadinanza”.
Da sottolineare è anche l’esordio su larga scala del militante
politico
–
quella
“macchia
d’olio
che
caduta
si
dilata
tutt’allingiro”
e
“irraggia
d’ogni
parte
nel
buio
della
notte
sociale
e
sprizza
scintille,
che
cadendo
lontano
accendono
sempre
più
nuovi
fuochi
a
loro
volta
irradiatori”
– il
quale,
tenuto
a
battesimo
dai
partiti
socialisti
e
operai
ottocenteschi,
da
quel
fatale
1948
prese
a
gravitare
intorno
alle
fonti
d’informazione
controllate
dalla
propria
fazione
d’appartenenza,
strutturando
la
scena
pubblica
“in
enclave
comunicative
separate”.
L’onnivora contrapposizione s’impossessò d’ogni frammento
della
società:
dell’informazione,
delle
realtà
locali
(esemplificata
dalle
vicende
di
Peppone
e
Don
Camillo),
dello
sport
(dove
Coppi
il
comunista
e
Bartali
il
democristiano
si
spartivano
titoli
e
folle),
dello
spettacolo
(si
pensi
alle
vignette
sul
“Vittorioso”
ad
opera
del
disegnatore
Jacovitti,
capaci
di
suggerire
diversi
piani
e
chiavi
di
lettura),
dei
punti
strategici
delle
città
(dove,
in
assenza
d’una
legge
che
delimitasse
gli
spazi,
allo
scoccare
della
mezzanotte
si
riversano
scale
e
manifesti
e
squadre
d’attacchini,
pronti
a
scatenare
gare
di
pennello
non
di
rado
degenerate
in
risse),
delle
strade
e
delle
piazze
(dominate
dagli
“agit-prop”,
introdotti
dai
comunisti
e
subito
imitati
dagli
avversari
–
tra
i
quali
si
diceva
agissero
molti
preti
in
borghese,
da
cui
l’ironico
neologismo
“agit-pret”
–
che
innescavano
interminabili
discussioni
politiche
e
confutando
le
argomentazioni
dell’avversario),
della
Rai
(di
cui
Togliatti
ebbe
a
lamentarsi,
rilevando
che
alcune
rubriche
“sono
quanto
di
più
parziale,
di
più
reazionario,
di
più
forcaiolo
si
sia
ascoltato
finora
alla
radio”
) e
delle
favole
(quella
di
Pinocchio
assunse
un
carattere
dichiaratamente
anti-frontista,
con
Nenni
e
Togliatti
nelle
vesti
del
gatto
e la
volpe,
mentre
in
quella
di
cappuccetto
rosso
Truman
e De
Gasperi
s’identificarono
con
l’orco
Mangiatutto
ed
il
demone
Gasperaccio
).
Affianco ed insieme ai denti stretti, alle minacce proferite
sottovoce
ed
alle
cariche
della
polizia
convisse
un
clima
da
guerra
contradaiola,
da
sagra
paesana,
in
cui
sabotaggi
improvvisati,
dispettucci
da
comari,
gallerie
di
goliardate
all’italiana
smorzarono
la
gravità
della
contesa:
e
così
le
campane
che
coprivano
gli
oratori,
il
supporto
audio
che
veniva
improvvisamente
meno,
gli
agguati
dialettici
tesi
ai
comizi
avversari,
i
manifesti
strappati
o
ritoccati,
fino
al
candidato
democristiano
che
–
recatosi
per
un
comizio
nella
rossa
Rignano
Flaminio
–
non
fece
caso
al
contadino
con
l’asino
fermatosi
ad
ascoltarlo,
“Ma
basta
un
soffio
nelle
froge
dell’animale
che
la
bestia
solleva
il
muso
e
raglia
al
sole,
stizzita,
con
tutta
la
voce
che
ha.
Il
parroco
che
attraversava
in
quel
momento
la
piazzetta
scoccò
di
sbieco
un’occhiata
furibonda:
conosceva
bene
quello
scherzo
grossolano
del
somaro
ragliante,
già
inscenato
due
giorni
prima
fuori
dalla
porta
della
chiesa,
durante
una
funzione
religiosa”.
Lo scontro in atto coinvolse addirittura la figura proposta
dal
Fronte,
Garibaldi
(la
cui
figlia,
Clelia,
a
sua
volta
candidatasi
per
il
Pri
in
Sardegna,
svelò
i
propri
dilemmi
di
coscienza
“nell’aver
dovuto
vedere
l’adorata
immagine
fatta
simbolo
di
idee
che
non
furono
e
mai
avrebbero
potuto
essere
le
sue”,
rivelò
la
difficoltà
di
scendere
“in
campo
contro
il
viso
di
mio
padre”
e
confessò
di
dover
addirittura
“far
finta
di
non
vederlo”
): e
l’eroe
dei
due
mondi,
a
sua
volta,
si
sdoppiò
anche
in
alcuni
manifesti
democristiani
–
che
lo
rappresentavano,
spada
tratta
e
giubbe
rosse
al
seguito,
all’inseguimento
di
un
Togliatti
in
fuga
al
motto
di
“18
aprile
si
scoprono
le
tombe
si
levano
i
morti,
va
fuori
d’Italia
va
fuori
o
stranier!”.
I due blocchi scelsero di rivolgersi, in alcuni casi, a
soggetti
diversi.
Il
Fronte
mobilitò
personalità
della
cultura,
dell’arte
e
dello
spettacolo,
riuniti
nel
Manifesto
dell’Alleanza
della
cultura
sorto
– il
21
febbraio
del
1947
–
contro
la
bomba
atomica,
ma
velocemente
convertitosi
al
sostegno
politico.
Nella firma di manifesti propagandistici si cimentarono
figure
come
Concetto
Marchesi,
Antonio
Banfi,
Emilio
Sereni,
Corrado
Alvaro,
Salvatore
Quasimodo,
Leonida
Repaci,
Giorgio
Strehler,
Vittorio
De
Sica,
Luchino
Visconti,
Sibilla
Aleramo,
Fedele
D’Amico,
Renato
Guttuso,
Giuseppe
Ungaretti,
Carlo
Bo
ed
altri
ancora;
Benedetto
Croce,
a
sua
volta,
preparò
un
manifesto
anti-totalitario
dal
titolo
Europa
cultura
e
libertà
–
appoggiato
da
Einaudi,
Silone,
Parri,
Salvatorelli,
Gonella,
Gorresio,
La
Pira,
Vittore
Branca,
Stuparich
ed
altri
– e
sei
giorni
prima
delle
elezioni
organizzò
una
manifestazione
a
Napoli
per
l’indipendenza
della
cultura.
La Dc, di fronte al massiccio spiegamento culturale avversario,
ripiegò
saggiamente
su
un
terreno
più
congeniale.
Innanzitutto
insistette
sul
motivo
degli
aiuti
americani,
rimarcando
le
difficoltà
comuniste
(“Coi
discorsi
di
Togliatti
non
si
condisce
la
pastasciutta”).
Inoltre
si
volse
ai
bambini,
dipinti
nei
manifesti
alla
stregua
d’involucri
della
coscienza
capaci
di
accusare
i
genitori
di
aver
votato
male,
o
non
aver
votato
affatto;
oppure
s’appellò
all’emotività
e
alle
angosce
della
diade
genitore/figlio,
fino
a
prospettarne
la
dissoluzione
in
caso
di
sconfitta.
Così parlò il sopracitato onorevole Fausto Gullo, nel corso
del
suo
intervento:
“Io
stesso
ho
sentito
dei
sacerdoti
dire
alle
donne
che
erano
in
chiesa:
voi
dovete
costringere
i
vostri
mariti
a
piegarsi
alla
necessità.
I
preti
hanno
finanche
consigliato
nelle
chiese
alle
loro
fedeli
lo
sciopero
notturno
[…]
Si
sono,
per
esempio,
fatte
scrivere
ai
bambini
lettere
dirette
alla
mamma,
piene
di
ricordi
commoventi.
Sentite:
‘Ti
ricordi,
mamma,
quando
per
la
prima
volta
mi
portasti
in
Chiesa
per
fare
la
Cresima?
Quando
cullandomi
sulle
tue
ginocchia,
accarezzandomi,
mi
insegnasti
per
la
prima
volta
il
segno
della
Croce?
Quando
il
giorno
della
prima
Comunione
mi
baciasti
sul
petto
che
racchiudeva
il
Signore
e
piangemmo
insieme
di
gioia?
Quando,
contenta
si,
ma
con
le
lacrime
agli
occhi
mi
accompagnasti
all’altare?…Oggi
dei
cattivi
vogliono
cancellare
questa
fede
che
mi
donasti…vogliono
distruggere
le
Chiese
dove
mi
conducesti
piccino,
vogliono
togliere
la
Croce
sopra
la
tomba
dei
nostri
cari
morti
e
dirci
che
non
esistono
più,
che
non
ci
rivedremo
più.
Mamma
questo
tu
vorrai?
Forse
la
tua
mano
sarà
una
di
quelle
mani
sacrileghe
che
voteranno…mamma,
io
sento
la
tua
bella
voce
mentre
mi
stringi
e mi
baci
in
fronte,
che
mi
grida:
Non
lo
farò
mai.
Grazie,
mamma’.”
“Un altro mezzo usato dai propagandisti democristiani” –
proseguì
il
deputato
–
“era
questo:
se
vincerà
il
Fronte
vi
saranno
rubati
i
bambini!
Vado
in
un
paese
della
mia
Calabria,
in
giro
di
propaganda
elettorale,
e
trovo
che
correva
per
le
piazze
un
volantino
del
genere
che
rileggo:
‘Donne
e
mamme
calabresi
volete
bene
ai
vostri
bimbi?
Ascoltate:
In
questi
giorni
i
comunisti
della
Grecia
hanno
rubato
tante
migliaia
di
bambini
dai
tredici
ai
quattordici
anni
e li
hanno
spediti
in
Russia.
Sapete
il
perché?
Per
farne
dei
comunisti
accesi,
per
farne
uomini
e
donne
senza
amore,
senza
religione,
senza
famiglia.
Quando
saranno
grandi
torneranno
alle
case
e
non
conosceranno
i
genitori
e
per
servire
il
comunismo
saranno
pronti
a
denunciare
i
loro
parenti.
Una
canzone
comunista
dice:
Per
servire
il
comunismo
ucciderò
mio
padre
e
mia
madre.
Ecco
la
libertà
che
vogliono
darci
i
comunisti;
mamme
d’Italia
per
la
difesa
dei
vostri
figli
non
votate
la
testa
di
Garibaldi.
Per
la
difesa
della
religione
votate
lo
scudo
crociato!”.
Anche le donne, in quei mesi, risultarono dunque corteggiate
da
ambedue
i
contendenti;
i
loro
volti
spiccavano
su
molti
dei
manifesti,
e la
Dc
tentò
di
coinvolgerle
nella
difesa
di
quei
valori
–
prima
fra
tutti
la
famiglia
-
che,
a
suo
dire,
il
comunismo
avrebbe
minacciato.
Insistito fu il tentativo di portarle al voto massicciamente:
ed
in
questo
senso
non
si
può
non
citare
la
trovata
del
settimanale
Oggi,
che
propose
un
concorso
di
pronostici
elettorali
femminili
promettendo
un
sostanzioso
premio
economico
(un
milione)
alla
donna
capace
di
avvicinarsi
di
più
ai
risultati
finali,
a
patto
che
si
fosse
recata
a
votare.
Lo stesso, ma in versione maschile, fu proposto dalla società
Sistema:
il
concorso
nazionale
a
premi
per
il
pronostico
dei
risultati
elettorali
Totalvoto,
simile
nel
funzionamento
all’omologo
femminile,
prevedeva
allo
stesso
modo
una
verifica
del
voto
effettuato.
A
tutto
vantaggio
dei
Comitati
Civici.
La Dc potè anche sfruttare in sede propagandistica il netto
miglioramento
della
situazione
economica
(rispetto
al
1939
il
rapporto
nella
primavera
del
1948
era
di 1
a 49
per
il
costo
della
vita,
di 1
a 51
per
i
salari).
E insistette particolarmente, con risultati notevoli, sull’affluenza
alle
urne:
si
guadagnò
in
questo
modo
il
sostegno
delle
masse
meno
politicizzate,
meno
illuminate
dai
riflettori
nelle
processioni,
nei
cortei
e
nelle
adunate
e
conseguentemente
più
difficilmente
valutabili
sotto
il
profilo
numerico;
gli
elettori,
per
intenderci,
che
in
caso
di
competizione
elettorale
“tradizionale”,
depurata
dall’isterico
clima
di
scontro
di
civiltà
(o
di
religione)
imperante,
non
sarebbero
probabilmente
andati
a
votare.
Per farlo, oltre agli incentivi pratici, sfruttò appieno le
potenzialità
del
senso
di
colpa,
giocando
–
neanche
troppo
velatamente
–
sull’equazione
astenuto
=
disertore:
“Chi
si
astiene
dal
votare
tradisce
se
stesso
e la
sua
famiglia”,
“100.000
prigionieri
non
sono
tornati
dalla
Russia;
Mamma,
votagli
contro
anche
per
me”
e
ritornelli
simili
comparivano
infatti
su
diversi
manifesti
democristiani,
accompagnati
e
sostenuti
da
sketch
antiastensionistici
imbevuti
di
riferimenti
inequivocabili
(Ponzio
Pilato,
Incubo,
Il
signor
Temistocle,
Dubbio
di
Amleto).
A tal proposito, un classico esempio è rappresentato dall’opuscolo
“Non
votò
la
famiglia
De
Paolis”,
in
cui
l’autore
(Leo
Longanesi)
descrisse
le
vicende
di
una
famiglia
media
italiana
che,
al
posto
di
votare,
decide
di
recarsi
alla
vigna
di
Frascati;
gli
incauti
De
Paolis,
così
–
insieme
a
molti
altri
–
favoriscono
la
vittoria
del
Fronte,
prima
dell’inevitabile
precipitare
della
situazione
e
l’avverarsi
di
un’interminabile
sequenza
di
disastri
(miseria,
arresti
di
massa,
incarcerazione,
condanna
e
fucilazione
del
marito,
prigione
per
la
moglie,
fuga
nella
macchia
– a
richiamare
la
Resistenza,
ma
volgendola
contro
il
comunismo
-
del
figlio
Ginetto).
Inutile
dire
che
il
pamphlet
suscitò
molta
impressione.
Resta impossibile da valutare, invece, l’effetto della campagna
epistolare
avviata
in
America
– e
sovvenzionata
da
diversi
gruppi
industriali:
ma
non
dovette
essere
nullo,
a
giudicare
dalla
violenta
reazione
delle
sinistre.
Queste, a loro volta, rivolsero molte delle loro speranze
al
Mezzogiorno,
fin’allora
roccaforte
democristiana.
Diversi
dirigenti
si
dissero
sicuri,
prima
del
18
aprile,
che
il
Sud
avrebbe
consegnato
la
vittoria
alle
sinistre.
Tra loro Togliatti: “De Gasperi ha capito che questa volta
il
verdetto
di
condanna
delle
masse
popolari
contro
questo
governo
non
verrà
dall’Italia
del
Nord.
Ma
verrà
prima
di
tutto
dal
Mezzogiorno,
lavoratore,
contadino
e
piccolo
borghese,
il
quale
si
schiererà
accanto
agli
operai,
ai
professionisti,
agli
intellettuali
delle
regioni
più
progredite
dell’Italia
settentrionale,
per
mettere
fine
alla
vergognosa
dittatura
del
governo
dei
clericali”.
La profezia, come del resto il sondaggio della Doxa di Milano
che
pure
fotografava
i
mutati
rapporti
di
forza
(pronosticando
il
45%
dei
voti
alla
Dc,
il
27%
al
Fronte)
non
si
rivelò
indovinata;
l’immensa
affluenza
ai
comizi
di
sinistra
aveva
ingannato
gli
analisti
e
ubriacato
i
leader
del
Fronte,
distorcendo
clamorosamente
ogni
tipo
di
previsione
politica:
“eravamo
convinti
di
essere
riusciti
a
ricreare
un’atmosfera
simile
a
quella
del
CLN”,
e le
piazze
plaudenti
“ci
confermavano
nella
certezza
di
avere
con
noi
la
maggioranza
del
Paese”,
riferì
poi
Pajetta.
Non si resero conto, coinvolti com’erano, che in fin dei
conti
la
campagna
propagandistica
avrebbe
premiato
il
blocco
filo-occidentale,
più
influente,
presentabile,
sorretto
da
forze
energiche
e
istanze
religiose,
carico
di
miti,
esperienze
e
suggestioni;
non
capirono,
in
fondo,
che
a
trainarlo
c’era
la
comune
volontà
di
non
peggiorare
una
situazione
già
drammatica.
All’inizio del 1948, in un’Europa scopertasi improvvisamente
irrigidita,
solo
due
Paesi
attendevano
la
definitiva
collocazione
in
un
blocco
e
godevano
ancora
di
una
situazione
apparentemente
elastica:
la
Cecoslovacchia
e
l’Italia.
Della prima si è detto: l’incertezza si risolse con il colpo
di
mano
comunista,
ed
il
Paese
fu
infine
annesso
–
con
i
metodi
che
conosciamo
- al
suo
blocco
“naturale”,
mentre
si
consumò
l’esperienza
dell’“alleanza
antifascista”;
restava
da
risolvere,
per
un
mese
ancora,
la
collocazione
dell’Italia,
che
aveva
da
tempo
adempiuto
al
secondo
passaggio.
“Il governo s’impegna a rispettare la sovranità popolare?”,
chiese
più
volte
Togliatti
sul
finire
della
campagna
elettorale,
senza
ottenere
mai
una
risposta
chiara:
anche
se,
forse,
quel
silenzio
di
De
Gasperi
parlava
da
sé.
Sarebbe ingenuo, infatti, pensare che gli Usa avrebbero
accettato
per
amor
di
democrazia
un
passaggio
nel
campo
avversario
dell’Italia
-
fin
dal
1943
unanimemente
inserita
nel
blocco
atlantico,
e
neanche
nominata
nel
famoso
“accordo
delle
percentuali”
tra
Stalin
e
Churchill,
tanto
scontata
appariva
la
sua
collocazione
-
dopo
tutti
gli
sforzi
che
da
un
certo
momento
in
poi
avevano
profuso
per
mantenere
il
paese
legato
al
“carro
occidentale”;
e
sarebbe
altrettanto
ingenuo
ritenere
che
una
parte
della
“base”,
oltre
a
tutta
quella
fetta
del
Pci
che
faceva
capo
a
Secchia
ed
ai
quadri
partigiani
e si
preparava
da
tempo
ad
un’eventualità
simile,
non
sarebbe
intervenuta
in
caso
di
vittoria
non
riconosciuta
del
Fronte,
e
forse
anche
in
caso
di
maggioranza
relativa
o
sostanziale
parità.
I dirigenti di sinistra (con alcune illustri eccezioni)
mostrarono
di
accorgersene,
presentandosi
sotto
spoglie
rassicuranti
e
tutto
sommato
tradizionaliste,
senza
auspicare
brusche
rotture
nè
quei
traumatici
rivolgimenti
che
erano
inscritti
nella
stessa
natura
del
Fronte:
basti
il
proposito
di
affidare
il
governo,
in
caso
di
vittoria,
non
a
Togliatti
o
Nenni
–
evidentemente
troppo
compromessi
con
il
lato
“sbagliato”
della
barricata
– ma
ad
un
democristiano
di
sinistra,
per
mitigare
in
qualche
modo
la
reazione
americana;
oppure
bastino
le
sollecitazioni
di
Togliatti
al
Comitato
centrale
d’intesa
per
la
libertà
elettorale
presieduto
da
Terracini,
nei
primi
d’aprile,
che
ottennero
l’invito
ufficiale
ad
evitare
la
derisione
degli
sconfitti
mediante
manifesti
o
altri
strumenti
propagandistici.
Togliatti, “il Migliore”, come leader di massa conosceva la
situazione
politica
del
periodo
e
comprendeva
come
la
stabilizzazione
dei
blocchi
minasse
alla
radice
il
fondamento
della
proposta
di
governo
comunista;
per
tutte
queste
ragioni
–
come
confermato
da
diversi
contemporanei
-
non
avrebbe
accolto
negativamente
un’eventuale
sconfitta:
“I
miei
compagni
di
Torino
sono
impazziti”,
avrebbe
detto
secondo
quanto
riportato
da
Liliana
Lanzardo
qualche
giorno
prima
del
voto,
“Per
fortuna
non
saremo
in
grado
di
ottenere
i
risultati
che
voi
prevedete,
perché
se
per
combinazione
–
dico
per
combinazione
perché
non
sono
profeta,
quindi
queste
cose
potrebbero
anche
darsi
–
avessimo
la
maggioranza
alle
elezioni,
chi
di
voi
sarebbe
all’altezza
di
reggere
alla
situazione,
se
fate
politica
con
il
sentimento
e
non
con
il
calcolo?”.
Montanelli, a questo riguardo, faticò ad ammettere la possibilità
che
Togliatti
avesse
intuito
le
difficoltà
conseguenti
ad
un’affermazione
elettorale
frontista:
la
quale,
forse,
avrebbe
allontanato
il
Pci
da
quel
profilo
legale
che
il
segretario
del
partito
aveva
imboccato
anni
prima;
lo
studioso
toscano
propose
in
sostituzione
“l’abitudine,
acquisita
in
decenni
di
sopravvivenza
staliniana,
a
prepararsi
assicurazioni
e
contro
assicurazioni
per
ogni
evenienza”,
si
disse
al
contempo
certo
che
“non
poteva
non
preferire
una
trattativa
da
posizioni
di
forza”
e
concluse
che
“dedurne
che
gli
piacque
la
bastonatura
politica
del
18
aprile
è
troppo”.
É una lettura che non convince; a nostro parere, il buon
senso
va
distinto
dal
masochismo.
Togliatti non era un grande oratore, privo com’era di quella
capacità
di
leggere
le
pulsioni
e i
desideri
della
folla,
d’infiammare
gli
animi
e le
platee
che
si
ritrova
in
tanti
leader,
certo;
ma
era
per
converso
un
formidabile
uomo
“di
curia”,
cresciuto
all’ombra
dell’apparato,
e
come
fine
meteorologo
della
politica
coglieva
alla
perfezione
la
direzione
del
vento.
Aveva probabilmente intuito, quindi, che gli italiani, chiamati
– da
ultimi
- a
sanzionare
l’immutabile,
ad
adeguare
“il
soggettivo
all’oggettivo”
e a
riconoscere
l’evidenza
del
quadro
geo-politico,
erano
in
un
certo
senso
obbligati
in
senso
filo-occidentale,
se
volevano
evitare
di
demolire
l’ordine
geopolitico,
di
attirare
un
intervento
americano
e,
forse,
d’avviare
una
distorsione,
in
senso
autoritario,
degli
stessi
regimi
democratici
occidentali
(una
“grecizzazione”,
per
così
dire),
aprendo
una
crisi
dalle
conseguenze
incalcolabili.
è come se, da un certo punto in poi, le principali forze in
gioco
–
eccettuato
forse
il
solo
Nenni,
con
il
suo
ingenuo
ottimismo
-
avessero
tacitamente
accettato,
ed
auspicassero
quasi
(magari
inconsciamente)
un
determinato
esito
del
confronto:
dall’URSS
al
Vaticano,
da
Togliatti
agli
Stati
Uniti,
era
chiaro
a
tutti
che
un
eventuale
sconfinamento
nell’eterodossia,
un
clamoroso
insuccesso
elettorale
del
“blocco”
filo-occidentale
e
dei
suoi
rappresentanti
avrebbe
messo
a
rischio
la
giovane
Repubblica,
incrinato
pericolosamente
l’intero
equilibrio
strategico
delle
due
superpotenze
e
rimescolato
i
rapporti
di
forza
stabiliti
dal
conflitto,
precipitando
gli
uni
e
gli
altri
- i
vincitori
come
i
vinti
– in
una
spirale
nebbiosa
e
imprevedibile,
dove
entrambi
i
contendenti
avrebbero
rischiato
di
perdere
quanto
guadagnato.
Nessuno
aveva
intenzione
di
rischiare
tutto
il
capitale
politico
accumulato
nel
corso
del
conflitto,
e
precariamente
stabilizzatesi,
in
una
sola
mano
risolutiva;
neanche
l’URSS,
che
in
fin
dei
conti
si
mostrava
molto
più
interessata
al
consolidamento
che
all’espansione,
e
che
aveva
pagato
con
un
cumulo
di
morti
la
secolare
aspirazione
ad
un
“cordone
sanitario”
che
la
proteggesse
da
vicini
ostili.
Scrisse il 6 aprile, pochi giorni prima delle consultazioni,
l’analista
Walter
Lippmann,
le
cui
simpatie
democratiche
non
indulgevano
certo
al
catastrofismo:
“Dopo
la
seconda
guerra
mondiale,
l’Armata
rossa
è
avanzata
fino
al
centro
dell’Europa.
Tutti
i
Paesi
rimasti
alle
sue
spalle
[…]
sono
stati
sottoposti
al
dominio
comunista.
Ma
fino
a
oggi
nessun
Paese
che
non
sia
stato
occupato
o
circondato
dall’Armata
rossa
è
diventato
comunista
[…]
Se
il
popolo
e il
governo
italiani
si
arrendono
ora
al
comunismo,
l’Italia
sarà
il
primo
Paese
in
cui
la
sola
quinta
colonna
comunista,
separata
dalle
altre
quattro
colonne
dell’Armata
rossa,
sarà
riuscita
a
conquistare
uno
Stato
moderno.
Il
risultato
[delle
elezioni]
in
Italia
dimostrerà
dunque
se
il
Cremlino
può
o
meno
assicurarsi
il
controllo
dell’Europa
attraverso
la
guerra
fredda.
Io
sono
uno
di
coloro
che
hanno
sempre
pensato
che
non
avrebbe
potuto
farlo,
che
in
tutti
i
Paesi
europei
che
non
si
trovano
entro
l’orbita
di
espansione
dell’Armata
rossa
o
non
erano
sotto
la
minaccia
di
invasione,
le
forze
nazionali
si
sarebbero
dimostrate
più
forti
della
quinta
colonna
comunista
[…].
L’Italia
è il
terreno
dove
si
potrà
provare
se
questa
teoria,
derivata
dall’esperienza
di
30
anni,
è
vera
[…]
Molto,
forse
l’intero
problema
della
guerra
e
della
pace,
è
connesso
alla
capacità
italiana
di
dimostrare
che
il
comunismo
non
può
espandersi
attraverso
la
guerra
fredda.
Se
il
comunismo
si
può
espandere
promuovendo
la
guerra
fredda,
allora
io
temo
che
questo
significherà
che
noi
siamo
in
un’epoca
di
lotte
intestine
senza
fine,
che
non
possono
essere
concluse
con
l’ausilio
della
diplomazia:
significherà
che
il
conflitto
è di
natura
tale
da
non
poter
essere
affrontato
dai
governi
costituzionali
con
nessuno
dei
metodi
che
fino
a
oggi
hanno
regolato
gli
affari
internazionali”.
Il 18 aprile del 1948 il popolo italiano fu quindi chiamato
a
sancire,
riconoscere
la
divisione
dell’Europa
in
blocchi
e
insieme
a
collocarvisi:
il
dilemma
delle
elezioni
del
1948
si
nasconde
almeno
in
parte
nelle
pieghe
di
questa
contraddizione
tra
universale
e
particolare,
tra
internazionale
e
locale,
e
nella
collettiva
percezione
d’uno
scollamento
da
ricomporre.
Il destino di molti, forse – come sosteneva Lippmann – degli
stessi
governi
costituzionali
che
caratterizzavano
l’Europa
occidentale,
passava
dunque
per
quell’Italia
povera,
dipendente,
strattonata
da
ogni
parte
affinché
comprendesse,
“costi
quel
che
costi”,
qual’era
la
parte
assegnatagli
sul
palcoscenico
della
Storia,
barcollante
per
la
paura
di
non
esserne
all’altezza.
Scrisse Piero Calamandrei nell’imminenza del voto: “Tutte
le
questioni
di
carattere
specifico
e
concreto,
di
cui
in
tempi
ordinari
è
fatta
la
politica,
passate
in
seconda
linea;
i
programmi
tecnici
messi
da
parte;
come
si
dovrà
costruire
il
fastigio
che
manca
ancora
alla
Costituzione,
cioè
la
Corte
Costituzionale,
o
come
si
attuerà
l’ordinamento
regionale,
che
è
ancora
tutto
da
fare
e
che
pur
ieri
pareva
argomento
vivo
nelle
regioni
–
nessuno
se
ne
cura
più.
Tutto
è
ridotto
ad
un’alternativa;
ancora
una
volta,
più
che
alla
scelta
dei
suoi
rappresentanti,
il
popolo
italiano
è
chiamato
a un
plebiscito,
che
non
importa
(o
almeno
così
si
dice)
altro
che
due
soluzioni:
un
sì o
un
no”.
Un’alternativa carica dunque di significato, quella italiana:
ma
dall’esito
obbligato,
valutando
l’imponenza,
gli
sforzi
del
blocco
occidentale
ed i
paventati,
catastrofici
effetti
d’una
sua
sconfitta,
capace
di
rimettere
in
moto
il
carosello
di
tensioni
che
proprio
con
le
elezioni
italiane
si
era
sperato
di
congelare
-
dall’una
come
dall’altra
parte
-
nella
monolitica
struttura
dei
blocchi.