N. 18 - Giugno 2009
(XLIX)
la CAMPAGNA ELETTORALE DEL 1948
Attori, sostegni, debolezze
di Cristiano Zepponi
Tutti e
tre i partiti principali dovettero risolvere delle
problematiche interne, prima di lanciarsi nella corsa
elettorale.
I
socialisti del Psi dovettero affrontare i dubbi e le
perplessità provocate dall’affiliazione ad una lista
unica con i comunisti; il Pci, a sua volta, barcollò tra
i tentativi togliattiani di “purificare” il partito da
ogni vocazione eversiva e l’inclinazione
extra-parlamentare rispolverata in determinate
circostanze (“Il Partito comunista si muove sul terreno
della democrazia e della libertà sancite dalla
Costituzione repubblicana, ma di fronte all’ormai palese
volontà delle forze conservatrici e reazionarie, unite
intorno al Partito della democrazia cristiana, di
ostacolare con tutti i mezzi l’ascesa del lavoro, le
riforme e il rinnovamento della struttura economica del
Paese, fino a minacciare di mettere fuori legge il
partito che in modo più tenace lotta per questa ascesa e
per queste riforme, i comunisti chiamano tutti i
lavoratori, del braccio e della mente, e di tutte le
categorie, a unirsi e a organizzarsi solidamente per
preparare di fatto, nell’industria e nell’agricoltura,
quelle trasformazioni di cui l’Italia ha bisogno, e per
essere pronti a respingere ogni minaccia reazionaria”,
recitava la risoluzione del VI congresso del partito); e
la Dc, in occasione del suo II congresso, in novembre,
registrò la comparsa di un’ala sinistra, formata dai
cosiddetti “dossettiani” (raccolti intorno al
quindicinale “Cronache sociali”), convinta che la
dissoluzione dell’alleanza con le sinistre non dovesse
configurarsi come una “svolta a destra” sul piano
economico/sociale.
1.
Le
elezioni
amministrative
di
Pescara
Dopo
le
elezioni
romane
i
blocchi
concorrenti
si
affrontarono
nelle
amministrative
di
Pescara,
dove
in
dicembre
la
vecchia
giunta
–
guidata
da
un
repubblicano
–
era
stata
accusata
di
irregolarità
e
favoritismi,
e
successivamente
sciolta
dal
governo;
ne
era
scaturita
una
pronta
reazione
dei
partiti
di
sinistra
e di
gruppi
di
partigiani,
prontamente
affluiti
nella
città,
prima
che
la
situazione
si
risolvesse
in
un’incruenta
battaglia
elettorale.
Il
15
febbraio
del
1948
si
votò,
e
prevalse
proprio
la
compagine
anti-governativa
del
Blocco
del
Popolo,
formata
da
Pci,
Psi,
indipendenti
ed
ex-repubblicani,
capace
di
assicurarsi
la
maggioranza
assoluta
e di
passare
dai
17
seggi
del
marzo
1946
a
21,
mentre
gli
altri
partiti
incassarono
risultati
deludenti.
La
vittoria
delle
sinistre
sembrò
assumere
carattere
generale,
ed
in
molti
cominciarono
a
considerare
possibile
– o
addirittura
probabile
-
una
vittoria
del
Fronte
alle
elezioni
politiche
di
aprile;
ma
non
si
prestò
abbastanza
attenzione
al
carattere
particolare
di
quel
voto
–
emblematicamente
rappresentato
dalla
scelta
della
torre
municipale
come
simbolo
della
lista,
al
posto
del
volto
garibaldino
- ed
alle
circostanze
straordinarie
che
l’avevano
accompagnato.
Lo
stesso
giorno,
alla
Basilica
di
Massenzio,
nel
cuore
di
Roma,
De
Gasperi
tornò
all’attacco:
“Il
Pci
si è
sempre
mantenuto
nell’equivoco.
Mai
abbiamo
avuto
una
dichiarazione
in
cui
il
partito
comunista
dicesse:
io
ho
questo
e
quell’ideale
da
raggiungere;
ho
questo
postulato
da
sostenere:
però
il
mio
metodo
è
quello
della
legge,
è
quello
democratico.
Il
metodo
che
esclude
la
violenza
di
parte.
Mai
una
dichiarazione
è
venuta
ad
escludere
il
ricorso
alla
forza.
[…]
Il
duplice
sistema
comunista;
cioè
utilizzare
il
mezzo
democratico
e
parlamentare
e
contemporaneamente
riservarsi
il
ricorso
alla
forza
e
prepararlo
[…]
oggi
belano
i
comunisti,
ma
ben
conosciamo
le
loro
zanne
e lo
zoccolo
da
caproni”.
2. I
partiti
minori
Mentre
si
mettevano
in
moto
le
possenti
macchine
propagandistiche
dei
partiti
maggiori,
i
raggruppamenti
politici
minori
si
scatenarono
alla
ricerca
di
alleanze
e
collegamenti
che
li
mettessero
al
riparo
da
un
isolamento
fatale.
Il
Partito
d’Azione,
punto
di
riferimento
della
sinistra
non
marxista,
confluì
nel
psi
in
ottobre,
dopo
mesi
di
agitate
discussioni
che
avevano
visto
prevalere
ora
i
filo-socialdemocratici
–
favorevoli
ad
un
accordo
con
il
Psli
di
Saragat
e
sostenitori
di
una
politica
autonoma
nei
confronti
del
Pci
e
dell’URSS
–
ora
i
filo-Nenniani,
preoccupati
dai
rapporti
di
Saragat
con
gli
Stati
Uniti
e
timorosi
di
vedersi
allontanati
dal
contatto
diretto
con
la
classe
operaia:
proprio
questi
ultimi
riuscirono
infine
vincitori
dopo
le
dimissioni
dai
rispettivi
incarichi
di
alcuni
esponenti
della
corrente
avversaria
(tra
cui
Calamandrei,
Valiani,
Garosci)
e la
tardiva
“conversione”
alla
linea
vincente
di
Lombardi,
segretario
del
partito,
e
Foa.
Un
altro
tentativo
di
scissione
in
campo
socialista
ad
opera
di
Ivan
Matteo
Lombardo
(ex-segretario
del
Psiup,
sostenitore
della
rottura
di
Saragat
ma
rifiutatosi
successivamente
di
aderire
al
nuovo
partito),
appoggiato
da
De
Gasperi
e
dagli
americani
si
concluse
invece
con
la
fondazione
di
un
nuovo
gruppo,
l’Us
(Unità
socialista),
che
subito
strinse
un’alleanza
elettorale
con
il
Psli
di
Saragat,
e
potè
sfruttare
l’isolamento
del
Psi,
conseguente
all’alleanza
con
i
comunisti,
all’interno
del
movimento
internazionale
socialista.
A
destra,
dominatore
della
scena
fu
il
nuovo
segretario
generale
del
Partito
liberale,
Roberto
Lucifero,
proveniente
dalle
file
dei
monarchici
e
deciso
a
costituire
un
Blocco
nazionale
sotto
la
guida
di
Francesco
Saverio
Nitti.
Il
progetto
era
quello
di
proporsi
come
i
più
genuini
rappresentanti
dello
schieramento
anti-comunista,
superando
“a
destra”
la
stessa
Dc,
che
“contiene
in
convivenza
[…]
Dossetti
che
è un
comunista,
un
paraliberale
come
Pella
e un
paracomunista
come
Fanfani”;
da
ciò,
derivava
logicamente
che
“nessuno
è
più
anticomunista
di
noi”,
come
rivendicato
in
un
discorso
del
14
febbraio
a
Napoli.
Il
progetto
del
Pli,
ormai
è
noto,
non
riuscì,
ed
il
partito
subì
una
batosta
se
possibile
ancor
più
pesante
di
quella
di
due
anni
prima;
ma a
Lucifero
–
nomen
omen
– va
riconosciuto
il
merito
d’aver
intercettato
il
clima
apocalittico
ed
esasperato
che
avrebbe
caratterizzato
le
elezioni,
leggendovi
la
contrapposizione
frontale
non
“tra
libertà
e
non
libertà,
ma
tra
Italia
e
non
Italia”,
tra
“piano
Marshall,
libertà,
Europa,
da
una
parte”
e
“miseria,
oppressione,
Asia
dall’altra”.
3.
La
Dc e
i
suoi
alleati
Come
si è
visto,
almeno
sulla
carta
la
Dc –
a
detta
anche
di
molti
suoi
sostenitori
–
aveva
dovuto
incassare
una
severa
sconfitta
nelle
elezioni
di
Pescara;
e se
è
vero
che
le
condizioni
specifiche
di
quelle
votazioni
furono
sottovalutate
dai
più,
è
altrettanto
vero
che
si
rendeva
necessario
qualcosa
di
nuovo
per
colmare
il
gap
con
gli
avversari.
Quel
qualcosa
fu
rappresentato
dai
due
influenti
“padrini”,
il
cui
apporto
è
sottolineato
in
gran
parte
della
storiografia
sul
tema,
che
in
effetti
proprio
allora
avviarono
– o
intensificarono
– la
loro
opera
in
favore
del
blocco
anti-comunista:
gli
Stati
Uniti
d’America
ed
il
Vaticano;
ma
anche,
aggiungiamo
noi,
dalle
manovre
dell’URSS,
le
cui
politiche
favorirono
indirettamente
la
‘rimonta’
democristiana.
3.1.
L’intervento
degli
Usa.
Nell’attesa
dei
primi
aiuti
finanziari
del
Piano
Marshall,
previsti
per
l’aprile
del
1948
(troppo
tardi,
dunque,
per
influire
tangibilmente
sull’elettorato),
il
governo
statunitense
varò
– in
sostituzione
del
programma
Unrra,
ormai
conclusosi
–
due
iniziative
d’emergenza
destinate
ai
partner
europei
più
bisognosi:
la
prima,
noto
come
post-Unrra
e
destinato
a
“coprire”
i
mesi
rimanenti
dell’anno,
destinava
all’Italia
117
milioni
di
dollari;
la
seconda,
l’Interim-Aid
(in
vigore
fino
a
fine
marzo
del
1948),
attribuiva
all’Italia
una
quota
di
176
milioni.
Questi
quasi
300
milioni
di
dollari
(destinati
generalmente
all’acquisto
di
generi
di
prima
necessità),
insieme
alle
navi
cariche
di
aiuti
statunitensi
che
cominciavano
ad
affluire
sempre
più
numerose
nei
porti
italiani,
costituivano
un
capitale
politico
di
primaria
rilevanza
che
l’ambasciatore
James
Dunn
seppe
utilizzare
anche
e
soprattutto
per
promuovere
l’immagine
degli
Stati
Uniti
nel
Paese.
L’ambasciata
americana,
sotto
la
guida
di
Dunn,
si
prodigò
infatti
in
un
lavoro
febbrile,
in
quei
mesi,
organizzando
simboliche
cerimonie
celebrative
– il
cui
significato
politico
andava
sempre
più
chiarendosi
- in
occasione
dell’arrivo
di
ogni
centesima
nave
americana,
intervenendo
continuamente
da
un
capo
all’altro
della
penisola
per
festeggiare
insieme
ai
futuri
elettori
l’avvenuta
realizzazione
(finanziata
dagli
aiuti
d’oltreoceano)
di
infrastrutture,
abitazioni,
ospedali
o lo
sbarco
festoso
di
medicinali,
sacchi
di
farina
e
container;
ed
ottenne
l’entusiastico
sostegno
del
governo
e
del
mondo
politico
italiano
(escluse
le
sinistre)
in
genere,
ansioso
di
sottolineare,
evidenziare
e
lodare
gli
apporti
d’oltreoceano
con
ogni
mezzo
a
disposizione,
radio
e
stampa
(governative)
comprese:
“gli
aiuti
d’America
ci
aiutano
ad
aiutarci
da
noi”,
campeggiava
su
un
famoso
manifesto
dell’epoca.
Ma
l’importanza
degli
aiuti
statunitensi
non
si
limitò
a
questo:
consistette
anche
nell’ingabbiare
sottilmente
la
propaganda
comunista,
costretta
a
isolarsi
dal
coro
di
unanime
apprezzamento
per
la
generosità
americana,
a
denunciare
la
sostanziale
subalternità
del
Paese
alla
politica
statunitense
e
l’intento
propagandistico
dei
discorsi
pronunciati
in
quelle
occasioni
(“L’ambasciatore
americano
apre
la
campagna
elettorale
della
Dc”,
titolava
ironicamente
l’“Unità”
all’indomani
dell’approdo
della
400ma
nave
statunitense
a
Reggio
Calabria,
il 5
marzo
1948).
Anche
la
società
civile
americana
decise
di
partecipare
a
quella
che
si
cominciava
ad
avvertire
come
una
battaglia
decisiva,
non
solo
per
le
sorti
del
disastrato
Paese
mediterraneo:
un
convoglio
pieno
di
regali
(il
“treno
dell’amicizia”
ideato
dal
giornalista
Drew
Pearson),
dopo
il
trasporto
per
nave
degli
aiuti
privati,
prese
a
percorrere
la
penisola
e a
seminare
lungo
la
via
comizi
e
cerimonie,
festeggiato
ad
ogni
tappa
da
autorità
entusiaste
e
folle
imbandierate;
gruppi
di
cittadini,
spesso
italo-americani,
s’impegnarono
oltreoceano
a
sostenere
le
forze
anti-comuniste;
e
lettere
o
cartoline
individuali,
inizialmente
basate
su
preesistenti
legami
di
parentela
e
d’amicizia
e
prevalentemente
indirizzate
all’Italia
meridionale,
cominciarono
a
piovere
copiose
nelle
caselle
postali
degli
italiani
con
contenuto
variabile:
dagli
inviti
amichevoli
al
voto
filo-americano
alle
accuse
anti-comuniste,
dai
consigli
elettorali
alle
“rimesse”
dei
familiari,
dalle
minacce
concrete
–
stop
agli
aiuti
o
all’emigrazione
–
agli
anatemi
metafisici
–
“la
maledizione
di
Dio
cadrà
su
di
te e
sulla
tua
famiglia”.
L’intervento
americano,
però,
s’intensificò
notevolmente
a
partire
dalle
elezioni
di
Pescara,
che
polverizzarono
d’un
colpo
il
cauto
ottimismo
dei
filo-occidentali
nei
mesi
precedenti.
Innanzitutto,
nella
discussione
politica
fu
introdotto
il
problema
di
Trieste,
dove
la
situazione
era
rimasta
immutata
dalla
fine
della
guerra
(la
zona
B
era
ormai
entrata
di
fatto
a
far
parte
del
territorio
jugoslavo,
mentre
la
zona
A
rimaneva
controllata
dagli
anglo-americani,
che
potevano
così
presidiare
il
tratto
meridionale
della
“cortina
di
ferro”):
una
“dichiarazione
tripartita”
anglo-franco-americana
del
20
marzo
che
proponeva
di
restituire
alla
sovranità
italiana
il
Territorio
Libero
di
Trieste
(la
zona
A,
in
pratica)
ebbe
l’effetto
di
recuperare
alla
propaganda
occidentale
un
tema
di
sicura
risonanza
emotiva
e di
anticipare
un’analoga
mossa,
che
si
riteneva
in
preparazione
da
parte
sovietica;
le
sinistre,
prese
in
contropiede,
dovettero
di
nuovo
limitarsi
a
denunciare
la
“speculazione
elettorale”
incassando,
nella
sostanza,
un
altro
pesante
successo
propagandistico
degli
avversari;
contemporaneamente,
cominciarono
a
piovere
nelle
caselle
postali
degl’italiani
migliaia
di
lettere
false,
opera
di
un
fantomatico
cittadino
triestino
che
invitava
a
votare
contro
il
comunismo
in
sua
vece.
Per
minimizzare
almeno
in
parte
gli
effetti
dirompenti
dell’aiuto
economico
americano,
i
dirigenti
del
Fronte
ricorsero
all’artificio
di
annunciare
pubblicamente
la
continuazione
dei
rifornimenti
statunitensi
anche
in
caso
di
successo
elettorale
delle
sinistre,
riservandosi
però
il
diritto
di
gestirli
in
senso
favorevole
alle
classi
lavoratrici
e a
patto
che
nessun
condizionamento
derivasse
alle
autonome
scelte
nazionali
in
politica
interna
ed
estera.
Era
una
posizione
già
di
per
sé
debole,
come
vedremo
in
seguito,
ma
l’ambasciatore
Dunn
si
attivò
comunque
per
disinnescarne
gli
effetti,
che
ai
suoi
occhi
rischiavano
di
mettere
a
repentaglio
il
faticoso
lavorìo
propagandistico
dei
mesi
precedenti:
il
problema
fu
sollevato
dal
giornalista
americano
Cyrus
Sulzberger,
autore
di
un
articolo
chiaramente
concordato
che
rivelava
il
proponimento
governativo
di
annunciare
l’esclusione
dell’Italia
dal
Piano
Marshall
in
caso
di
ascesa
al
potere
dei
comunisti
(con
mezzi
legali
o
meno);
il
giorno
seguente
toccò
a
Michael
McDermott,
funzionario
del
Dipartimento
di
Stato,
confermare
l’esattezza
dell’indiscrezione:
“I
comunisti
in
Italia
hanno
sempre
detto
di
non
volere
l’Erp.
Se i
comunisti
vinceranno
–
cosa
che
non
possiamo
credere,
conoscendo
lo
spirito
e lo
stato
d’animo
del
popolo
italiano
–
non
si
porrà
più
il
problema
di
un’ulteriore
assistenza
economica
da
parte
degli
Stati
Uniti”.
La
stampa
governativa
cavalcò
con
decisione
la
notizia,
costringendo
gli
avversari
ad
occuparsene;
tuttavia,
mentre
l’“Avanti!”
preferì
tacere,
l’“Unità”
pubblicò
una
versione
largamente
manipolata
delle
dichiarazioni
del
funzionario,
tentando
di
sminuire
la
portata
delle
sue
parole
invece
di
insistere
sull’evidente
scopo
ricattatorio
del
discorso.
A
quel
punto,
sotto
la
pressione
dei
dirigenti
italiani
interessati
ad
allargare
la
falla
apertasi
nella
proposta
di
governo
del
Fronte,
gli
americani
tornarono
sull’argomento:
il
20
marzo
il
segretario
di
Stato
George
Marshall,
in
un
discorso
a
Berkeley,
in
California,
dopo
aver
ricordato
che
i
comunisti
italiani
–
nel
corso
della
campagna
elettorale
-
“hanno
pubblicamente
affermato
che
se
il
loro
partito
risultasse
vincitore,
l’assistenza
economica
americana
all’Italia
continuerebbe
senza
cambiamenti”
mentre
“a
tutte
le
nazioni
europee
sotto
l’influenza
comunista
è
stato
impedito
di
partecipare
all’European
Recovery
Program”,
concluse:
“Dato
che
l’associazione
all’Erp
è
completamente
volontaria,
i
cittadini
di
ogni
Paese
hanno
il
diritto
di
cambiare
idea
e,
in
effetti,
di
ritirarsi.
Se
decidono
di
votare
per
mandare
al
potere
un
governo
nel
quale
la
forza
politica
dominante
è un
partito
che
ha
spesso,
pubblicamente
ed
enfaticamente,
proclamato
la
propria
ostilità
per
questo
programma,
questo
voto
potrebbe
essere
giudicato
solo
come
una
prova
del
desiderio
di
tale
Paese
di
dissociarsi
dal
programma
stesso.
Al
nostro
governo
non
rimarrebbe
che
prendere
atto
che
l’Italia
si è
tagliata
fuori
dai
benefici
dell’European
Recovery
Program”.
Con
queste
parole
il
sostegno
alla
Dc
da
parte
degli
Stati
Uniti
raggiunse
lo
zenit,
rivelandosi
un
patrimonio
propagandistico
di
primaria
importanza
a
favore
del
blocco
filo-occidentale.
3.2.
“Con
Cristo
o
contro
Cristo”
La
Chiesa
di
Pio
XII,
all’indomani
del
secondo
conflitto
mondiale,
ribadì
il
ruolo
della
direzione
ecclesiastica
nella
riedificazione
della
società
pur
accettando
l’affermazione
della
democrazia
a
fondamento
dell’ordinamento
internazionale:
e lo
fece
precisando,
fin
dall’inizio,
che
la
legittimità
del
nuovo
ordinamento
dovesse
riposare
“nel
quadro
complessivo
di
una
società
diretta
dalla
Chiesa”.
Si
schierò
fin
dall’inizio,
quindi,
a
favore
di
una
democrazia
che
non
poteva
non
essere
cristiana,
e
come
tale
ostile
al
comunismo;
proprio
su
queste
basi
si
delineò
una
convergenza
con
le
potenze
occidentali,
per
quanto
le
vedute
su
alcune
posizioni
diplomatiche
potessero
rivelarsi
divergenti,
che
si
trasformò
in
allineamento
al
momento
dell’irrigidimento
dei
blocchi.
Chiesa
ed
Occidente
trovarono
un
trait
d’union
nella
decisa
opposizione
al
comunismo;
e se
l’Occidente
stesso
si
trovava
alle
prese
con
una
sempre
più
diffusa
secolarizzazione
e
con
un
impietoso
abbandono
della
pratica
rituale/sacramentale,
la
Chiesa
scelse
di
collegare
quest’ultima
all’orientamento
politico
dei
fedeli:
basti
pensare
all’istituzione
della
devozione
per
il
Sacro
Cuore,
canale
privilegiato
per
il
raggiungimento
di
quella
società
ieratica
(il
Regno
di
Cristo)
che
il
pontefice
aveva
vagheggiato
fin
dalla
prima
enciclica.
Fin
dalle
prime
consultazioni
elettorali
(2
giugno
1946),
quindi,
la
Dc
potè
beneficiare
di
un
concreto
sostegno,
di
un
appoggio
capillare
e
costante
da
parte
delle
gerarchie
ecclesiastiche,
che
intendevano
indirizzare
i
suffragi
moderati
verso
la
lista
scudocrociata
facendone
il
perno
della
riedificazione
economica,
politica
ed
etica
del
Paese:
e
senza
questo
fondamentale
sforzo
“il
successo
della
Dc,
fin
dalle
elezioni
amministrative
del
marzo-aprile
1946,
non
sarebbe
spiegabile”.
In
questo
senso
la
politica
di
apertura
di
Togliatti
–
esplicitata
dalla
posizione
assunta
nei
confronti
dell’art.
7
della
Costituzione,
votato
per
evitare
lacerazioni
nella
coscienza
del
Paese
e in
nome
di
una
volontà
di
collaborazione
che
animava
tutta
la
sua
azione
politica
del
periodo
–
non
bastò
a
tacitare
gli
animi,
né
ad
appianare
le
contrapposizioni.
L’inserimento
a
pieno
titolo
della
Chiesa
nelle
vicende
politiche
italiane
si
realizzò
compiutamente
con
il
discorso
che
papa
Pio
XII
pronunciò
a
Piazza
San
Pietro
il
22
dicembre,
vigilia
di
Natale
del
1946,
anticipando
in
effetti
gli
indirizzi
della
politica
governativa
(che,
come
abbiamo
visto,
giunse
solo
nel
maggio
del
1947
alla
rottura
dell’“alleanza
antifascista”):
quel
giorno,
davanti
a
migliaia
di
romani,
Pio
XII
sferrò
un
violento
attacco
contro
gli
“empi
negatori
di
Dio,
profanatori
delle
cose
divine,
adoratori
del
senso”
che
macchiavano
di
ignominia
e
coprivano
di
fango
“il
volto
sacro
di
Roma”;
e
proseguì
affermando
che
“Dal
suolo
romano,
il
primo
Pietro,
circondato
dalle
minacce
di
un
pervertito
potere
imperiale,
lanciò
il
fiero
grido
di
allarme:
resistere
forti
nella
fede.
Su
questo
medesimo
suolo
noi
ripetiamo
oggi
con
raddoppiata
energia
il
grido
a
voi
la
cui
città
natale
è
ora
teatro
di
sforzi
incessanti,
volti
ad
infiammare
la
lotta
tra
due
opposti
schieramenti:
o
con
Cristo
o
contro
Cristo;
o
per
la
sua
Chiesa,
o
contro
la
sua
Chiesa”.
Fu
il
segno
di
un
avvenuto
salto
di
qualità,
d’una
presa
di
posizione
convinta
e
d’un
intransigente
irrigidimento
della
politica
vaticana,
che
di
fatto
riconosceva
e
sanciva
il
contemporaneo
processo
di
bipolarizzazione
in
atto
a
livello
politico,
e
insieme
d’un
invito
allo
scontro
che
si
sapeva
prossimo,
e
non
s’aveva
più
cura
d’attendere:
“La
persecuzione
religiosa
nei
Paesi
dell’Est
è
spietata.
Rapporti
molto
dettagliati
in
materia
impressionano
molto
il
Santo
Padre.
Vi è
un
rischio
del
genere
da
noi,
se
le
elezioni
le
vinceranno
gli
altri?
Senza
dubbio
sì.
Per
questo
varie
proposte
mirano
a
impegnare
direttamente
il
Vaticano
nella
campagna
elettorale”,
scrisse
Andreotti,
giovane
sottosegretario
ala
presidenza
del
Consiglio,
alla
vigilia
del
1948.
Le
elezioni
italiane
del
1948
costituirono
appunto
il
teatro
in
cui
si
esplicò
il
coinvolgimento
diretto
nell’agone
politico
delle
22.000
parrocchie
italiane
e
dell’Azione
cattolica,
come
Pio
XII
stesso
ebbe
a
definirla
l’organizzazione
laicale
per
“una
speciale
e
diretta
collaborazione
[sostituito
a
partecipazione,
il
termine
scelto
dal
predecessore,
per
sottolineare
la
direzione
della
gerarchia]
all’apostolato
gerarchico
della
Chiesa”.
La
dichiarata
apoliticità
dell’associazione
fu
posta
in
secondo
piano
dal
fervente
attivismo
del
medico
genetista
Luigi
Gedda
(allievo
del
famoso
endocrinologo
Pende),
nominato
presidente
degli
uomini
dell’Aci
nell’ottobre
del
1946,
dopo
dodici
anni
passati
alla
guida
del
settore
giovanile.
Non
si
trattò
di
un’investitura
contingente,
dettata
dall’urgenza
della
situazione
e
dalla
necessità
di
tamponare
il
pericolo
comunista:
gli
spazi
politici
conquistati
in
quei
mesi
agitati
continuarono
ad
appartenerle
anche
dopo
le
elezioni,
nonostante
gli
sforzi
di
alcuni
dirigenti
(come
C.Carretto,
1910-1988
e
M.V.
Rossi,
1925-1976)
che
tentarono
di
ri-orientarne
gli
interessi
verso
la
sfera
religiosa
prima
di
essere
costretti
alle
dimissioni;
e
l’organizzazione
seguitò
ad
essere
mobilitata
quando
necessario
per
influenzare
le
scelte
di
un
governo
di
per
sé
già
“cattolico”.
Comunque
sia
le
manifestazioni
dell’Aci
crebbero,
dopo
l’elezione
di
Gedda,
in
numero
e in
visibilità,
presero
a
frequentare
di
proposito
le
zone
più
“rosse”
parallelamente
alle
“missioni
religioso-sociali”,
che
si
proponevano
di
effettuare
“una
profonda
aratura
della
coscienza,
nel
cui
solco
sarebbe
poi
stato
più
facile
far
cadere
il
seme
delle
decisioni
politiche
coerenti”;
tali
iniziative
consegnarono
così
al
Paese
un’immagine
di
forza
e
compattezza
culminante
nell’adunata
romana
del
7
settembre
del
1947,
nel
corso
della
quale
papa
Pacelli
prescrisse
ai
militanti
di
prepararsi
all’“ora
della
prova
e
dell’azione”:
a
tutti
gli
effetti
“una
manifestazione
di
forza,
che
con
l’imponenza
numerica,
dimostri
a
tutti,
agli
amici
e
agli
avversari
della
Religione,
chi
siamo,
quanti
siamo,
che
cosa
vogliamo”.
Parallelamente,
si
evidenziò
la
necessità
di
uno
strumento
più
flessibile
,
nella
lotta
al
comunismo,
della
struttura
della
Dc,
che
l’affiancasse
e la
pungolasse,
proposto
da
Gedda
già
nella
riunione
della
presidenza
generale
dell’Aci,
il
10
gennaio
del
1947:
ma
il
progetto,
alquanto
confuso
e
oltretutto
guardato
con
sospetto
da
coloro
che
temevano
la
nascita
di
un
secondo
partito
cattolico,
cadde
nel
nulla.
Fu
l’intensificazione
della
campagna
elettorale,
nei
mesi
che
accompagnavano
la
fine
dell’anno,
a
resuscitare
quell’idea.
Se
ne
fecero
promotori,
forti
del
sostegno
di
Pio
XII,
monsignor
Montini
e il
cardinale
Pizzardo;
furono
loro
a
rivolgersi
a
Gedda,
l’uomo
che
aveva
fin’allora
mostrato
maggiore
comprensione
per
le
nuove
esigenze
della
situazione
politica:
i
Comitati
Civici,
la
sua
opera
più
famosa,
nacquero
infine
l’8
febbraio
del
1948
per
ampliare
la
base
elettorale
delle
forze
anti-comuniste,
e
ricevettero
questo
nome
per
differenziarsi
dall’Aci,
oltre
che
per
aggirare
le
imposizioni
dei
Patti
Lateranensi.
“Pio
XII”,
ha
poi
testimoniato
lo
stesso
Gedda,
“Tante
volte
mi
ha
detto
che
ciò
che
i
comunisti
avevano
fatto
in
Oriente
(Polonia,
ecc.)
bastava
da
se
stesso
a
qualificarli
e a
dimostrare
cosa
essi
avrebbero
fatto
in
Italia
una
volta
al
governo.
Fu
il
papa
stesso
che
mi
invitò
il
26/1/1948,
il
1/2/1948
e il
14
dello
stesso
mese
a
promuovere
un
movimento
che
potesse
raccogliere
i
cattolici
militanti
dell’Aci
e
delle
altre
organizzazioni
perché
si
potessero
queste
forze
validamente
contrapporre
al
comunismo
che,
a
giudizio
di
Togliatti,
avrebbe
vinto
le
elezioni.
Il
S.
Padre
mi
diede
tale
incarico
perché
era
rimasto
favorevolmente
impressionato
dalla
manifestazione
degli
Uomini
Cattolici
che
si
era
svolta
nel
settembre
1947.
Pio
XII
mi
diede
queste
indicazioni
perché
l’Aci
non
poteva,
per
effetto
dei
Patti
Lateranensi,
interessarsi
di
politica
[…]
Il
Comitato
Civico
era
pertanto
al
di
fuori
dell’Aci;
l’incarico
fu
ad
personam”.
La
separazione
tra
Comitati
Civici
ed
Aci
apparve
da
subito
relativa:
da
una
parte,
Gedda
seguitò
a
mantenere
il
precedente
incarico;
dall’altra,
fu
l’Azione
Cattolica
a
fornire
i
primi
attivisti
al
nuovo
istituto.
Comunque
sia,
i
Comitati
Civici
si
diffusero
a
macchia
d’olio
–
“nelle
ultime
settimane
della
campagna
elettorale
il
nostro
esercito
poteva
contare
su
300.000
volontari”,
riferì
Gedda
- a
livello
regionale
e
zonale,
fungendo
da
centri
coordinatori
di
tutte
le
opere
religiose
della
zona,
effettuando
censimenti
dei
mezzi
di
trasporto
per
portare
alle
urne
anziani
e
malati,
distribuendo
il
materiale
di
propaganda
elaborato
dal
Centro
Direzionale,
spingendo
a
votare
per
quei
candidati
maggiormente
fedeli
alla
dottrina
cristiana.
Un
impegno
dunque
organizzativo
e
contemporaneamente
logistico:
“si
trattava
di
convincere
e,
in
molti
casi,
quasi
di
portare
la
gente
a
votare;
poi
bisognava
essere
sicuri
che,
una
volta
giunti
davanti
alle
urne,
anche
i
meno
colti,
anche
gli
analfabeti
e i
vecchi
contadini,
sapessero
cosa
fare,
dove
mettere
la
loro
croce
[…]
anche
il
linguaggio
usato
dai
loro
opuscoli,
slogan
come
‘coniglio
chi
non
vota’,
che
ricordavano
espressioni
simili
dei
comunisti
e
dei
qualunquisti,
hanno
avuto
un
ruolo
notevole
nello
scuotere
gli
strati
più
assonnati
della
popolazione”;
si
puntava,
evidentemente,
a
scuotere
la
psicologia
e
l’autostima
dell’elettore,
semplicizzando
slogan
e
registro
comunicativo
dei
manifesti
e
riscoprendo
la
tradizione
dell’illustrazione
cartellonistica,
illustrata
più
che
scritta:
stereotipata,
caricaturale
ed
immediata.
I
nuovi
arrivati
–
presto
affiancati
da
Civiltà
Italica,
organizzazione
“incaricata
di
formare
l’opinione
pubblica
per
mezzo
di
diversi
mezzi
di
comunicazione
e di
fornire
una
stanza
di
compensazione
per
contatti
e
attività
tra
individui
e
gruppi
che
si
oppongono
ai
partiti
comunista
e
socialista
di
sinistra”,
secondo
le
parole
del
suo
organizzatore,
mons.
Ronca
-
turbarono
seriamente
il
presidente
generale
dell’Azione
Cattolica,
Vittorni
Veronese,
oltre
a
molti
suoi
responsabili
locali.
Ed
entrarono
anche
in
contrasto
con
il
servizio
di
propaganda
della
Dc,
la
“Spes”
(Servizio
propaganda
e
studi),
generando
non
pochi
timori
in
gran
parte
dei
dirigenti
democristiani,
timorosi
di
un
controllo
diretto
del
Vaticano
e
della
perdita
dei
finanziamenti
fin’allora
ricevuti:
anche
per
questo,
soprattutto
a
posteriori,
gran
parte
dei
dirigenti
democristiani
ne
minimizzarono
l’apporto.
Accanto
al
fondamentale
lavoro
dei
Comitati,
“la
forza
d’urto,
il
reparto
d’assalto,
di
un
esercito
già
esistente,
ben
addestrato
e
combattivo”
si
schierarono
massicciamente
le
gerarchie,
intenzionate
a
spostare
di
forza
il
conflitto
sul
terreno
più
congeniale
della
“guerra
santa”,
ed
il
clero
secolare
e
regolare
in
genere:
ad
esempio,
i
vescovi
della
Toscana,
della
Liguria,
del
Triveneto,
della
Campania,
dell’Emilia,
della
Regione
Flaminia,
della
Sicilia,
collettivamente
o
individualmente;
ed
esemplari,
in
questo
senso,
si
rivelarono
le
accorate
richieste
di
differire
il
ritiro
delle
truppe
americane,
le
“preghiere
dell’elettore”
che
si
andavano
diffondendo,
le
prediche
di
padre
Lombardi,
noto
come
“il
microfono
di
Dio”,
oppure
le
lettere
circolari
emanate
da
alcuni
vescovi
di
grandi
diocesi,
tra
cui
Giuseppe
Siri
a
Genova
e
dal
cardinale
(e
futuro
beato)
Ildefonso
Schuster,
arcivescovo
di
Milano,
che
il
22
febbraio
1948
scrisse
ai
sacerdoti
della
sua
diocesi:
“Non
si
possono
assolvere
gli
aderenti
al
Comunismo
o ad
altri
movimenti
contrari
alla
professione
Cattolica:
1)
quando
aderiscono
formalmente
agli
errori
contenuti
nelle
loro
dottrine;
2)
quando
prestino
cooperazione
anche
solo
materiale
specie
mediante
il
voto
ed
ammoniti
rifiutino
di
desistere.
Si
deve
inoltre
omettere
la
benedizione
liturgica
alle
case
dei
promotori
e
dei
propagandisti
dei
suddetti
movimenti.
La
Chiesa
ammette
qualsiasi
legittima
forma
di
governo,
purché
diretta
al
bene
comune,
ed
organizzata
giuridicamente,
in
armonia
con
le
leggi
divine
e
con
i
diritti
sociali,
specialmente
dell’individuo
e
della
famiglia:
a) è
grave
dovere
di
coscienza
di
ogni
Cristiano,
l’esercizio
del
voto
così
politico
che
amministrativo,
il
quale
deve
essere
tuttavia
libero
e
secondo
retta
coscienza;
b) è
gravemente
illecito
ad
ogni
fedele
dare
il
proprio
voto
a
candidati,
o ad
una
lista
di
candidati
che
siano
manifestamente
contrari
alla
Chiesa,
ovvero
all’applicazione
dei
principi
religiosi
e
morali
Cristiani
nella
vita
pubblica;
c)
Il
voto
può
e
deve
essere
dato
solo
a
quei
candidati
o a
quella
lista
di
candidati
che
offrano
maggiori
garanzie
di
esercitare
il
loro
mandato
nello
spirito
e
secondo
le
direttive
della
Morale
Cattolica”.
Spettò
quindi
all’intervento
pasquale
del
papa,
il
28
marzo
1948,
sollecitare
il
“popolo
di
Dio”
ad
una
precisa
scelta
di
campo
nell’imminenza
delle
elezioni,
riecheggiando
echi
già
sentiti
e
riproposti
col
sostegno
di
manifesti
e di
volantini
lanciati
dagli
aeroplani.
Dopo
la
benedizione
urbi
et
orbi
Pio
XII
– in
italiano
-
spiegò
infatti
che:
“La
grande
ora
della
coscienza
cristiana
è
suonata.
O
questa
coscienza
si
desta
a
una
piena
e
virile
consapevolezza
della
sua
missione
di
aiuto
e di
salvezza
per
un’umanità
pericolante
nella
sua
compagine
spirituale;
e
allora
è la
salute,
è l’avveramento
della
formale
promessa
del
redentore:
‘Abbiate
fiducia,
io
ho
vinto
il
mondo’.
Ovvero
(che
a
Dio
non
piaccia)
questa
coscienza
non
si
sveglia
che
a
metà,
non
si
dà
coraggiosamente
a
Cristo,
e
allora
il
verdetto,
terribile
verdetto!,
di
Lui
non
è
meno
formale:
‘Chi
non
è
con
me è
contro
di
me’.
Voi
diletti
figli
e
figlie,
ben
comprendete
che
cosa
un
tale
bivio
significa
e
contiene
in
sé
per
Roma,
per
l’Italia,
per
il
mondo.
Nella
vostra
coscienza,
destatasi
a
tale
piena
consapevolezza,
della
sua
responsabilità,
non
vi è
posto
per
una
cieca
credulità
verso
coloro
che
dapprima
abbondano
in
affermazioni
di
rispetto
alla
religione,
ma
poi,
purtroppo,
si
svelano
negatori
di
ciò
che
vi è
di
più
sacro”.
Se è
vero
che
la
Chiesa
aveva
già
da
tempo
preso
posizione
a
favore
della
Dc,
è
altrettanto
vero
che
mai
si
era
schierata
in
modo
tanto
esplicito,
mai
aveva
puntato
così
tanto
su
una
singola
tornata
elettorale:
basti
dire
che
il
pontefice,
il
giorno
del
voto,
potè
seguire
l’andamento
dei
risultati
dall’ufficio
elettorale
appositamente
predisposto
dall’Azione
cattolica
in
Vaticano.
La
pressione
esercitata
dalla
Chiesa,
ovviamente,
suscitò
però
dure
recriminazioni
nel
campo
avverso,
esasperato
per
quello
che
veniva
ritenuto
uno
“sconfinamento”
indebito
e
aggressivo.
Ne è
testimone
la
polemica
di
Togliatti,
che
all’inizio
di
marzo
scrisse
sull’“Unità”:
“Il
Partito
della
Democrazia
Cristiana
rapidamente
superato
un
primo
momento
iniziale
in
cui
tenne
a
dichiararsi
‘non
confessionale’,
è
ora
chiaramente
il
partito
del
Vaticano.
Esso
è
diretto
dalle
alte
sfere
ecclesiastiche”;
oppure,
restringendo
l’immagine
al
piano
locale,
lo
sfogo
frustrato
di
Leonida
Rapaci,
candidato
al
Senato
per
il
Fronte
Popolare
nel
collegio
di
Palmi:
“Battuto
da
un
sordomuto”,
scrisse
infatti
nel
volume
conclusivo
del
Ciclo
dei
Rupe,
“è
il
colmo.
Mentre
io
parlavo
a
immense
masse
di
popolo
trascinandole
all’entusiasmo,
il
mio
avversario
(Domenico
Romano,
già
alto
funzionario
del
Ministero
dei
Lavori
Pubblici
in
età
fascista
e
ministro
con
Badoglio,
ndr)
teneva
la
bocca
chiusa
e
faceva
parlare
per
lui
i
parroci
nei
confessionali”.
L’on.
Fausto
Gillo
riferì
alla
Camera
il 9
giugno
del
1948,
nel
corso
di
una
dura
requisitoria
contro
i
pesanti
interventi
delle
gerarchie
nella
campagna
elettorale,
che
nei
seminari
si
costringevano
gli
alunni
a
scrivere
ad
amici
e
parenti,
per
convincerli
a
votare
Dc.
Per
dimostrarlo,
lesse
una
lettera
di
un
seminarista
di
Arezzo:
“L’ora
fatale
che
dovrà
segnare
il
destino
d’Italia
sta
per
scoccare:
o
un’Italia
libera,
o
un’Italia
schiava;
o
un’Italia
religiosa,
o
un’Italia
senza
Dio:
a te
il
decidere
con
il
tuo
voto
e
con
quello
di
tua
moglie.
Ricorda
che
questa
volta
la
lotta
non
è
politica,
ma
religiosa.
Bada
che,
se
vince
quel
partito,
io
non
potrò
nemmeno
ascendere
al
sacerdozio.
Ti
avverto,
di
fare
propaganda
fra
gli
amici
e i
compagni
della
nostra
scuola
perché
votino
tutti
per
i
candidati
Dc”.
Nei
certificati
per
la
cresima,
proseguì,
oltre
al
nome
del
bambino,
il
suo
indirizzo,
il
nome
di
padrino
e
madrina,
si
leggeva:
“Dichiaro
di
non
essere
iscritto
o
aderente
al
partito
comunista
o
socialista
o ad
altri
partiti
contro
la
Madre
Chiesa”;
e
concluse
il
suo
intervento
denunciando
la
mancata
benedizione
pasquale
a
tutti
i
militanti
del
Fronte.
Si
può
ben
vedere
come
l’attivismo
del
Vaticano
apparisse,
anche
ai
contemporanei
(ed
agli
avversari),
massiccio
e
determinante:
nel
piccolo
scenario
come
nei
grandi
palcoscenici
nazionali,
all’inizio
come
alla
fine.
3.3.
Il
fattore
URSS
e
l’intrinseca
debolezza
del
Fronte
In
ogni
ricostruzione
di
quei
mesi
d’attesa
il
ruolo
degli
Stati
Uniti
merita
almeno
un
capitolo:
comprensibilmente,
si
direbbe,
data
l’influenza
della
prima
potenza
mondiale
–
rafforzata
dal
monopolio
nucleare
–
nel
panorama
politico
d’un
Paese
sconfitto,
che
rientrava
in
effetti
nella
sua
sfera
d’interessi.
Molto
spesso,
però,
si
trascura
l’URSS,
o la
si
riduce
ad
una
sterile
centrale
ideologica
interessata
esclusivamente
al
consolidamento
del
settore
di
competenza;
oppure
ancora
non
si
collega
questo
consolidamento
alle
fortune
della
Dc,
e
non
si
considera
che
in
effetti
il
blocco
filo-occidentale
non
avrebbe
potuto
sperare
in
un
‘padrino’
peggiore,
per
i
frontisti,
dell’URSS
di
quei
mesi;
già
di
per
sé,
è
questo
un
modo
per
negarne
la
marginalità.
Innanzitutto
l’URSS
comparve
nella
campagna
elettorale
nelle
vesti
di
oppressore,
come
riportato
dai
racconti
sui
metodi
di
governo
imposti
da
Stalin
in
Europa
orientale;
e su
questi
resoconti
l’immaginario
popolare
innestò
un’altra
immagine
secolare,
d’una
Russia
medievale,
spietata,
arretrata
e
brutale,
sovrapponendola
al
mito
contemporaneo
forgiato
dalla
resistenza
al
conquistatore
nazista;
con
questo
‘cambio
d’abito’
l’URSS
smise
le
sue
vesti
rivoluzionarie
per
indossare
il
completo
del
censore,
e
talvolta
del
boia,
e
non
seppe
reggere
la
concorrenza
della
fascinazione
americana
(la
“rendita
di
posizione
degli
Stati
Uniti”,
secondo
Gambino),
fondata
su
un
secolo
e
più
di
racconti,
favole
e
miti.
Anche
per
questo
la
politica
dell’URSS,
al
contrario
di
quella
statunitense,
danneggiò
sensibilmente
gli
interessi
del
blocco
che
nelle
elezioni
italiane
ne
rappresentava
gli
interessi,
incrinandone
sensibilmente
i
tentativi
elettorali
e
costringendolo
sulla
difensiva;
e
solo
saltuariamente
rivelò
–
come
avvenuto
l’11
febbraio
del
1948,
quando
propose
ufficialmente
di
ripristinare
un
“mandato
a
tempo
determinato”
dell’Italia
sulle
ex-colonie
– un
interessamento,
pur
tiepido,
per
i
temi
centrali
della
campagna
elettorale.
Abbiamo
già
detto
della
“svolta”
intransigente
imposta
al
Pci
ed
al
Pcf
nel
corso
dell’incontro
di
Szklarska
Poreba,
che
impose
la
rottura
con
i
“traditori”
socialdemocratici.
E
abbiamo
visto
di
quanto
questa
scelta
contribuì
a
indebolire
le
posizioni
del
Fronte.
Notizie
ancora
peggiori,
tuttavia,
cominciarono
a
giungere
dalla
Cecoslovacchia,
l’altro
Paese
–
oltre
all’Italia,
almeno
fino
al
voto
– a
non
essere
stato
del
tutto
inserito
nel
meccanismo
dei
blocchi,
nell’ultima
decade
di
febbraio
del
1948.
In
quei
giorni
il
regime
di
coalizione
che
governava
da
tre
anni
–
rafforzato
dalle
elezioni
del
26
maggio
1946
e
caratterizzato
da
una
posizione
di
minoranza
dei
comunisti,
che
pure
mantenevano
la
Presidenza
del
Consiglio
con
Klement
Gottwald
–
crollò
sotto
i
colpi
del
‘colpo
di
mano’
del
Pc
cecoslovacco
e
poi
delle
purghe,
delle
repressioni,
degli
omicidi
(come
quello
del
Ministro
degli
Esteri
Jan
Masaryk,
unico
democratico
ad
aver
accettato
di
far
parte
del
nuovo
esecutivo,
trovato
morto
sotto
la
finestra
della
sua
abitazione)
che
ne
conseguirono,
lasciando
campo
libero
all’instaurazione
di
un
esecutivo
comunista:
in
questo
modo,
a
differenza
dell’Italia,
rottura
dell’alleanza
anti-fascista
(comprendente
i
partiti
comunista,
socialista
nazionale,
socialdemocratico,
cattolico
popolare,
democratico
slovacco)
ed
inserimento
nel
blocco
d’appartenenza
avvennero
simultaneamente.
Stalin,
adeguandosi
alla
spaccatura
dell’Europa,
stringeva
il
cappio
intorno
ai
suoi
protetti
colpendo
proprio
quello
più
convintamente
imbevuto
di
tradizioni
democratiche.
Se
quest’operazione
miope
fu
capace
d’indebolire
il
consenso
di
cui
il
Pci
ancora
godeva,
ciò
avvenne
perché
i
dirigenti
di
quel
partito
–
spalleggiati
dagli
omologhi
socialisti
-
imboccarono
allora
una
strada
d’intransigente
unilateralismo,
d’insensato
ed
acritico
irrigidimento
ideologico,
e
prestarono
così
il
fianco
ai
prevedibili
attacchi
degli
avversari
filo-occidentali.
L’“Avanti!”
e
l’“Unità”
liquidarono
rapidamente
la
morte
di
Masaryk,
figlio
del
fondatore
della
repubblica
cecoslovacca,
ricorrendo
alla
spiegazione
più
sospetta:
il
suicidio;
il
giornale
socialista,
a
sua
volta,
si
spinse
a
proporre
un
“momento
d’alienazione
mentale”,
mentre
i
colleghi
comunisti
preferirono
optare
per
la
volontà
di
sottrarsi
alle
ingerenze
“anglo-americane”.
Analogamente,
le
responsabilità
dell’accaduto
furono
addebitate
allo
“spionaggio
americano”
dalla
stampa
comunista,
mentre
i
socialisti
esultarono
per
la
“vittoria
del
popolo”
sui
“circoli
reazionari”,
ed
arrivarono
a
recapitare
un
telegramma
di
felicitazioni
al
leader
socialdemocratico
Zdenek
Fierlinger.
La
politica
del
doppio
metro
di
giudizio,
aggressivo
contro
le
malefatte
dei
Paesi
capitalisti
quanto
remissivo
nei
confronti
del
Blocco
sovietico,
si
rivelò
allora
nella
sua
pienezza:
ma
costituiva
una
debolezza
per
così
dire
strutturale
e
malcelata,
fondata
sulla
pretesa
superiorità
del
modello
sovietico
e
sul
settarismo
ideologico
che
la
rafforzava.
Un
cocktail,
in
fin
dei
conti,
indigesto
anche
per
l’elettorato
più
tiepido
e
per
quella
fetta
del
ceto
medio
o
della
classe
operaia
più
“gradualista”,
che
seguitava
a
rifarsi
al
Psi,
rimasta
disorientata
dall’istantaneo
allineamento
alle
posizioni
comuniste:
“Togliatti
e
Nenni”,
scrisse
Valiani,
“commisero
l’incredibile
errore
di
non
limitarsi
a
cercare
giustificazioni
economico-sociali
a
quanto
accadeva
a
Praga,
e
che
colpiva
profondamente
l’opinione
italiana,
ma
di
esaltarlo
come
una
prova
di
democrazia
politica,
ché,
dicevano,
i
comunisti
e
socialisti
cecoslovacchi
avevano,
messi
assieme,
il
56%
dei
seggi
al
parlamento.
Chi
li
ascoltava,
ne
traeva
la
conclusione
che
se
Togliatti
e
Nenni
avessero
potuto
disporre
del
56%
dei
seggi
al
futuro
parlamento
italiano,
non
avrebbero
avuto
scrupoli
ad
imitare
la
soppressione
delle
libertà
democratiche
avvenuta
a
Praga.
Secondo
molta
verosimiglianza
si
trattava
di
un
pericolo
immaginario…Ma
l’impressione
al
Paese
fu
data,
e il
Paese,
che
sentiva
ancora
il
bruciore
della
dittatura
mussoliniana,
ne
tenne
conto”:
l’eliminazione
delle
“vie
nazionali”
al
socialismo
comportò
anche
l’assunzione
e –
quel
ch’è
peggio
– la
rivendicazione
di
colpe
altrui.
Questa
impostazione
costrinse
il
Fronte,
nonostante
il
volto
garibaldino
scelto
per
rappresentarlo,
su
una
posizione
difensiva
che
alla
lunga
nocque
alla
campagna
elettorale
delle
sinistre:
una
prospettiva,
questa,
suffragata
ad
esempio
dall’atteggiamento
tenuto
sul
piano
Marshall,
che
in
quei
mesi
si
preparava
ad
entrare
in
funzione
e
godeva
già
di
grandi
aspettative
ma
continuava
a
dividere
comunisti
e
socialisti,
intransigenti
i
primi,
critici
ma
aperturisti
i
secondi,
nonostante
il
78%
degli
italiani
lo
conoscessero
ed
il
65%
fossero
favorevoli,
contro
il
14%
dei
contrari,
secondo
un
sondaggio
internazionale
effettuato
prima
delle
elezioni.
A
prescindere
dall’intervento
americano
di
cui
sopra,
la
posizione
frontista
(sì
agli
aiuti,
ma a
condizione
di
poterli
gestire
per
i
lavoratori
e di
non
pregiudicare
l’autonomia
nazionale)
mancava
di
coerenza,
come
acutamente
notato
da
Giorgio
Galli:
“Se
il
Piano
Marshall
era
rigidamente
concepito
quale
strumento
di
difesa
del
capitalismo
europeo
e di
espansione
di
quello
americano,
non
sarebbe
stato
certo
un
successo
elettorale
della
sinistra
italiana
a
far
desistere
Washington
da
un
piano
così
architettato,
per
trasformarlo
nel
suo
opposto,
cioè
in
un
mezzo
di
soddisfazione
dei
bisogni
popolari.
Se
invece
il
piano
fosse
stato
modificato
perché
un
governo
italiano
diverso
da
quello
De
Gasperi
lo
avesse
chiesto,
allora
veniva
a
cadere
tutta
la
valutazione
‘catastrofica’
che
ne
veniva
data.
L’ammissione
che
neanche
l’eventuale
governo
del
Fronte
avrebbe
rifiutato
gli
aiuti
era
una
concessione
all’orientamento
dell’opinione
pubblica
che
si
intendeva
acquisire,
ma
mentre
questo
fatto
era
privo
di
efficacia
sul
terreno
propagandistico
(non
basta
la
buona
volontà
frontista
di
ricevere
gli
aiuti,
occorre
anche
quella
americana
di
fornirli,
si
osservava)
permetteva
agli
avversari
di
rilevare
l’incoerenza
di
cui
si è
detto”.
Contemporaneamente,
le
sinistre
subirono
l’offensiva
delle
lettere
dall’America
e
non
seppero
far
altro
che
bilanciarla
con
messaggi
pro-frontisti
dei
gruppi
di
sinistra
e di
alcuni
sindacati.
Lo
stesso
atteggiamento
confuso
rivelarono
riguardo
la
questione
di
Trieste:
alla
dichiarazione
tripartita
risposero
prima
richiamando
la
solita
“speculazione
elettorale”,
aggravata
dal
tentativo
di
trascinare
l’Italia
in
un’atmosfera
di
guerra,
e
poi
rivendicando
la
disponibilità
polacca
a
restituire
all’Italia
le
vecchie
colonie.
Allo
stesso
modo
non
riuscirono
a
supplire
alle
lacune
sul
fondamentale
tema
della
politica
estera,
alle
contraddizioni
generate
da
una
precisa
situazione
storica
(e
insieme
strategica,
politica,
culturale…):
mancò,
in
fin
dei
conti,
un’alternativa
credibile.
Basti
pensare
alla
dichiarazione
dell’11
aprile
che
chiedeva
“a
tutti
i
partiti
l’impegno
solenne
di
rifiutare
in
qualunque
caso
l’adesione
dell’Italia
a
qualsiasi
alleanza,
coalizione
o
blocco
che
abbia
direttamente
o
indirettamente
contenuto
o
significato
militare
e di
preparazione
ad
un
nuovo
conflitto
armato
e
assume
per
conto
proprio
questo
impegno
davanti
al
popolo”:
propositi
di
non
allineamento
che
nessuno,
e
tantomeno
il
Pci
aderente
al
Comintern,
poteva
garantire.
Quest’ambiguità
fu
rivelata
dagli
organi
di
stampa
frontisti,
che
d’altra
parte
censurarono
fedelmente
ogni
minima
forma
di
dissenso,
od
anche
solo
di
critica,
nei
riguardi
del
sistema
sovietico;
si
renda
ad
esempio
“l’Unità”
del
2
aprile,
capace
di
celare
il
riferimento
all’URSS
dell’articolo
di
Henry
Wallace,
candidato
progressista
alle
elezioni
americane
di
novembre,
sulla
situazione
italiana:
il
quale
sosteneva
che,
se
fosse
esistita
una
legge
internazionale
“per
regolare
la
libertà
delle
elezioni
gli
Stati
Uniti
avrebbero
buone
probabilità
di
essere
i
primi
a
essere
condannati
per
la
sua
violazione.
La
Gran
Bretagna
e la
Russia
(sostituito
con:
“e
qualche
altro
Paese”,
nda)
si
batterebbero
per
conquistare
il
secondo
posto”.
Fu
lo
stesso
Wallace,
per
primo,
a
denunciare
queste
manipolazioni,
rifornendo
di
facili
ironie
la
stampa
anti-comunista:
e si
può
intuire
come
la
maggior
parte
dei
votanti
considerasse
la
pretesa
delle
sinistre,
una
volta
al
governo,
di
difendere
l’autonomia
italiana
con
i
fatti,
se
non
ci
riusciva
con
le
parole.
Non
bastavano,
per
bilanciare
il
piatto,
i
documentari
elaborati
dal
Pci,
il
richiamo
alla
lotta
partigiana
(che
aveva
clamorosamente
fallito
l’obiettivo
di
modificare
mentalità
e
valori
del
Paese),
le
critiche
alle
scelte
finanziarie
del
governo
favorevoli
alle
classi
privilegiate,
gli
attacchi
sulle
riforme
promesse
e
sull’oscura
utilizzazione
degli
aiuti
americani
(come
nel
caso
del
“fondo-lire”,
un
residuo
derivante
dalla
distribuzione
a
prezzi
di
mercato
degli
aiuti
Unrra
e
post-Unrra,
sovente
gratuiti
o
quasi),
le
ironie
sull’“americanismo”
o
sul
carattere
straniero
del
leader
democristiano
(rinominato
“Von
Gasper”,
per
richiamarne
il
passato
di
deputato
austriaco),
le
rivelazioni
dell’“Unità”
e
dell’“Avanti!”
sui
presunti
documenti
segreti
vaticani,
sfoderati
per
dimostrare
le
interferenze
della
Chiesa
nella
politica
italiana;
il
modello
politico
e
sociale
di
riferimento
delle
sinistre
(nonostante
i
tentennamenti
socialisti),
l’Unione
Sovietica,
non
reggeva
neanche
lontanamente
il
confronto
con
l’avversario,
eppure
fu
descritto
come
un
eden
incantato
dai
notabili
frontisti,
manovrati
dagli
omologhi
sovietici.
La
Dc,
allora,
ebbe
gioco
facile:
screditando
il
modello,
infatti,
riuscì
a
smantellare
d’un
colpo
il
coeur
ideologico
degli
avversari.
Uscire
da
una
posizione
di
così
profonda
debolezza
si
rivelò,
in
fin
dei
conti,
impossibile.
Riferimenti
bibliografici:
E.
E.
Rossi,
The
United
States
and
the
1948
italian
elections,
University
of
Pittsburgh,
Ph.D.,
1964.
G.
Filoramo/D.
Menozzi,
Storia
del
cristianesimo.
L’Età
contemporanea,
Laterza,
Roma-Bari,
2006.
G.
Andreotti,
1948.
L’anno
dello
scampato
pericolo,
Rizzoli,
Milano,
2005.
A.
Tornielli,
Pio
XII,
Mondadori,
Milano,
2007.
A.
Riccardi,
Il
“partito
romano”.
Politica
italiana,
Chiesa
cattolica
e
Curia
romana
da
Pio
XII
a
Paolo
VI,
Morcelliana
Ed.,
Brescia,
2007.
L.
Repaci,
Storia
dei
Rupe,
IV,
La
terra
può
finire,
Milano,
1973.
L.
Valiani,
L’avvento
di
De
Gasperi,
Einaudi,
Torino,
1949.
P.
Luzzatto
Fegiz,
Il
volto
sconosciuto
dell’Italia,
Milano,
1956.
G.
Galli,
La
sinistra
italiana
nel
dopoguerra,
Il
Mulino,
Bologna,
1958.