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N. 18 - Giugno 2009 (XLIX)

la CAMPAGNA ELETTORALE DEL 1948
Attori, sostegni, debolezze

di Cristiano Zepponi

 

Tutti e tre i partiti principali dovettero risolvere delle problematiche interne, prima di lanciarsi nella corsa elettorale.

 

I socialisti del Psi dovettero affrontare i dubbi e le perplessità provocate dall’affiliazione ad una lista unica con i comunisti; il Pci, a sua volta, barcollò tra i tentativi togliattiani di “purificare” il partito da ogni vocazione eversiva e l’inclinazione extra-parlamentare rispolverata in determinate circostanze (“Il Partito comunista si muove sul terreno della democrazia e della libertà sancite dalla Costituzione repubblicana, ma di fronte all’ormai palese volontà delle forze conservatrici e reazionarie, unite intorno al Partito della democrazia cristiana, di ostacolare con tutti i mezzi l’ascesa del lavoro, le riforme e il rinnovamento della struttura economica del Paese, fino a minacciare di mettere fuori legge il partito che in modo più tenace lotta per questa ascesa e per queste riforme, i comunisti chiamano tutti i lavoratori, del braccio e della mente, e di tutte le categorie, a unirsi e a organizzarsi solidamente per preparare di fatto, nell’industria e nell’agricoltura, quelle trasformazioni di cui l’Italia ha bisogno, e per essere pronti a respingere ogni minaccia reazionaria”, recitava la risoluzione del VI congresso del partito); e la Dc, in occasione del suo II congresso, in novembre, registrò la comparsa di un’ala sinistra, formata dai cosiddetti “dossettiani” (raccolti intorno al quindicinale “Cronache sociali”), convinta che la dissoluzione dell’alleanza con le sinistre non dovesse configurarsi come una “svolta a destra” sul piano economico/sociale.

 

1. Le elezioni amministrative di Pescara

 

Dopo le elezioni romane i blocchi concorrenti si affrontarono nelle amministrative di Pescara, dove in dicembre la vecchia giunta – guidata da un repubblicano – era stata accusata di irregolarità e favoritismi, e successivamente sciolta dal governo; ne era scaturita una pronta reazione dei partiti di sinistra e di gruppi di partigiani, prontamente affluiti nella città, prima che la situazione si risolvesse in un’incruenta battaglia elettorale.

 

Il 15 febbraio del 1948 si votò, e prevalse proprio la compagine anti-governativa del Blocco del Popolo, formata da Pci, Psi, indipendenti ed ex-repubblicani, capace di assicurarsi la maggioranza assoluta e di passare dai 17 seggi del marzo 1946 a 21, mentre gli altri partiti incassarono risultati deludenti.

 

La vittoria delle sinistre sembrò assumere carattere generale, ed in molti cominciarono a considerare possibile – o addirittura probabile - una vittoria del Fronte alle elezioni politiche di aprile; ma non si prestò abbastanza attenzione al carattere particolare di quel voto – emblematicamente rappresentato dalla scelta della torre municipale come simbolo della lista, al posto del volto garibaldino - ed alle circostanze straordinarie che l’avevano accompagnato.

 

Lo stesso giorno, alla Basilica di Massenzio, nel cuore di Roma, De Gasperi tornò all’attacco: “Il Pci si è sempre mantenuto nell’equivoco. Mai abbiamo avuto una dichiarazione in cui il partito comunista dicesse: io ho questo e quell’ideale da raggiungere; ho questo postulato da sostenere: però il mio metodo è quello della legge, è quello democratico. Il metodo che esclude la violenza di parte. Mai una dichiarazione è venuta ad escludere il ricorso alla forza. […] Il duplice sistema comunista; cioè utilizzare il mezzo democratico e parlamentare e contemporaneamente riservarsi il ricorso alla forza e prepararlo […] oggi belano i comunisti, ma ben conosciamo le loro zanne e lo zoccolo da caproni”.

 

2. I partiti minori

 

Mentre si mettevano in moto le possenti macchine propagandistiche dei partiti maggiori, i raggruppamenti politici minori si scatenarono alla ricerca di alleanze e collegamenti che li mettessero al riparo da un isolamento fatale.

 

Il Partito d’Azione, punto di riferimento della sinistra non marxista, confluì nel psi in ottobre, dopo mesi di agitate discussioni che avevano visto prevalere ora i filo-socialdemocratici – favorevoli ad un accordo con il Psli di Saragat e sostenitori di una politica autonoma nei confronti del Pci e dell’URSS – ora i filo-Nenniani, preoccupati dai rapporti di Saragat con gli Stati Uniti e timorosi di vedersi allontanati dal contatto diretto con la classe operaia: proprio questi ultimi riuscirono infine vincitori dopo le dimissioni dai rispettivi incarichi di alcuni esponenti della corrente avversaria (tra cui Calamandrei, Valiani, Garosci) e la tardiva “conversione” alla linea vincente di Lombardi, segretario del partito, e Foa.

 

Un altro tentativo di scissione in campo socialista ad opera di Ivan Matteo Lombardo (ex-segretario del Psiup, sostenitore della rottura di Saragat ma rifiutatosi successivamente di aderire al nuovo partito), appoggiato da De Gasperi e dagli americani si concluse invece con la fondazione di un nuovo gruppo, l’Us (Unità socialista), che subito strinse un’alleanza elettorale con il Psli di Saragat, e potè sfruttare l’isolamento del Psi, conseguente all’alleanza con i comunisti, all’interno del movimento internazionale socialista.

 

A destra, dominatore della scena fu il nuovo segretario generale del Partito liberale, Roberto Lucifero, proveniente dalle file dei monarchici e deciso a costituire un Blocco nazionale sotto la guida di Francesco Saverio Nitti. Il progetto era quello di proporsi come i più genuini rappresentanti dello schieramento anti-comunista, superando “a destra” la stessa Dc, che “contiene in convivenza […] Dossetti che è un comunista, un paraliberale come Pella e un paracomunista come Fanfani”; da ciò, derivava logicamente che “nessuno è più anticomunista di noi”, come rivendicato in un discorso del 14 febbraio a Napoli.

 

Il progetto del Pli, ormai è noto, non riuscì, ed il partito subì una batosta se possibile ancor più pesante di quella di due anni prima; ma a Lucifero – nomen omen – va riconosciuto il merito d’aver intercettato il clima apocalittico ed esasperato che avrebbe caratterizzato le elezioni, leggendovi la contrapposizione frontale non “tra libertà e non libertà, ma tra Italia e non Italia”, tra “piano Marshall, libertà, Europa, da una parte” e “miseria, oppressione, Asia dall’altra”.

 

3. La Dc e i suoi alleati

 

Come si è visto, almeno sulla carta la Dc – a detta anche di molti suoi sostenitori – aveva dovuto incassare una severa sconfitta nelle elezioni di Pescara; e se è vero che le condizioni specifiche di quelle votazioni furono sottovalutate dai più, è altrettanto vero che si rendeva necessario qualcosa di nuovo per colmare il gap con gli avversari.

Quel qualcosa fu rappresentato dai due influenti “padrini”, il cui apporto è sottolineato in gran parte della storiografia sul tema, che in effetti proprio allora avviarono – o intensificarono – la loro opera in favore del blocco anti-comunista: gli Stati Uniti d’America ed il Vaticano; ma anche, aggiungiamo noi, dalle manovre dell’URSS, le cui politiche favorirono indirettamente la ‘rimonta’ democristiana.

 

3.1. L’intervento degli Usa.

 

Nell’attesa dei primi aiuti finanziari del Piano Marshall, previsti per l’aprile del 1948 (troppo tardi, dunque, per influire tangibilmente sull’elettorato), il governo statunitense varò – in sostituzione del programma Unrra, ormai conclusosi – due iniziative d’emergenza destinate ai partner europei più bisognosi: la prima, noto come post-Unrra e destinato a “coprire” i mesi rimanenti dell’anno, destinava all’Italia 117 milioni di dollari; la seconda, l’Interim-Aid (in vigore fino a fine marzo del 1948), attribuiva all’Italia una quota di 176 milioni.

 

Questi quasi 300 milioni di dollari (destinati generalmente all’acquisto di generi di prima necessità), insieme alle navi cariche di aiuti statunitensi che cominciavano ad affluire sempre più numerose nei porti italiani, costituivano un capitale politico di primaria rilevanza che l’ambasciatore James Dunn seppe utilizzare anche e soprattutto per promuovere l’immagine degli Stati Uniti nel Paese.

 

L’ambasciata americana, sotto la guida di Dunn, si prodigò infatti in un lavoro febbrile, in quei mesi, organizzando simboliche cerimonie celebrative – il cui significato politico andava sempre più chiarendosi - in occasione dell’arrivo di ogni centesima nave americana, intervenendo continuamente da un capo all’altro della penisola per festeggiare insieme ai futuri elettori l’avvenuta realizzazione (finanziata dagli aiuti d’oltreoceano) di infrastrutture, abitazioni, ospedali o lo sbarco festoso di medicinali, sacchi di farina e container; ed ottenne l’entusiastico sostegno del governo e del mondo politico italiano (escluse le sinistre) in genere, ansioso di sottolineare, evidenziare e lodare gli apporti d’oltreoceano con ogni mezzo a disposizione, radio e stampa (governative) comprese: “gli aiuti d’America ci aiutano ad aiutarci da noi”, campeggiava su un famoso manifesto dell’epoca.

 

Ma l’importanza degli aiuti statunitensi non si limitò a questo: consistette anche nell’ingabbiare sottilmente la propaganda comunista, costretta a isolarsi dal coro di unanime apprezzamento per la generosità americana, a denunciare la sostanziale subalternità del Paese alla politica statunitense e l’intento propagandistico dei discorsi pronunciati in quelle occasioni (“L’ambasciatore americano apre la campagna elettorale della Dc”, titolava ironicamente l’“Unità” all’indomani dell’approdo della 400ma nave statunitense a Reggio Calabria, il 5 marzo 1948).

 

Anche la società civile americana decise di partecipare a quella che si cominciava ad avvertire come una battaglia decisiva, non solo per le sorti del disastrato Paese mediterraneo: un convoglio pieno di regali (il “treno dell’amicizia” ideato dal giornalista Drew Pearson), dopo il trasporto per nave degli aiuti privati, prese a percorrere la penisola e a seminare lungo la via comizi e cerimonie, festeggiato ad ogni tappa da autorità entusiaste e folle imbandierate; gruppi di cittadini, spesso italo-americani, s’impegnarono oltreoceano a sostenere le forze anti-comuniste; e lettere o cartoline individuali, inizialmente basate su preesistenti legami di parentela e d’amicizia e prevalentemente indirizzate all’Italia meridionale, cominciarono a piovere copiose nelle caselle postali degli italiani con contenuto variabile: dagli inviti amichevoli al voto filo-americano alle accuse anti-comuniste, dai consigli elettorali alle “rimesse” dei familiari, dalle minacce concrete – stop agli aiuti o all’emigrazione – agli anatemi metafisici – “la maledizione di Dio cadrà su di te e sulla tua famiglia”.

 

L’intervento americano, però, s’intensificò notevolmente a partire dalle elezioni di Pescara, che polverizzarono d’un colpo il cauto ottimismo dei filo-occidentali nei mesi precedenti.

 

Innanzitutto, nella discussione politica fu introdotto il problema di Trieste, dove la situazione era rimasta immutata dalla fine della guerra (la zona B era ormai entrata di fatto a far parte del territorio jugoslavo, mentre la zona A rimaneva controllata dagli anglo-americani, che potevano così presidiare il tratto meridionale della “cortina di ferro”): una “dichiarazione tripartita” anglo-franco-americana del 20 marzo che proponeva di restituire alla sovranità italiana il Territorio Libero di Trieste (la zona A, in pratica) ebbe l’effetto di recuperare alla propaganda occidentale un tema di sicura risonanza emotiva e di anticipare un’analoga mossa, che si riteneva in preparazione da parte sovietica; le sinistre, prese in contropiede, dovettero di nuovo limitarsi a denunciare la “speculazione elettorale” incassando, nella sostanza, un altro pesante successo propagandistico degli avversari; contemporaneamente, cominciarono a piovere nelle caselle postali degl’italiani migliaia di lettere false, opera di un fantomatico cittadino triestino che invitava a votare contro il comunismo in sua vece.

 

Per minimizzare almeno in parte gli effetti dirompenti dell’aiuto economico americano, i dirigenti del Fronte ricorsero all’artificio di annunciare pubblicamente la continuazione dei rifornimenti statunitensi anche in caso di successo elettorale delle sinistre, riservandosi però il diritto di gestirli in senso favorevole alle classi lavoratrici e a patto che nessun condizionamento derivasse alle autonome scelte nazionali in politica interna ed estera.

 

Era una posizione già di per sé debole, come vedremo in seguito, ma l’ambasciatore Dunn si attivò comunque per disinnescarne gli effetti, che ai suoi occhi rischiavano di mettere a repentaglio il faticoso lavorìo propagandistico dei mesi precedenti: il problema fu sollevato dal giornalista americano Cyrus Sulzberger, autore di un articolo chiaramente concordato che rivelava il proponimento governativo di annunciare l’esclusione dell’Italia dal Piano Marshall in caso di ascesa al potere dei comunisti (con mezzi legali o meno); il giorno seguente toccò a Michael McDermott, funzionario del Dipartimento di Stato, confermare l’esattezza dell’indiscrezione: “I comunisti in Italia hanno sempre detto di non volere l’Erp. Se i comunisti vinceranno – cosa che non possiamo credere, conoscendo lo spirito e lo stato d’animo del popolo italiano – non si porrà più il problema di un’ulteriore assistenza economica da parte degli Stati Uniti”.

 

La stampa governativa cavalcò con decisione la notizia, costringendo gli avversari ad occuparsene; tuttavia, mentre l’“Avanti!” preferì tacere, l’“Unità” pubblicò una versione largamente manipolata delle dichiarazioni del funzionario, tentando di sminuire la portata delle sue parole invece di insistere sull’evidente scopo ricattatorio del discorso.

A quel punto, sotto la pressione dei dirigenti italiani interessati ad allargare la falla apertasi nella proposta di governo del Fronte, gli americani tornarono sull’argomento: il 20 marzo il segretario di Stato George Marshall, in un discorso a Berkeley, in California, dopo aver ricordato che i comunisti italiani – nel corso della campagna elettorale - “hanno pubblicamente affermato che se il loro partito risultasse vincitore, l’assistenza economica americana all’Italia continuerebbe senza cambiamenti” mentre “a tutte le nazioni europee sotto l’influenza comunista è stato impedito di partecipare all’European Recovery Program”, concluse: “Dato che l’associazione all’Erp è completamente volontaria, i cittadini di ogni Paese hanno il diritto di cambiare idea e, in effetti, di ritirarsi. Se decidono di votare per mandare al potere un governo nel quale la forza politica dominante è un partito che ha spesso, pubblicamente ed enfaticamente, proclamato la propria ostilità per questo programma, questo voto potrebbe essere giudicato solo come una prova del desiderio di tale Paese di dissociarsi dal programma stesso. Al nostro governo non rimarrebbe che prendere atto che l’Italia si è tagliata fuori dai benefici dell’European Recovery Program”.

 

Con queste parole il sostegno alla Dc da parte degli Stati Uniti raggiunse lo zenit, rivelandosi un patrimonio propagandistico di primaria importanza a favore del blocco filo-occidentale.

 

3.2. “Con Cristo o contro Cristo”

 

La Chiesa di Pio XII, all’indomani del secondo conflitto mondiale, ribadì il ruolo della direzione ecclesiastica nella riedificazione della società pur accettando l’affermazione della democrazia a fondamento dell’ordinamento internazionale: e lo fece precisando, fin dall’inizio, che la legittimità del nuovo ordinamento dovesse riposare “nel quadro complessivo di una società diretta dalla Chiesa”.

 

Si schierò fin dall’inizio, quindi, a favore di una democrazia che non poteva non essere cristiana, e come tale ostile al comunismo; proprio su queste basi si delineò una convergenza con le potenze occidentali, per quanto le vedute su alcune posizioni diplomatiche potessero rivelarsi divergenti, che si trasformò in allineamento al momento dell’irrigidimento dei blocchi.

 

Chiesa ed Occidente trovarono un trait d’union nella decisa opposizione al comunismo; e se l’Occidente stesso si trovava alle prese con una sempre più diffusa secolarizzazione e con un impietoso abbandono della pratica rituale/sacramentale, la Chiesa scelse di collegare quest’ultima all’orientamento politico dei fedeli: basti pensare all’istituzione della devozione per il Sacro Cuore, canale privilegiato per il raggiungimento di quella società ieratica (il Regno di Cristo) che il pontefice aveva vagheggiato fin dalla prima enciclica.

 

Fin dalle prime consultazioni elettorali (2 giugno 1946), quindi, la Dc potè beneficiare di un concreto sostegno, di un appoggio capillare e costante da parte delle gerarchie ecclesiastiche, che intendevano indirizzare i suffragi moderati verso la lista scudocrociata facendone il perno della riedificazione economica, politica ed etica del Paese: e senza questo fondamentale sforzo “il successo della Dc, fin dalle elezioni amministrative del marzo-aprile 1946, non sarebbe spiegabile”. In questo senso la politica di apertura di Togliatti – esplicitata dalla posizione assunta nei confronti dell’art. 7 della Costituzione, votato per evitare lacerazioni nella coscienza del Paese e in nome di una volontà di collaborazione che animava tutta la sua azione politica del periodo – non bastò a tacitare gli animi, né ad appianare le contrapposizioni.

 

L’inserimento a pieno titolo della Chiesa nelle vicende politiche italiane si realizzò compiutamente con il discorso che papa Pio XII pronunciò a Piazza San Pietro il 22 dicembre, vigilia di Natale del 1946, anticipando in effetti gli indirizzi della politica governativa (che, come abbiamo visto, giunse solo nel maggio del 1947 alla rottura dell’“alleanza antifascista”): quel giorno, davanti a migliaia di romani, Pio XII sferrò un violento attacco contro gli “empi negatori di Dio, profanatori delle cose divine, adoratori del senso” che macchiavano di ignominia e coprivano di fango “il volto sacro di Roma”; e proseguì affermando che “Dal suolo romano, il primo Pietro, circondato dalle minacce di un pervertito potere imperiale, lanciò il fiero grido di allarme: resistere forti nella fede. Su questo medesimo suolo noi ripetiamo oggi con raddoppiata energia il grido a voi la cui città natale è ora teatro di sforzi incessanti, volti ad infiammare la lotta tra due opposti schieramenti: o con Cristo o contro Cristo; o per la sua Chiesa, o contro la sua Chiesa”.

 

Fu il segno di un avvenuto salto di qualità, d’una presa di posizione convinta e d’un intransigente irrigidimento della politica vaticana, che di fatto riconosceva e sanciva il contemporaneo processo di bipolarizzazione in atto a livello politico, e insieme d’un invito allo scontro che si sapeva prossimo, e non s’aveva più cura d’attendere:

 

“La persecuzione religiosa nei Paesi dell’Est è spietata. Rapporti molto dettagliati in materia impressionano molto il Santo Padre. Vi è un rischio del genere da noi, se le elezioni le vinceranno gli altri? Senza dubbio sì. Per questo varie proposte mirano a impegnare direttamente il Vaticano nella campagna elettorale”, scrisse Andreotti, giovane sottosegretario ala presidenza del Consiglio, alla vigilia del 1948.

 

Le elezioni italiane del 1948 costituirono appunto il teatro in cui si esplicò il coinvolgimento diretto nell’agone politico delle 22.000 parrocchie italiane e dell’Azione cattolica, come Pio XII stesso ebbe a definirla l’organizzazione laicale per “una speciale e diretta collaborazione [sostituito a partecipazione, il termine scelto dal predecessore, per sottolineare la direzione della gerarchia] all’apostolato gerarchico della Chiesa”.

 

La dichiarata apoliticità dell’associazione fu posta in secondo piano dal fervente attivismo del medico genetista Luigi Gedda (allievo del famoso endocrinologo Pende), nominato presidente degli uomini dell’Aci nell’ottobre del 1946, dopo dodici anni passati alla guida del settore giovanile.

 

Non si trattò di un’investitura contingente, dettata dall’urgenza della situazione e dalla necessità di tamponare il pericolo comunista: gli spazi politici conquistati in quei mesi agitati continuarono ad appartenerle anche dopo le elezioni, nonostante gli sforzi di alcuni dirigenti (come C.Carretto, 1910-1988 e M.V. Rossi, 1925-1976) che tentarono di ri-orientarne gli interessi verso la sfera religiosa prima di essere costretti alle dimissioni; e l’organizzazione seguitò ad essere mobilitata quando necessario per influenzare le scelte di un governo di per sé già “cattolico”.

 

Comunque sia le manifestazioni dell’Aci crebbero, dopo l’elezione di Gedda, in numero e in visibilità, presero a frequentare di proposito le zone più “rosse” parallelamente alle “missioni religioso-sociali”, che si proponevano di effettuare “una profonda aratura della coscienza, nel cui solco sarebbe poi stato più facile far cadere il seme delle decisioni politiche coerenti”; tali iniziative consegnarono così al Paese un’immagine di forza e compattezza culminante nell’adunata romana del 7 settembre del 1947, nel corso della quale papa Pacelli prescrisse ai militanti di prepararsi all’“ora della prova e dell’azione”: a tutti gli effetti “una manifestazione di forza, che con l’imponenza numerica, dimostri a tutti, agli amici e agli avversari della Religione, chi siamo, quanti siamo, che cosa vogliamo”.

 

Parallelamente, si evidenziò la necessità di uno strumento più flessibile , nella lotta al comunismo, della struttura della Dc, che l’affiancasse e la pungolasse, proposto da Gedda già nella riunione della presidenza generale dell’Aci, il 10 gennaio del 1947: ma il progetto, alquanto confuso e oltretutto guardato con sospetto da coloro che temevano la nascita di un secondo partito cattolico, cadde nel nulla.

 

Fu l’intensificazione della campagna elettorale, nei mesi che accompagnavano la fine dell’anno, a resuscitare quell’idea. Se ne fecero promotori, forti del sostegno di Pio XII, monsignor Montini e il cardinale Pizzardo; furono loro a rivolgersi a Gedda, l’uomo che aveva fin’allora mostrato maggiore comprensione per le nuove esigenze della situazione politica: i Comitati Civici, la sua opera più famosa, nacquero infine l’8 febbraio del 1948 per ampliare la base elettorale delle forze anti-comuniste, e ricevettero questo nome per differenziarsi dall’Aci, oltre che per aggirare le imposizioni dei Patti Lateranensi.

 

“Pio XII”, ha poi testimoniato lo stesso Gedda, “Tante volte mi ha detto che ciò che i comunisti avevano fatto in Oriente (Polonia, ecc.) bastava da se stesso a qualificarli e a dimostrare cosa essi avrebbero fatto in Italia una volta al governo. Fu il papa stesso che mi invitò il 26/1/1948, il 1/2/1948 e il 14 dello stesso mese a promuovere un movimento che potesse raccogliere i cattolici militanti dell’Aci e delle altre organizzazioni perché si potessero queste forze validamente contrapporre al comunismo che, a giudizio di Togliatti, avrebbe vinto le elezioni. Il S. Padre mi diede tale incarico perché era rimasto favorevolmente impressionato dalla manifestazione degli Uomini Cattolici che si era svolta nel settembre 1947. Pio XII mi diede queste indicazioni perché l’Aci non poteva, per effetto dei Patti Lateranensi, interessarsi di politica […] Il Comitato Civico era pertanto al di fuori dell’Aci; l’incarico fu ad personam”.

La separazione tra Comitati Civici ed Aci apparve da subito relativa: da una parte, Gedda seguitò a mantenere il precedente incarico; dall’altra, fu l’Azione Cattolica a fornire i primi attivisti al nuovo istituto.

 

Comunque sia, i Comitati Civici si diffusero a macchia d’olio – “nelle ultime settimane della campagna elettorale il nostro esercito poteva contare su 300.000 volontari”, riferì Gedda - a livello regionale e zonale, fungendo da centri coordinatori di tutte le opere religiose della zona, effettuando censimenti dei mezzi di trasporto per portare alle urne anziani e malati, distribuendo il materiale di propaganda elaborato dal Centro Direzionale, spingendo a votare per quei candidati maggiormente fedeli alla dottrina cristiana.

 

Un impegno dunque organizzativo e contemporaneamente logistico: “si trattava di convincere e, in molti casi, quasi di portare la gente a votare; poi bisognava essere sicuri che, una volta giunti davanti alle urne, anche i meno colti, anche gli analfabeti e i vecchi contadini, sapessero cosa fare, dove mettere la loro croce […] anche il linguaggio usato dai loro opuscoli, slogan come ‘coniglio chi non vota’, che ricordavano espressioni simili dei comunisti e dei qualunquisti, hanno avuto un ruolo notevole nello scuotere gli strati più assonnati della popolazione”; si puntava, evidentemente, a scuotere la psicologia e l’autostima dell’elettore, semplicizzando slogan e registro comunicativo dei manifesti e riscoprendo la tradizione dell’illustrazione cartellonistica, illustrata più che scritta: stereotipata, caricaturale ed immediata.

 

I nuovi arrivati – presto affiancati da Civiltà Italica, organizzazione “incaricata di formare l’opinione pubblica per mezzo di diversi mezzi di comunicazione e di fornire una stanza di compensazione per contatti e attività tra individui e gruppi che si oppongono ai partiti comunista e socialista di sinistra”, secondo le parole del suo organizzatore, mons. Ronca - turbarono seriamente il presidente generale dell’Azione Cattolica, Vittorni Veronese, oltre a molti suoi responsabili locali. Ed entrarono anche in contrasto con il servizio di propaganda della Dc, la “Spes” (Servizio propaganda e studi), generando non pochi timori in gran parte dei dirigenti democristiani, timorosi di un controllo diretto del Vaticano e della perdita dei finanziamenti fin’allora ricevuti: anche per questo, soprattutto a posteriori, gran parte dei dirigenti democristiani ne minimizzarono l’apporto.

 

Accanto al fondamentale lavoro dei Comitati, “la forza d’urto, il reparto d’assalto, di un esercito già esistente, ben addestrato e combattivo” si schierarono massicciamente le gerarchie, intenzionate a spostare di forza il conflitto sul terreno più congeniale della “guerra santa”, ed il clero secolare e regolare in genere: ad esempio, i vescovi della Toscana, della Liguria, del Triveneto, della Campania, dell’Emilia, della Regione Flaminia, della Sicilia, collettivamente o individualmente; ed esemplari, in questo senso, si rivelarono le accorate richieste di differire il ritiro delle truppe americane, le “preghiere dell’elettore” che si andavano diffondendo, le prediche di padre Lombardi, noto come “il microfono di Dio”, oppure le lettere circolari emanate da alcuni vescovi di grandi diocesi, tra cui Giuseppe Siri a Genova e dal cardinale (e futuro beato) Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, che il 22 febbraio 1948 scrisse ai sacerdoti della sua diocesi:

 

 “Non si possono assolvere gli aderenti al Comunismo o ad altri movimenti contrari alla professione Cattolica: 1) quando aderiscono formalmente agli errori contenuti nelle loro dottrine; 2) quando prestino cooperazione anche solo materiale specie mediante il voto ed ammoniti rifiutino di desistere. Si deve inoltre omettere la benedizione liturgica alle case dei promotori e dei propagandisti dei suddetti movimenti. La Chiesa ammette qualsiasi legittima forma di governo, purché diretta al bene comune, ed organizzata giuridicamente, in armonia con le leggi divine e con i diritti sociali, specialmente dell’individuo e della famiglia: a) è grave dovere di coscienza di ogni Cristiano, l’esercizio del voto così politico che amministrativo, il quale deve essere tuttavia libero e secondo retta coscienza; b) è gravemente illecito ad ogni fedele dare il proprio voto a candidati, o ad una lista di candidati che siano manifestamente contrari alla Chiesa, ovvero all’applicazione dei principi religiosi e morali Cristiani nella vita pubblica; c) Il voto può e deve essere dato solo a quei candidati o a quella lista di candidati che offrano maggiori garanzie di esercitare il loro mandato nello spirito e secondo le direttive della Morale Cattolica”.

 

Spettò quindi all’intervento pasquale del papa, il 28 marzo 1948, sollecitare il “popolo di Dio” ad una precisa scelta di campo nell’imminenza delle elezioni, riecheggiando echi già sentiti e riproposti col sostegno di manifesti e di volantini lanciati dagli aeroplani.

 

Dopo la benedizione urbi et orbi Pio XII – in italiano - spiegò infatti che:  “La grande ora della coscienza cristiana è suonata. O questa coscienza si desta a una piena e virile consapevolezza della sua missione di aiuto e di salvezza per un’umanità pericolante nella sua compagine spirituale; e allora è la salute, è l’avveramento della formale promessa del redentore: ‘Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo’. Ovvero (che a Dio non piaccia) questa coscienza non si sveglia che a metà, non si dà coraggiosamente a Cristo, e allora il verdetto, terribile verdetto!, di Lui non è meno formale: ‘Chi non è con me è contro di me’.  Voi diletti figli e figlie, ben comprendete che cosa un tale bivio significa e contiene in sé per Roma, per l’Italia, per il mondo. Nella vostra coscienza, destatasi a tale piena consapevolezza, della sua responsabilità, non vi è posto per una cieca credulità verso coloro che dapprima abbondano in affermazioni di rispetto alla religione, ma poi, purtroppo, si svelano negatori di ciò che vi è di più sacro”.

 

Se è vero che la Chiesa aveva già da tempo preso posizione a favore della Dc, è altrettanto vero che mai si era schierata in modo tanto esplicito, mai aveva puntato così tanto su una singola tornata elettorale: basti dire che il pontefice, il giorno del voto, potè seguire l’andamento dei risultati dall’ufficio elettorale appositamente predisposto dall’Azione cattolica in Vaticano.

 

La pressione esercitata dalla Chiesa, ovviamente, suscitò però dure recriminazioni nel campo avverso, esasperato per quello che veniva ritenuto uno “sconfinamento” indebito e aggressivo.

 

Ne è testimone la polemica di Togliatti, che all’inizio di marzo scrisse sull’“Unità”: “Il Partito della Democrazia Cristiana rapidamente superato un primo momento iniziale in cui tenne a dichiararsi ‘non confessionale’, è ora chiaramente il partito del Vaticano. Esso è diretto dalle alte sfere ecclesiastiche”; oppure, restringendo l’immagine al piano locale, lo sfogo frustrato di Leonida Rapaci, candidato al Senato per il Fronte Popolare nel collegio di Palmi: “Battuto da un sordomuto”, scrisse infatti nel volume conclusivo del Ciclo dei Rupe, “è il colmo. Mentre io parlavo a immense masse di popolo trascinandole all’entusiasmo, il mio avversario (Domenico Romano, già alto funzionario del Ministero dei Lavori Pubblici in età fascista e ministro con Badoglio, ndr) teneva la bocca chiusa e faceva parlare per lui i parroci nei confessionali”.

 

L’on. Fausto Gillo riferì alla Camera il 9 giugno del 1948, nel corso di una dura requisitoria contro i pesanti interventi delle gerarchie nella campagna elettorale, che nei seminari si costringevano gli alunni a scrivere ad amici e parenti, per convincerli a votare Dc. Per dimostrarlo, lesse una lettera di un seminarista di Arezzo: “L’ora fatale che dovrà segnare il destino d’Italia sta per scoccare: o un’Italia libera, o un’Italia schiava; o un’Italia religiosa, o un’Italia senza Dio: a te il decidere con il tuo voto e con quello di tua moglie. Ricorda che questa volta la lotta non è politica, ma religiosa. Bada che, se vince quel partito, io non potrò nemmeno ascendere al sacerdozio. Ti avverto, di fare propaganda fra gli amici e i compagni della nostra scuola perché votino tutti per i candidati Dc”.

 

Nei certificati per la cresima, proseguì, oltre al nome del bambino, il suo indirizzo, il nome di padrino e madrina, si leggeva: “Dichiaro di non essere iscritto o aderente al partito comunista o socialista o ad altri partiti contro la Madre Chiesa”; e concluse il suo intervento denunciando la mancata benedizione pasquale a tutti i militanti del Fronte.

 

Si può ben vedere come l’attivismo del Vaticano apparisse, anche ai contemporanei (ed agli avversari), massiccio e determinante: nel piccolo scenario come nei grandi palcoscenici nazionali, all’inizio come alla fine.

 

3.3. Il fattore URSS e l’intrinseca debolezza del Fronte

 

In ogni ricostruzione di quei mesi d’attesa il ruolo degli Stati Uniti merita almeno un capitolo: comprensibilmente, si direbbe, data l’influenza della prima potenza mondiale – rafforzata dal monopolio nucleare – nel panorama politico d’un Paese sconfitto, che rientrava in effetti nella sua sfera d’interessi.

 

Molto spesso, però, si trascura l’URSS, o la si riduce ad una sterile centrale ideologica interessata esclusivamente al consolidamento del settore di competenza; oppure ancora non si collega questo consolidamento alle fortune della Dc, e non si considera che in effetti il blocco filo-occidentale non avrebbe potuto sperare in un ‘padrino’ peggiore, per i frontisti, dell’URSS di quei mesi; già di per sé, è questo un modo per negarne la marginalità.

 

Innanzitutto l’URSS comparve nella campagna elettorale nelle vesti di oppressore, come riportato dai racconti sui metodi di governo imposti da Stalin in Europa orientale; e su questi resoconti l’immaginario popolare innestò un’altra immagine secolare, d’una Russia medievale, spietata, arretrata e brutale, sovrapponendola al mito contemporaneo forgiato dalla resistenza al conquistatore nazista; con questo ‘cambio d’abito’ l’URSS smise le sue vesti rivoluzionarie per indossare il completo del censore, e talvolta del boia, e non seppe reggere la concorrenza della fascinazione americana (la “rendita di posizione degli Stati Uniti”, secondo Gambino), fondata su un secolo e più di racconti, favole e miti.

 

Anche per questo la politica dell’URSS, al contrario di quella statunitense, danneggiò sensibilmente gli interessi del blocco che nelle elezioni italiane ne rappresentava gli interessi, incrinandone sensibilmente i tentativi elettorali e costringendolo sulla difensiva; e solo saltuariamente rivelò – come avvenuto l’11 febbraio del 1948, quando propose ufficialmente di ripristinare un “mandato a tempo determinato” dell’Italia sulle ex-colonie – un interessamento, pur tiepido, per i temi centrali della campagna elettorale.

 

Abbiamo già detto della “svolta” intransigente imposta al Pci ed al Pcf nel corso dell’incontro di Szklarska Poreba, che impose la rottura con i “traditori” socialdemocratici. E abbiamo visto di quanto questa scelta contribuì a indebolire le posizioni del Fronte.

 

Notizie ancora peggiori, tuttavia, cominciarono a giungere dalla Cecoslovacchia, l’altro Paese – oltre all’Italia, almeno fino al voto – a non essere stato del tutto inserito nel meccanismo dei blocchi, nell’ultima decade di febbraio del 1948.

 

In quei giorni il regime di coalizione che governava da tre anni – rafforzato dalle elezioni del 26 maggio 1946 e caratterizzato da una posizione di minoranza dei comunisti, che pure mantenevano la Presidenza del Consiglio con Klement Gottwald – crollò sotto i colpi del ‘colpo di mano’ del Pc cecoslovacco e poi delle purghe, delle repressioni, degli omicidi (come quello del Ministro degli Esteri Jan Masaryk, unico democratico ad aver accettato di far parte del nuovo esecutivo, trovato morto sotto la finestra della sua abitazione) che ne conseguirono, lasciando campo libero all’instaurazione di un esecutivo comunista: in questo modo, a differenza dell’Italia, rottura dell’alleanza anti-fascista (comprendente i partiti comunista, socialista nazionale, socialdemocratico, cattolico popolare, democratico slovacco) ed inserimento nel blocco d’appartenenza avvennero simultaneamente. Stalin, adeguandosi alla spaccatura dell’Europa, stringeva il cappio intorno ai suoi protetti colpendo proprio quello più convintamente imbevuto di tradizioni democratiche.

 

Se quest’operazione miope fu capace d’indebolire il consenso di cui il Pci ancora godeva, ciò avvenne perché i dirigenti di quel partito – spalleggiati dagli omologhi socialisti - imboccarono allora una strada d’intransigente unilateralismo, d’insensato ed acritico irrigidimento ideologico, e prestarono così il fianco ai prevedibili attacchi degli avversari filo-occidentali.

 

L’“Avanti!” e l’“Unità” liquidarono rapidamente la morte di Masaryk, figlio del fondatore della repubblica cecoslovacca, ricorrendo alla spiegazione più sospetta: il suicidio; il giornale socialista, a sua volta, si spinse a proporre un “momento d’alienazione mentale”, mentre i colleghi comunisti preferirono optare per la volontà di sottrarsi alle ingerenze “anglo-americane”. Analogamente, le responsabilità dell’accaduto furono addebitate allo “spionaggio americano” dalla stampa comunista, mentre i socialisti esultarono per la “vittoria del popolo” sui “circoli reazionari”, ed arrivarono a recapitare un telegramma di felicitazioni al leader socialdemocratico Zdenek Fierlinger.

 

La politica del doppio metro di giudizio, aggressivo contro le malefatte dei Paesi capitalisti quanto remissivo nei confronti del Blocco sovietico, si rivelò allora nella sua pienezza: ma costituiva una debolezza per così dire strutturale e malcelata, fondata sulla pretesa superiorità del modello sovietico e sul settarismo ideologico che la rafforzava. Un cocktail, in fin dei conti, indigesto anche per l’elettorato più tiepido e per quella fetta del ceto medio o della classe operaia più “gradualista”, che seguitava a rifarsi al Psi, rimasta disorientata dall’istantaneo allineamento alle posizioni comuniste: “Togliatti e Nenni”, scrisse Valiani, “commisero l’incredibile errore di non limitarsi a cercare giustificazioni economico-sociali a quanto accadeva a Praga, e che colpiva profondamente l’opinione italiana, ma di esaltarlo come una prova di democrazia politica, ché, dicevano, i comunisti e socialisti cecoslovacchi avevano, messi assieme, il 56% dei seggi al parlamento. Chi li ascoltava, ne traeva la conclusione che se Togliatti e Nenni avessero potuto disporre del 56% dei seggi al futuro parlamento italiano, non avrebbero avuto scrupoli ad imitare la soppressione delle libertà democratiche avvenuta a Praga. Secondo molta verosimiglianza si trattava di un pericolo immaginario…Ma l’impressione al Paese fu data, e il Paese, che sentiva ancora il bruciore della dittatura mussoliniana, ne tenne conto”: l’eliminazione delle “vie nazionali” al socialismo comportò anche l’assunzione e – quel ch’è peggio – la rivendicazione di colpe altrui.

 

Questa impostazione costrinse il Fronte, nonostante il volto garibaldino scelto per rappresentarlo, su una posizione difensiva che alla lunga nocque alla campagna elettorale delle sinistre: una prospettiva, questa, suffragata ad esempio dall’atteggiamento tenuto sul piano Marshall, che in quei mesi si preparava ad entrare in funzione e godeva già di grandi aspettative ma continuava a dividere comunisti e socialisti, intransigenti i primi, critici ma aperturisti i secondi, nonostante il 78% degli italiani lo conoscessero ed il 65% fossero favorevoli, contro il 14% dei contrari, secondo un sondaggio internazionale effettuato prima delle elezioni.

 

A prescindere dall’intervento americano di cui sopra, la posizione frontista (sì agli aiuti, ma a condizione di poterli gestire per i lavoratori e di non pregiudicare l’autonomia nazionale) mancava di coerenza, come acutamente notato da Giorgio Galli: “Se il Piano Marshall era rigidamente concepito quale strumento di difesa del capitalismo europeo e di espansione di quello americano, non sarebbe stato certo un successo elettorale della sinistra italiana a far desistere Washington da un piano così architettato, per trasformarlo nel suo opposto, cioè in un mezzo di soddisfazione dei bisogni popolari. Se invece il piano fosse stato modificato perché un governo italiano diverso da quello De Gasperi lo avesse chiesto, allora veniva a cadere tutta la valutazione ‘catastrofica’ che ne veniva data.

 

L’ammissione che neanche l’eventuale governo del Fronte avrebbe rifiutato gli aiuti era una concessione all’orientamento dell’opinione pubblica che si intendeva acquisire, ma mentre questo fatto era privo di efficacia sul terreno propagandistico (non basta la buona volontà frontista di ricevere gli aiuti, occorre anche quella americana di fornirli, si osservava) permetteva agli avversari di rilevare l’incoerenza di cui si è detto”.

 

Contemporaneamente, le sinistre subirono l’offensiva delle lettere dall’America e non seppero far altro che bilanciarla con messaggi pro-frontisti dei gruppi di sinistra e di alcuni sindacati. Lo stesso atteggiamento confuso rivelarono riguardo la questione di Trieste: alla dichiarazione tripartita risposero prima richiamando la solita “speculazione elettorale”, aggravata dal tentativo di trascinare l’Italia in un’atmosfera di guerra, e poi rivendicando la disponibilità polacca a restituire all’Italia le vecchie colonie.

 

Allo stesso modo non riuscirono a supplire alle lacune sul fondamentale tema della politica estera, alle contraddizioni generate da una precisa situazione storica (e insieme strategica, politica, culturale…): mancò, in fin dei conti, un’alternativa credibile.

 

Basti pensare alla dichiarazione dell’11 aprile che chiedeva “a tutti i partiti l’impegno solenne di rifiutare in qualunque caso l’adesione dell’Italia a qualsiasi alleanza, coalizione o blocco che abbia direttamente o indirettamente contenuto o significato militare e di preparazione ad un nuovo conflitto armato e assume per conto proprio questo impegno davanti al popolo”: propositi di non allineamento che nessuno, e tantomeno il Pci aderente al Comintern, poteva garantire.

 

Quest’ambiguità fu rivelata dagli organi di stampa frontisti, che d’altra parte censurarono fedelmente ogni minima forma di dissenso, od anche solo di critica, nei riguardi del sistema sovietico; si renda ad esempio “l’Unità” del 2 aprile, capace di celare il riferimento all’URSS dell’articolo di Henry Wallace, candidato progressista alle elezioni americane di novembre, sulla situazione italiana: il quale sosteneva che, se fosse esistita una legge internazionale “per regolare la libertà delle elezioni gli Stati Uniti avrebbero buone probabilità di essere i primi a essere condannati per la sua violazione. La Gran Bretagna e la Russia (sostituito con: “e qualche altro Paese”, nda) si batterebbero per conquistare il secondo posto”.

 

Fu lo stesso Wallace, per primo, a denunciare queste manipolazioni, rifornendo di facili ironie la stampa anti-comunista: e si può intuire come la maggior parte dei votanti considerasse la pretesa delle sinistre, una volta al governo, di difendere l’autonomia italiana con i fatti, se non ci riusciva con le parole.

 

Non bastavano, per bilanciare il piatto, i documentari elaborati dal Pci, il richiamo alla lotta partigiana (che aveva clamorosamente fallito l’obiettivo di modificare mentalità e valori del Paese), le critiche alle scelte finanziarie del governo favorevoli alle classi privilegiate, gli attacchi sulle riforme promesse e sull’oscura utilizzazione degli aiuti americani (come nel caso del “fondo-lire”, un residuo derivante dalla distribuzione a prezzi di mercato degli aiuti Unrra e post-Unrra, sovente gratuiti o quasi), le ironie sull’“americanismo” o sul carattere straniero del leader democristiano (rinominato “Von Gasper”, per richiamarne il passato di deputato austriaco), le rivelazioni dell’“Unità” e dell’“Avanti!” sui presunti documenti segreti vaticani, sfoderati per dimostrare le interferenze della Chiesa nella politica italiana; il modello politico e sociale di riferimento delle sinistre (nonostante i tentennamenti socialisti), l’Unione Sovietica, non reggeva neanche lontanamente il confronto con l’avversario, eppure fu descritto come un eden incantato dai notabili frontisti, manovrati dagli omologhi sovietici.

 

La Dc, allora, ebbe gioco facile: screditando il modello, infatti, riuscì a smantellare d’un colpo il coeur ideologico degli avversari. Uscire da una posizione di così profonda debolezza si rivelò, in fin dei conti, impossibile.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

E. E. Rossi, The United States and the 1948 italian elections, University of Pittsburgh, Ph.D., 1964.

G. Filoramo/D. Menozzi, Storia del cristianesimo. L’Età contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2006.

G. Andreotti, 1948. L’anno dello scampato pericolo, Rizzoli, Milano, 2005.

A. Tornielli, Pio XII, Mondadori, Milano, 2007.

A. Riccardi, Il “partito romano”. Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, Morcelliana Ed., Brescia, 2007.

L. Repaci, Storia dei Rupe, IV, La terra può finire, Milano, 1973.

L. Valiani, L’avvento di De Gasperi, Einaudi, Torino, 1949.

P. Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia, Milano, 1956.

G. Galli, La sinistra italiana nel dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 1958.


 

 

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