N. 31 - Luglio 2010
(LXII)
Il confine dell'eresia
il cammino neocatecumenale
di Lawrence M.F. Sudbury
È
possibile
che
un
movimento
cristiano,
nato
tra
e
per
i
poveri
su
impulso
dell’insegnamento
del
Concilio
Vaticano
II,
cresciuto
ammantato
da
un
alone
di
ereticità
rispetto
al
cattolicesimo
ufficiale,
possa
trasformarsi
in
una
sorta
di
“armata
papale”
e in
un
baluardo
del
conservatorismo
tradizionalista?
Ebbene
sì,
è
possibile,
come
dimostra
la
parabola
del
cosiddetto
“cammino
neocatecumenale”,
l’associazione
(o,
secondo
alcuni
detrattori,
la
setta)
nata
in
Spagna
all’inizio
degli
anni
‘60
ad
opera
di
un
pittore
e
diffusasi,
con
la
benedizione
degli
ultimi
due
Pontefici,
in
tutta
Europa.
Per
comprendere
come
un
percorso
così
particolare
sia
stato
possibile,
è
necessario
andare
ad
esaminare
le
radici
dei
“neocatecumenali”
fin
dalla
loro
fondazione.
Come
per
moltissimi
altri
movimenti
interni
alla
Chiesa,
la
nascita
dell’esperienza
neocatecumenale
di
confonde
con
l’esperienza
di
fede
di
un
uomo
solo,
“punto
0”
da
cui
il
“cammino”
è
sorto.
Tale
uomo,
per
altro
ancora
saldamente
al
vertice
dell’organigramma
neocatecumenale,
risponde
al
nome
di
Kiko
Argüello
e,
certamente,
a
lungo
sarebbe
potuto
apparire
il
personaggio
meno
probabile
per
fungere
da
strumento
per
l’insorgenza
di
un
gruppo
cristiano.
Francisco
José
Gómez
Argüello
Wirtz
era,
alla
fine
degli
anni
‘50,
un
giovanissimo
pittore
bohémien
già
di
buona
fama
(laureato
all’Accademia
San
Ferdinando
di
Madrid,
a
soli
vent’anni,
nel
1959,
viene
insignito
del
Premio
Nazionale
Straordinario
di
Pittura),
completamente
ateo
e
molto
vicino,
com’era
di
moda
negli
ambienti
artistici
del
tempo,
al
pensiero
esistenzialista
di
Sartre.
Nel
1960,
per
puro
interesse
artistico,
fonda,
con
lo
scultore
Francisco
Coomontes
ed
il
maestro
vetraio
Carlos
Muñoz
de
Pablos,
un
gruppo
di
ricerca
sull’arte
sacra
denominato
“Gremio
62”:
l’obiettivo
del
gruppo
è
analizzare
i
rapporti
tra
arte
sacra
protestante
e
arte
sacra
cattolica
e,
in
pieno
fermento
conciliare,
“Kiko”
ottiene
una
borsa
di
studio
per
viaggiare
in
Europa
e
portare
avanti
le
sue
ricerche.
È in
questo
periodo
che
comincia
ad
interessarsi
alla
spiritualità
legata
al
pensiero
di
Henri
Bergson,
ma
la
vera
svolta
della
sua
vita
avviene
entrando
in
contatto
con
le
esperienze
di
rinnovamento
liturgico
variamente
presenti
in
altri
Paesi
e,
soprattutto,
studiando
e
interiorizzando
il
pensiero
di
Charles
de
Foucauld.
Il
risultato
di
questi
“incontri”
è
una
profondissima
crisi
morale
e
psicologica
che
porta.
nel
1964,
il
pittore
e
ricercatore
ateo
di
un
tempo
a
rigettare
tutti
i
suoi
convincimenti
precedenti
e
persino
la
sua
professione,
per
ritirarsi
a
vivere
nella
baraccopoli
di
Palomeras
Altas,
alla
periferia
di
Madrid,
una
delle
zone
più
degradate
della
città,
abitata
quasi
unicamente
da
gitani,
tossicodipendenti
e
sbandati
di
vario
genere.
È in
questo
contesto
di
emarginazione
che
Kiko
sente
il
bisogno
(dopo
aver
avuto,
secondo
quanto
da
lui
stesso
affermato,
una
visione
mariana)
di
iniziare
un’opera
di
evangelizzazione
che
sia
allo
stesso
tempo
consolatoria
e di
incitamento
per
un
cambio
radicale
della
vita
degli
evangelizzati.
In
quest’ottica,
dunque,
dà
vita
ai
primi
“Cursillos
de
Cristianidad”,
incontri
con
piccoli
gruppi
di
persone
a
cui
viene
presentata
una
visione
del
Cristianesimo
fortemente
comunitaria.
È a
Palomeras
Altas
che
Kiko
fa
la
conoscenza,
tramite
un’associazione
per
il
reinserimento
delle
prostitute,
dell’altra
grande
“colonna”
di
quella
che
diventerà
l’esperienza
neocatecumenale:
Carmen
Hernández,
laureata
in
chimica,
licenziata
in
teologia,
missionaria
laica
vicina
alle
Carmelitane
Scalze,
che
aveva
deciso,
sull’onda
degli
insegnamenti
del
Vaticano
II,
di
svolgere
la
propria
missione
apostolica
tra
i
poveri
delle
realtà
urbane.
Dal
loro
incontro
nasce,
tra
1964
e
1967,
quella
“sintesi
kerigmatico-catechetica”
ispirata
al
dettato
conciliare
e
fondata
su
riscoperta
della
Parola
di
Dio,
interiorizzazione
del
senso
delle
liturgie
sacramentali
ed
esperienza
comunitaria
che
sarà
poi
il
fondamento
ultimo
del
“neocatecumenato”.
A
poco
a
poco
l’eco
dell’opera
di
Kiko
e
Carmen,
come
vengono
normalmente
familiarmente
chiamati
dai
neocatecumeni,
superò
gli
angusti
confini
di
Palomeras
Altas,
per
giungere
all’orecchio
di
Monsignor
Casimiro
Morcillo,
Arcivescovo
di
Madrid,
il
quale,
entusiasmato
dai
risultati
di
“kenosis”
(cambiamento
radicale
dell’esistenza
del
singolo
ad
opera
dell’azione
dello
Spirito
Santo)
ottenuti
nella
baraccopoli,
chiese
ai
due
giovani
missionari
laici
di
estendere
la
loro
predicazione
in
alcune
parrocchie
madrilene
e di
Zamora.
Qui,
però,
Kiko
e
Carmen
si
resero
conto
che
il
risultato
dei
loro
interventi
era
radicalmente
differente:
le
loro
conferenze
venivano
vissute
dalle
famiglie
borghesi
più
come
occasioni
di
crescita
intellettuale
che
come
momenti
per
una
reale
conversione
ed è
dalla
presa
di
coscienza
di
questo
“fallimento”
che
i
due
iniziarono
ad
elaborare
il
percorso
di
riscoperta
del
Battesimo
(il
“neo-catecumenato
post-battesimale”)
orientato
alla
preparazione
spirituale
degli
adulti,
che,
successivamente,
diventerà
il
“Cammino”
vero
e
proprio.
La
grande
svolta
di
espansione
del
loro
messaggio
avviene,
comunque,
nel
1968,
quando,
su
invito
di
Monsignor
Torreggiani,
fondatore
dei
Servi
della
Chiesa,
e
con
una
lettera
di
presentazione
di
Monsignor
Morcillo
per
il
Vicario
di
Papa
Paolo
VI,
Cardinal
Dell’Acqua,
Kiko
e
Carmen
si
spostano
a
Roma,
stabilendosi
nelle
baracche
di
Borghetto
Latino
e
dando
vita
ad
una
predicazione
che
dal
quartiere
Nomentano
si
allargherà
a
tutta
la
città,
poi
a
tutte
le
Diocesi
italiane
e
nel
mondo.
Di
fronte
alla
insperata
diffusione
del
loro
messaggio,
i
due
missionari
laici,
ora
affiancati
dall’allora
Padre
comboniano
Don
Mario
Pezzi
(oggi
incardinato
nella
Diocesi
di
Roma),
iniziarono
a
porsi
il
problema
di
sviluppare
e
formalizzare
l’identità
delle
numerose
comunità
che
si
andavano
formando
nelle
Parrocchie
di
tutta
Europa
e,
nell’aprile
1970,
a
Majadahonda
(Madrid),
definirono
i
fondamenti
del
Cammino
neocatecumenale
come
movimento
organizzato
e
con
una
precisa
struttura
territoriale.
Prendendo
spunto
dalla
Costituzione
apostolica
del
Concilio
Vaticano
II
Sacrosanctum
Concilium
sul
catecumenato
degli
adulti,
si
decise,
allora,
di
istituire
un
itinerario
comunitario
(nell’ideale
della
Sacra
Famiglia
di
Nazareth)
ispirato
alle
antiche
forme
di
iniziazione
catecumenale
(con
tappe
come
gli
Scrutini
battesimali,
l’Iniziazione
alla
preghiera,
la
Traditio
Symboli,
la
Redditio,
ecc.),
che
prendesse
il
via
con
un
ciclo
di
catechesi
di
quattordici
incontri
in
due
mesi,
in
preparazione
al
Kerigma,
cioè
l’annuncio
della
Resurrezione
di
Cristo
per
il
riscatto
dell’umanità.
Dopo
questo
primo
gradino,
qualora
possibile
in
base
al
numero
dei
partecipanti,
si
doveva
procedere
alla
creazione
di
una
nuova
comunità,
intesa
come
Chiesa
-
Corpo
Mistico
di
Cristo,
in
cui
i
Neocatecumeni
dovevano,
sulla
base
del
“Tripode”
(Parola
di
Dio,
Liturgia
e
Comunione
fraterna)
divenire
“sacramento
salvifico”
all’interno
della
Parrocchia
che
li
ospitava
(e
sempre
in
comunione
con
il
Parroco)
con
il
loro
esempio
di
nuovo
modo
di
vivere
il
Vangelo
(che,
comunque,
non
doveva
rigettare
nulla
del
passato
ecclesiastico).
In
sostanza,
l’intero
“cammino”,
dal
punto
di
vista
spirituale,
si
sviluppa
in
tre
momenti
di “kenosis”,
cioè
abbandono
dalle
certezze
precedenti
e
riscoperta
del
senso
della
Cristianità:
il
“Primo
Passaggio”
che
consiste
nella
meditazione
sul
Mistero
della
Croce
e
nell’individuazione
degli
aspetti
angoscianti
della
propria
esistenza,
la
“Shemà”
che
si
concretizza
nella
meditazione
delle
Scritture
come
pietra
di
paragone
per
la
propria
vita
e il
“Secondo
Passaggio”
in
cui
si
ha
l’abbandono
dei
propri
idoli
personali
e
l’abbandono
in
Cristo.
In
tutto
il
cammino,
le
armi
di
cui
la
Chiesa
-
Comunione
dei
Santi
progressivamente
dota
il
Neocatecumeno
sono
l’iniziazione
alla
preghiera
(simbolicamente
rappresentata
dalla
consegna
della
Liturgia
delle
Ore),
la
“traditio
Symboli”
(con
la
consegna
del
Credo)
e la
“redditio
Symboli”
(la
recita
pubblica
del
Credo)
e
l’abbandono
a
Dio
(con
la
consegna
del
Padre
Nostro).
Al
termine
del
processo
kenotico,
si
apre
la
riscoperta
dell’”elezione”,
in
cui
i
Neocatecumeni
sono
chiamati
a
“camminare
nella
lode”
e,
infine,
il
rinnovo
delle
promesse
battesimali
davanti
al
Vescovo.
Ogni
comunità
non
possiede
beni
in
proprio
ma
provvede
alle
proprie
necessità
organizzative
tramite
collette
il
cui
ricavato
in
eccesso
rispetto
ai
bisogni
viene
inviato
alla
Fondazione
del
Cammino
Neocatecumenale
di
cui
è
Presidente
è il
Cardinale
Camillo
Ruini.
Tutte
le
comunità
fanno
capo
ad
una
“équipe
responsabile
internazionale
del
Cammino
neocatecumenale”,
composta
da
Kiko
Argüello,
Carmen
Hernández
e
Padre
Pezzi,
che,
a
sua
volta,
nomina
un
collegio
elettivo
(di
circa
un
centinaio
di
membri
nominati
a
vita).
Sempre
dalla
“
équipe
internazionale”
dipendo
i
“catechisti
itineranti”,
incaricati
di
formare
le
prime
comunità
nelle
varie
aree
del
mondo
(sempre
su
invito
del
Vescovo
locale
e di
almeno
un
Parroco),
di
mantenerne
i
contatti
con
i
“vertici”
del
Cammino
e di
sorvegliarne
la
crescita.
Tali
catechisti
itineranti
operano
sempre
in
gruppi
composti
da
un
presbitero,
da
una
coppia
e da
un
celibe
(oppure,
se
non
si
dispone
di
una
coppia,
da)
un
celibe
e
una
nubile
e
sono
tutti
volontari
che
hanno
scelto
liberamente
(e
per
un
tempo
a
loro
scelta)
di
abbandonare
tutto
e di
affidarsi
alla
Provvidenza
per
diffondere
il
Cammino
in
zone
che,
di
norma,
vengono
sorteggiate
casualmente.
La
naturale
evoluzione
di
questo
sistema
di
evangelizzazione
è
stato,
a
partire
dagli
anni
‘80,
l’esperienza
delle
“Famiglie
in
missione”,
nuclei
famigliari
che
volontariamente
si
offrono
di
dedicarsi,
con
il
sostegno
morale
e
materiale
della
loro
comunità
di
provenienza,
alla
“Implantatio
Ecclesiae”
in
aree
di
forte
secolarizzazione
o di
recente
cristianizzazione
(dal
nord
Europa
nel
primo
caso,
all’Africa
e al
Medioriente
nel
secondo),
con
l’aiuto
di
Sacerdoti
formati
sia
nei
Seminari
diocesani
che
in
quelli
nel
frattempo
aperti
dal
Cammino
in
numerose
località
(ad
oggi
sono
72)
e
dedicati
alla
“Redemptoris
Mater”
(e,
comunque,
di
appartenenza
delle
Diocesi
di
competenza
territoriale).
Su
queste
basi,
il
minimo
che
si
possa
dire
è
che
il
Cammino
si
presenta
come
una
Istituzione
a
dir
poco
meritoria,
nata
da e
per
il
popolo
cristiano.
In
effetti,
tra
l’altro,
la
sua
strutturazione
appare
per
molti
versi
simile
a
quelle
delle
Comunità
Cristiane
di
Base
e,
conseguentemente,
potrebbe
apparire
addirittura
una
esperienza
progressista,
nata
com’è
dal
laicato
sulla
base
delle
indicazioni
del
Concilio.
Di
fatto,
però,
le
cose
non
stanno
esattamente
così.
Per
quanto
riguarda
un
giudizio
complessivo
sul
movimento,
i
pareri
all’interno
della
Chiesa
sono
stati
da
subito
molto
discordi.
Da
un
lato,
infatti,
fin
dalla
nota
Preclarum
Exemplar
del
1974
dell’allora
Segretario
della
Congregazione
del
Culto
Divino
(che
aveva
appena
terminato
una
investigazione
sul
Cammino)
il
Vaticano
ha
sempre
lodato
l’esempio
neocatecumenale.
Tale
apprezzamento
è
stato
ribadito,
quello
stesso
anno,
da
Papa
Paolo
VI
e,
in
seguito,
molte
volte
da
Papa
Giovanni
Paolo
II,
il
quale
ne
ha
elogiato
il
Carisma,
l’itinerario
spirituale
e
l’opera
evangelizzatrice.
Insomma,
il
Cammino
neocatecumenale
è
una
realtà
ecclesiale
pienamente
riconosciuta
dalla
Chiesa
cattolica
e in
piena
comunione
con
il
suo
Magistero.
Nonostante
ciò,
molte
sono
state
anche
le
voci
dissenzienti
nei
suoi
confronti.
I
punti
più
controversi
riguardano
tre
aspetti
fondamentali:
- la
“creatività”
liturgica
dei
Neocatecumenali;
- un
certo
deviazionismo
teologico
di
sapore
para-luterano;
- un
fortissimo
settarismo
di
fondo.
Analizziamo
brevemente
i
primi
due
“nuclei
problematici”,
prima
di
sviluppare
un
ragionamento
sul
terzo.
La
“creatività
liturgica”,
in
fondo,
è il
grande
retaggio
del
Vaticano
II,
sebbene
appare
piuttosto
evidente
che
Kiko
e
Carmen
si
siano
spinti
un
po’
oltre:
lo
spostamento
della
Messa
al
sabato
sera
può
anche
essere
accettabile
(in
fondo
anche
nel
“Cattolicesimo
ufficiale”
la
“Funzione
vespertina”
del
sabato
ha
validità
precettuale),
ma
meno
accettabili
sono,
alla
luce
proprio
di
quella
Traditio
Fidei
che
i
Neocatacumenali
sostengono
di
voler
riscoprire,
ritualità
che
prevedono
un
“dialogo”
tra
Celebrante
e
laici
presenti,
con
monizioni
laicali
a
volte
addirittura
preponderanti
rispetto
all’omelia
del
Presbitero
(e,
ancora
una
volta,
se
non
fosse
per
la
formalizzazione
dell’atto
e
per
l’uso
smodato
dell’elemento
dialogico,
saremmo
ancora
nella
canonicità
conciliare),
la
riformulazione
dell’intero
Messale
e
soprattutto
la
trasformazione
della
Celebrazione
Eucaristica
in
una
sorta
di
agape
fraterna,
in
cui
i
fedeli
siedono
intorno
all’altare
e
ricevono
la
Comunione
sotto
le
due
specie
(cosa
anche
questa
prevista
dalla
riforma
conciliare)
con
pane
azzimo
e da
seduti.
Ovviamente,
aldilà
del
fatto
che,
di
per
sé,
dietro
ogni
atto
rituale
risieda
una
motivazione
teologica
profonda
e
che,
conseguentemente,
ogni
variazione
dovrebbe
essere
motivata
da
motivazioni
altrettanto
profonde,
potremmo
parlare
di
questioni
principalmente
formali,
che
non
alterano
la
profonda
cattolicità
dell’assunto
neocatecumenale.
Ben
più
grave
è
l’aspetto
riguardante
le
alterazioni
dogmatiche
rinvenibili
nei
ponderosi
(e
spesso
segretissimi
e
riservati
ai
soli
“catechisti”)
Catechismi
neocatecumenali,
alterazioni
contro
cui
si
sono
scagliati
numerosi
teologi
ed
ecclesiastici,
ravvisandovi
una
grave
deriva
protestante
in
elementi
quali:
- la
impossibilità
umana
di
evitare
il
peccato;
- la
Salvezza
possibile
solo
come
atto
di
Grazia
divina
gratuitamente
concessa
(“sola
Gratia”?)
a
chi
ha
Fede
e si
riconcilia
per
mezzo
del
Battesimo
(“sola
Fide”?);
- il
Sacerdozio
laicale
completamente
equiparato
al
Sacerdozio
presbiteriale;
-
l’auto-evidenza
scritturale
e la
capacità
interpretativa
donata
ad
ogni
essere
umano
in
egual
misura,
anche
senza
bisogno
di
preparazione
specifica
(“sola
Scriptura?);
- la
negazione
della
Transustanziazione,
sostituita
da
una
visione
della
Comunione
come
atto
simbolico;
- la
Chiesa
interpretata
in
senso
non
gerarchico
e
normativo
ma
unicamente
carismatico;
- lo
svilimento
della
figura
presbiteriale,
a
volte
addirittura
vista
come
portavoce
di
una
Chiesa
Petrina,
strettamente
formalistica
e
statica
(almeno
nel
periodo
tra
Costantino
e il
Concilio
Vaticano
II)
in
contrapposizione
con
la
figura
laicale
del
“catechista”,
portavoce
di
una
Chiesa
Giovannea
e
mistico-spirituale.
In
qualche
modo,
anche
questa
deriva
può
essere
vista
come
un
frutto
deteriore
di
una
interpretazione
distorta
di
alcune
indicazioni
conciliari,
lette
grossolanamente
e
forse
senza
l’adeguata
preparazione
storico-filosofica.
Certamente
così
devono
averla
interpretata
i
molti
alti
Prelati
che
si
sono
opposti
fermamente
allo
sviluppo
del
Cammino
nelle
loro
Diocesi,
dal
Cardinal
Piovanelli
a
Firenze
al
Cardinal
Pappalardo
a
Palermo,
dal
Cardinal
Hume
a
Westminster
a
Monsignor
Alexander
a
Clifton.
Eppure...
Eppure,
ciò
non
ha
impedito
agli
Statuti
Neocatecumenali
di
essere
approvati
dalla
Santa
Sede.
Certo,
il
cammino
è
stato
lungo:
è
cominciato
il
29
giugno
2002,
quando
lo
Statuto
del
Cammino
neocatecumenale
è
stato
approvato
“ad
experimentum”
dal
Pontificio
Consiglio
per
i
Laici,
naturalmente
dietro
beneplacito
di
Papa
Giovanni
Paolo
II
(che
espresse
chiaramente
il
suo
favore
il
21
settembre
2002,
quando
ricevette
in
udienza
a
Castel
Gandolfo
Kiko
e
Carmen)
e si
è
concluso
con
il
Decreto
di
approvazione
definitiva
consegnanto
dal
Cardinal
Rylko
ai
fondatori
solo
l’11
maggio
2008,
dopo
che
erano
ampiamente
trascorsi
i
cinque
anni
canonici
e,
soprattutto,
dopo
che
alcune
“storture”
erano
state
corrette.
In
effetti,
però,
tali
“storture”
erano
soprattutto
quelle
relative
alle
questioni
liturgiche:
già
il 1
dicembre
2005
il
Cardinal
Arinze,
Prefetto
della
Congregazione
per
il
Culto
Divino,
aveva
richiamato
i
Neocatecumenali
per
lettera,
a
nome
del
papa,
a
un’osservanza
fedele
delle
regole
liturgiche
e
tale
esortazione
era
stata
ribadita
direttamente
da
Papa
Benedetto
XVI
il
12
gennaio
2006
e il
22
febbraio
2007
(quando,
in
un’udienza
al
clero
di
Roma,
il
Papa
aveva
fatto
capire
che
i
nuovi
Statuti
non
sarebbero
stati
approvati
se
il
movimento
non
avesse
obbedito
ai
richiami).
Alla
fine,
comunque,
le
pressioni
hanno
avuto
effetto
e il
nuovo
Statuto
obbliga
i
Neocatecumenali
a
celebrare
la
Messa
seguendo
il
Rito
Romano
(con
la
sola
concessione
del
segno
della
pace
scambiato
prima
dell’offertorio
come
già
nel
Rito
Ambrosiano),
con
la
Comunione
ricevuta
in
piedi,
l’omelia
non
sostituibile
da
interventi
di
laici
e la
funzione
aperta
a
tutti.
Quest’ultimo
elemento,
questa
volontà
a
lungo
espressa
dai
Neocatecumenali
di
svolgere
i
propri
Riti
eucaristici
in
forma
privata,
ci
introduce
nel
terzo
grande
nucleo
di
accuse
che,
nel
tempo,
hanno
colpito
i
Neocatecumenali,
quello
relativo
al
loro
settarismo.
E
che
ampi
tratti
di
settarismo
esistano
è
indubitabile:
basti
pensare
alla
segretezza
che
avvolge
i
catechismi
interni,
all’impegno
di
mutuo
soccorso
tra
gli
aderenti
al
movimento,
ad
un
certo
livello
di
culto
della
personalità
tributato
(molto
probabilmente
contro
il
loro
stesso
volere)
a
Kiko
e
Carmen,
al
notevole
clima
di
esclusivismo
che
porta
i
Neocatecumenali
a
vedere
se
stessi
come
gli
unici
veri
Cristiani,
con
un
certo
discredito
per
l’altrui
religiosità,
ad
alcune
pratiche
psicologicamente
problematiche
a
cui
gli
aderenti
al
gruppo
finiscono
per
sottoporsi
più
o
meno
volontariamente
(da
molte
parti,
anche
sulla
base
delle
testimonianze
di
alcuni
fuoriusciti,
si è
notato
un
notevole
stato
di
soggezione
psicologica
del
singolo
al
gruppo
e un
isolamento
a
cui
chi
decide
di
uscire
dal
Neocatecumenato
viene
sottoposto
dalla
comunità),
quali
l’abbandono
dei
beni
materiali
più
cari
durante
la
“Shemà”
(tali
beni,
raccolti
come
rifiuti
in
un
sacco
nero
durante
il
rito
di
“abbandono
di
Mammona,
confluiscono
poi
nelle
casse
del
Movimento,
che,
non
a
caso,
dispone
di
notevoli
possibilità
finanziarie
non
sottoposte
ad
alcun
controllo),
la
confessione
pubblica
dei
propri
peccati
più
gravi,
la
spiccata
endogamia
nei
gruppi
(spesso
spinta,
più
o
meno
consapevolmente,
dagli
altri
membri,
in
una
classica
dinamica
di
“noi
e
gli
altri”)
o la
scelta
da
parte
delle
coppie
sposate
di
non
utilizzare
neppure
i
metodi
contraccettivi
approvati
dalla
Chiesa
per
non
limitare
in
alcun
modo
i
“doni
di
Dio”,
con
il
risultato
di
famiglie
che
arrivano
ad
avere
dieci
figli
in
dieci
anni.
Eppure...
Eppure
proprio
queste
regole
così
rigide,
da
setta
estrema,
sono
la
chiave
di
volta
del
successo
neocatecumenali
in
tutti
i
sensi.
Dal
punto
di
vista
sociale,
la
domanda
che
dobbiamo
porci
è:
perché
in
un
periodo
di
estrema
laicizzazione
dei
costumi
il
Cammino
è
riuscito
a
formare
qualcosa
come
35.000
comunità
in
tutti
i
continenti?
Quasi
paradossalmente
la
risposta
sta
proprio
nell’estrema
durezza
delle
regole
imposte
ai
fedeli:
in
fondo,
quello
che
più
piace
del
Cammino,
che
ne
costituisce
la
forza,
è
proprio
il
suo
essere
una
forma
di
ritorno
integrale
al
Vangelo,
al
messaggio
cristologico
paolino,
senza
quei
“compromessi”
con
il
mondo
che
la
Chiesa
cattolica
ha
realizzato
nel
corso
della
sua
storia
bimillenaria
al
fine
di
trovare
un
modus
vivendi
tra
Sacro
e
profano.
Insomma,
piace
la
radicalità
dell’impostazione,
del
linguaggio,
del
richiamo
al
Vangelo
e ad
una
esperienza
intima
di
Dio
di
stampo
quasi
proto-cristiano
o
medievale,
in
un’epoca
come
la
nostra,
ove
il
dubbio
sembra
aver
eroso
ogni
certezza.
Ma è
soprattutto
dal
punto
di
vista
politico
che
questa
forma
estrema
di
impegno
cattolico
trova
i
suoi
frutti
migliori.
Proviamo
a
ragionare
per
un
istante
sulla
posizione
dei
Neocatecumenali.
Abbiamo
visto
che
la
loro
ritualità
ha
portato
agli
estremi
le
istanze
di
rinnovamento,
chiaramente
di
stampo
progressista,
del
Concilio
Vaticano
II,
tanto
da
necessitare
la
correzione
vaticana,
e
abbiamo
avuto
modo
di
notare
come
alcune
loro
impostazioni
teologiche
di
fatto
superino
addirittura
in
termini
para-eretici
i
confini
della
Cattolicità.
Ebbene,
come
si
spiega,
a
partire
da
questi
assunti,
l’appoggio
che
due
Papati
chiaramente
e
dichiaratamente
conservatori
come
quelli
di
Papa
Wojtyla
e di
Papa
Ratzinger
abbiano
appoggiato
molto
nettamente
un
gruppo
di
questo
genere
(e,
più
in
generale,
un
certo
numero
di
movimenti
analoghi)?
La
risposta
più
ovvia
è
che
i
Neocatecumenali
riescono
a
riportare
in
seno
alla
Chiesa
un
numero
impressionante
di
giovani,
che
ad
ogni
raduno
papale
oceani
di
figli
spirituali
di
Kiko
e
Carmen
accorrono
ad
acclamare
il
Santo
Padre
(si
parla
di
40.000
presenti
per
il
viaggio
apostolico
a
Fatima,
organizzati
dal
Sostituto
alla
Segreteria
di
Stato,
Monsignor
Filoni,
neocatecumenale
egli
stesso,
e di
un
numero
paritetico
per
il
raduno
in
sostegno
del
Pontefice
organizzato
dal
Cardinal
Bagnasco
a
San
Pietro),
che,
caso
più
unico
che
raro,
tra
i
Neocatecumenali
fioriscono
vocazioni
missionarie
in
numero
addirittura
largamente
eccedente
le
necessità
(nonostante
le
condizioni
di
estrema
precarietà
e,
molto
spesso,
di
completa
impreparazione
in
cui
le
“famiglie
in
missione”
partono
per
gli
angoli
più
sperduti
del
mondo,
affidandosi
unicamente
alla
Provvidenza).
Eppure
...
Eppure,
tutto
questo
non
basta
ancora
a
spiegare
un
favore
così
evidente,
così
come
appaiono
francamente
eccessive
le
teorie
espresse
dall’ex-”focolarino”
Gordon
Urquhart
relative
ad
una
strategia
vaticana
di
supporto
ai
movimenti
per
tenere
a
freno
le
tendenze
autonomistiche
delle
Conferenze
episcopali
nazionali
e
rafforzare
l’autorità
pontificia.
Il
punto
critico
sta
nella
consonanza
ideologico-morale
tra
Pontefici
che
vogliono
“ricristianizzare
e
rimoralizzare”
un
mondo
laicizzato
e
senza
punti
di
riferimento
tramite
l’impeto
di
un
“pensiero
forte”
ai
limiti
del
tradizionalismo
pre-conciliare
e un
movimento
che
del
“pensiero
forte”
fa
la
sua
bandiera,
che,
pur
partito
da
istanze
oggettivamente
progressiste,
si è
radicalizzato
in
un
fondamentalismo
morale
addirittura
più
stringente
delle
richieste
pontificie,
spingendosi,
in
questo
senso,
ai
margini
più
conservatori
della
Chiesa.
Il
dubbio,
allora,
diventa
uno
solo:
se
un
ritorno
ad
un
Cristianesimo
delle
origini
sia
oggi
possibile
senza
provocare
fratture
interne
alla
Cattolicità
e
senza
negare
le
conquiste
di
una
Chiesa
più
aperta
alla
voce
locale
dei
Vescovi
di
fronte
ad
un
Papato
fin
troppo
tentato
di
guardare
ad
un
passato
assolutistico.
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2008
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