.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

contemporanea


N. 107 - Novembre 2016 (CXXXVIII)

Italo Calvino e gli avanguardisti

spazi, paesaggi, conflitti tra Mentone e la Riviera
di Ettore Janulardo

 

È nel 1953 che Italo Calvino (1923-1985) pubblica per la prima volta il racconto Gli avanguardisti a Mentone. Le venticinque pagine di questa rievocazione giovanile sono comprese in un trittico apparso nel 1954, L’entrata in guerra, che avrebbe dovuto costituire il nucleo centrale di un romanzo sugli anni della Seconda guerra mondiale.


La vicenda del giovane protagonista – figura attraverso la quale si esprime l’esperienza autobiografica dell’autore – si situa nel settembre 1940, sullo sfondo di una Riviera ligure destinata a trasformarsi. Come indicato da Calvino in queste pagine, e anche in altre osservazioni biografiche e critiche, San Remo e i dintorni stanno per perdere la loro connotazione di cosmopolite stazioni di una selezionata villeggiatura: ma per adesso, all’epoca del racconto, il paesaggio ligure non è che lo sfondo d’uno scenario bellico – quello italo-francese dell’estate 1940 – secondario nel contesto del conflitto scoppiato in Europa.

 

.

A. Tosi, Orto in Liguria, 1926.
Olio su tela, 70 x 80 cm. Collezione privata

 

Il protagonista è un riflessivo diciassettenne inserito, come i ragazzi della sua età, in una delle organizzazioni giovanili fasciste, gli “Avanguardisti”. Mentre continua a trascorrere giornate tranquille nelle stradine di San Remo – ove persino l’oscuramento sembra favorire piacevoli scoperte durante le uscite serali –, il giovane comincia a conoscere alcuni aspetti della situazione bellica e ha modo di osservare flussi di rifugiati italiani che lasciano le proprie case, troppo vicine a luoghi di azione militare, per trovano un riparo più sicuro. E quando nel racconto si sottolinea che le abitazioni e i beni di questi profughi non sono risparmiati da saccheggi di gente disposta a tutto, assistiamo all’introduzione di una nota drammatica in un contesto altrimenti quasi vacanziero.


È attraverso una sorta di escursione in gruppo che il protagonista della vicenda incontra direttamente i luoghi toccati dalla guerra e dalla storia: non potrà che restar colpito da questa esperienza, anche se non si tratta per il momento che di un primo grado di presa di coscienza. Nel racconto, i fascisti reclutano “avanguardisti” da portare a Mentone. La città è stata annessa all’Italia dopo le operazioni militari iniziate nel 1940, ma resta ancora un luogo inaccessibile ai civili: potervi entrare costituisce così un’occasione privilegiata, anche se ci si limiterà a una sorta di parata alla stazione ferroviaria nell’attesa dell’arrivo di una delegazione di giovani falangisti spagnoli.

 

.

G. Pagano, Tetto a cupola a Varigotti nella Riviera Ligure

 

Dopo aver iscritto anche il suo amico Biancone a questa operazione para-militare, il giovane protagonista-narratore sale in un torpedone diretto a Mentone. Sotto un cielo piovoso il tragitto non invita ad una particolare festosità, ma si possono comunque osservare gli esiti di alcuni scontri a fuoco e scorgere, protetto da un tunnel, il “treno armato” offerto da Hitler a Mussolini. Si supera il vecchio posto di frontiera, si tenta di vantare l’espansione italiana verso occidente, ma non c’è un’atmosfera trionfale: le truppe italiane non sono riuscite ad impadronirsi di Nizza e la conquista di Mentone non riesce a soddisfare il magniloquente bellicismo fascista.

 

L’arrivo a Mentone segna il confronto con una serie di prospettive differenti. Dietro l’ingenuità di alcune domande, è immediatamente posta la questione della percezione di una collocazione spaziale e temporale diversa rispetto alle città italiane. Pur distando pochi chilometri da San Remo, i viali alberati di Mentone sembrano avere qualcosa di “estraneo”, che farebbe addirittura pensare a luoghi del Nord Europa, ancora ignoti al giovane protagonista: “Mentone è come Parigi?”, si chiede.

 

La seconda domanda sembra implicare un livello superiore di riflessione. Vedere vecchie insegne di negozi chiusi conduce a uno slittamento verso la problematica temporale: “La Francia appartiene al passato?”. Nel contesto storico del racconto la domanda del giovane “avanguardista” Calvino è meno innocentemente superflua di quanto si potrebbe credere: è un frammento di realtà che inizia a confrontarsi con la propaganda fascista, con la sottile ansia di comprendere se i due piani sono effettivamente sovrapponibili. E il confronto con la “differenza” francese, autentica o supposta, non è che una tappa di processo di svincolo rispetto alle promesse e alle percezioni determinate dal regime fascista.

 

Il soggiorno nella città francese è disorganizzato e privo di senso. Mentre si attende la comparsa del treno dei giovani falangisti spagnoli – il cui arrivo, di volta in volta posticipato, non sarà che una presenza fugace e ulteriormente incongrua – gli “avanguardisti” italiani si abbandonano a incoerenti saccheggi nelle case e nelle ville abbandonate di Mentone. Già presente nelle prime pagine della storia, torna in forze il tema della depredazione nella seconda parte del racconto: incoraggiato dai capi fascisti, l’accumulo di ogni tipo di oggetto rubato diviene il vero scopo di questa strana “escursione”. Dopo lo stato d’animo perplesso del narratore durante il viaggio e all’arrivo a Mentone, è rispetto ai saccheggi che si evidenzia un secondo momento forte di distacco di Calvino rispetto ai compagni.

 

Rifiutando l’idea stessa di attraversare la città solo per approfittarne, il giovane vorrebbe invece percorrerla alla ricerca di aspetti inediti o di qualche “verità” nascosta: non fossero altro che dei negozi ove trovare sigarette o un monumento alla “bambina” Mentone accolta da “madame la France” dopo il plebiscito del 1860. La delusione del protagonista si fa tanto più forte quando osserva l’amico Biancone districarsi bene nelle tecniche del saccheggio, accaparrandosi – tra altri oggetti – un ritratto di Danielle Darrieux e un libro di Léon Blum.

 

Dopo una notte d’incerto riposo, Calvino potrebbe essere così l’unico “avanguardista” a tornare in Liguria senza un “ricordo” della città occupata. Ma è proprio durante la notte che il giovane protagonista riunisce nello stesso disgusto “il fascismo, la guerra e la volgarità” dei suoi conoscenti, giungendo a teorizzare la valenza “eroica” del suo atteggiamento: non rubare è un atto di sabotaggio antifascista. E il sabotaggio si fa azione concreta quando infine Calvino ruba la chiave del “New Club”, ex sede mentonese di una società inglese divenuta “Casa del Fascio” nella città occupata. Diretto contro un edificio preso dagli italiani, il furto diviene così una delle sole forme possibili di protesta nel corso della permanenza in Francia.

 

.

A. Tosi, Zoagli, 1928 c.
Olio su tela, 70 x 90 cm. Collezione privata.

Deposito presso la Collezione Peggy Guggenheim, Venezia
 

La conclusione del racconto presenta un terzo momento di distacco del protagonista rispetto ai compagni. Attraverso poche frasi malinconiche si traccia il percorso del torpedone nella notte della Riviera, con uno sguardo rivolto al mare agitato: a differenza della vigilia, quest’itinerario non corrisponde più a un’escursione da ragazzi ma annuncia il confronto inevitabile con la guerra: porsi, da parte di un “avanguardista”, domande sulle modalità di quest’impegno e sulle sue conseguenze corrisponde già ad un allontanamento dal fascismo, al suo “tradimento”.

 

Inserita nel trittico L’entrata in guerra, che presenta un analogo spirito di partecipazione curiosa e maldestra agli eventi militari dell’estate 1940, la storia dell’ “escursione” a Mentone acquisisce un più ampio spessore se messa in relazione con i personaggi del primo romanzo dello scrittore sanremese. Sotto l’impulso di un’urgenza narrativa e di una ridefinizione ideologica, Calvino ha già pubblicato Il sentiero dei nidi di ragno. La visione di lacerti di mondo attraverso lo sguardo di un bambino consente un’indiretta testimonianza. Il sentiero dei nidi di ragno viene pubblicato nell’ottobre del 1947, ma si vuol qui riflettere sull’edizione del 1964, riveduta e corretta, e sulla Prefazione del giugno di quell’anno.

 

Lontano dalle pagine “gappiste” del Vittorini di Uomini e no, e agli antipodi della geometria sperimentale di Fenoglio – al cui impasto generazionale e linguistico si dedica un omaggio alla fine della Prefazione citata (“Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata”: I. Calvino, Prefazione 1964, p. XXIII, a Il sentiero dei nidi di ragno, 1947, cit. dall’ed. Mondadori, Milano 1993) – il primo romanzo di un Calvino ventitreenne decontestualizza e priva di aura mitica la scena della lotta partigiana, cui sembrano aderire personaggi grotteschi e imperfetti, sbandata divisione di combattenti raffigurati attraverso gli occhi di un ragazzino in un clima sospeso tra favola e impegno. Così nella prima pagina:

 

“Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone, a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagro il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti” (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947, cit., p. 3).

 

Se alla lotta politica si può arrivare anche per caso, o per dispetto o capriccio, non si dimentica che lo sfondo dei carrugi è piano inclinato lungo il quale scivola la Storia, fatta di debolezze e violenze, di certezze e viltà: “Poi ci sono gli orti e le immondizie e le case: e arrivando lì Pin sente delle voci non italiane che parlano. C’è il coprifuoco ma lui spesso gira lo stesso di notte perché è un bambino e le pattuglie non gli dicono niente” (Ibid., p. 26).

 

Corrispettivo dell’avanguardista chiamato a una precaria opera di assistenza agli sfollati, nel racconto L’entrata in guerra – diviso tra l’imbarazzo della gerarchia e il desiderio di rendersi utile –, Pin s’improvvisa protagonista di vicende che non può comprendere. In un romanzo caratterizzato dalla discontinuità stilistica e da personaggi ambigui o poco verosimili – più maschere e “tipi” che entità vive –, il paese e i paesaggi si sfrangiano nella narrazione calviniana, che sublima spazi e tensioni e battaglie, mentre la nettezza classificatoria delle definizioni infantili riporta alla luce gerarchie di violenza:

 

“I tedeschi sono peggio delle guardie municipali. Con le guardie, se non altro, ci si poteva mettere a scherzare, dire: - Se mi lasciate libero vi faccio andare a letto gratis con mia sorella. Invece i tedeschi non capiscono quello che si dice, i fascisti sono gente sconosciuta, gente che non sa nemmeno chi è la sorella di Pin. Sono due razze speciali: quanto i tedeschi sono rossicci, carnosi, imberbi, tanto i fascisti sono neri, ossuti, con le facce bluastre e i baffi da topo” (Ibid., p. 27).

 

Se Pavese aveva evidenziato “un sapore ariostesco” nel libro: “Ma l’Ariosto dei nostri tempi si chiama Stevenson, Kipling, Dickens, Nievo, e si traveste volentieri da ragazzo” (C. Pavese, “Il sentiero dei nidi di ragno”, in “L’Unità”, ed. romana, 26 ottobre 1947, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1962), preme qui ricordare quest’altra sua osservazione:

 

“Diremo allora che l’astuzia di Calvino, scoiattolo della penna, è stata questa, di arrampicarsi sulle piante, più per gioco che per paura, e osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamorosa, variopinta, diversa” (Ivi).

 

.

G. Pagano, Copertura a botte a Portigliolo nella Riviera di Ponente

 

Si coglie quindi, insieme all’aura favolistico-letteraria della vicenda raccontata, una puntuale anticipazione del destino calviniano di guardar la realtà dal basso – come nella regressione dello sguardo e dello sboccato eloquio di Pin – o dall’alto, da alberi su cui si sale ancora per capriccio e a cui si resterà fedeli per assunta scelta di vita, come avverrà ne Il barone rampante. La luminosa profezia pavesiana s’invera per Calvino nel 1957. Nello stesso anno della pubblicazione, sul fascicolo XX di “Botteghe Oscure”, de La speculazione edilizia, la favola del Barone appare antidoto regressivo – o neo-anarchico – alla costruzione seriale e speculativa, a sottolineare anche nel prosieguo della sua opera la trama dell’impegno attraverso la modalità della finzione fantastica.

 

Incrociando osservazioni e sperimentazioni adolescenziali con il filtro poetico della visione montaliana: “Montale [...] è stato il mio poeta e continua ad esserlo [...] Poi sono ligure, quindi ho imparato a leggere il mio paesaggio anche attraverso i libri di Montale” (Italo Calvino, Intervista su “Mondoperaio”, XXXII, 6, giugno 1979, cit. da Prefazione 1964, p. XXXI), il romanzo di Calvino coglie, nel delineare lo spazio antropizzato e il contesto narrativo de Il sentiero, la presenza di una dimensione “vernacolare” e popolare sanremese – quella dei carrugi e dei sentieri – da contrapporre alla tipologia internazionale della vacanza in villa, prima dell’ulteriore trasformazione “ideologica” dell’orizzonte ligure:

 

“L’estate in cui cominciavo a prender gusto alla giovinezza era il 1938: finì con Chamberlain e Hitler e Mussolini a Monaco. La ‘belle époque’ della Riviera era finita [...] Con la guerra, San Remo cessò d’essere quel punto d’incontro cosmopolita che era da un secolo (lo cessò per sempre; nel dopoguerra divenne un pezzo di periferia milan-torinese) e ritornarono in primo piano le sue caratteristiche di vecchia cittadina ligure. Fu, insensibilmente, anche un cambiamento d’orizzonti” (I. Calvino, Risposta al questionario de “Il paradosso”, V, 23-24, settembre-dicembre 1960, cit. da Prefazione 1964, p. XXXI).

 

La recensione di Pavese fa riflettere sulle “congiunzioni” da evidenziare nel romanzo del giovane Calvino: apologo favolistico, rivisitazione della propria esperienza di lotta partigiana attraverso l’elaborazione di una falsa regressione, strumento di percezione della realtà come luogo della visione – fondale su cui stagliare o, più spesso, da cui ritagliare figurine –, macchina e meccanismo del tempo attraverso cui muoversi. Pin non è dunque lontano dai protagonisti de I nostri antenati e il suo casuale confluire nella vicenda resistenziale è liberazione – più che riflesso autobiografico –, nonché prefigurazione di una visione della Storia quale esprimerà Calvino nel settecentismo alla Candide de Il barone rampante. Sotto il manto dell’inverosimiglianza e della veloce trasfigurazione di vicende personali e collettive, ricompare la Storia come spazio e tempo delle scelte, sia nel dipanarsi polisemico della narrazione sia nella compattezza dell’analisi politica.

 

Isolata anche nel tono dal resto del romanzo, l’allocuzione ideologica si concentra nel capitolo IX, con le riflessioni del commissario Kim. Centrale deuteragonista del romanzo, “doppio” di Pin e altra voce dell’isolamento provato dal giovane Calvino, sguardo intellettuale ancora estraneo al dispiegarsi continuo dei fatti sul terreno – come poi avviene nell’opera del narratore sanremese –, questa figura non può non ricordare l’omonimo romanzo di Kipling e il “primo vero piacere della lettura d'un vero libro” provato da Calvino, i Libri della Giungla, tanto da farsi citazione palese del giovane anglo-indiano nel turbamento della notte prima della battaglia:

 

“Abbiamo ancora la testa piena di miracoli e di magie, pensa Kim. Ogni tanto gli sembra di camminare in un mondo di simboli, come il piccolo Kim in mezzo all’India, nel libro di Kipling tante volte riletto da ragazzo” (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947, cit., p. 116). “Composito” e “spurio”, il romanzo di Calvino, nelle parole dello stesso autore, ma tanto più significativo poiché risulta oggi problematico e periclitante ciò che egli riteneva socialmente acquisito nella Prefazione del 1964, tanto da potersene distaccare in chiave di rilettura critica. Gli sembrava “ormai lontano” il “senso di questa polemica” sulla “rispettabilità” della Resistenza, che era stata una delle componenti dialettiche insite nel romanzo:

 

“Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata” (I. Calvino, Prefazione 1964, p. XIII). E il senso della Storia si evidenzia così per Kim:

 

“Ferriera mugola nella barba:- Quindi, lo spirito dei nostri... e quello della brigata nera... la stessa cosa?... - La stessa cosa [...]; - la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. [...] C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo [...] L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e a perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali” (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947, cit., p. 115).

 

.

A. Tosi, Paesaggio con ponte, 1933.
Olio su tavola, 89 x 69 cm. Fondazione Cariplo, Milano

 

Lettura dei tempi, e delle scelte esistenziali, ribadita dall’autore anni dopo, spiegando lo spirito della lotta partigiana:

 

“[...] una attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia sulla stessa propria fierezza guerriera, di senso di incarnare la vera autorità e di autoironia sulla situazione in cui ci si trovava a incarnarla [...] A distanza di tanti anni, devo dire che questo spirito, che permise ai partigiani di fare le cose meravigliose che fecero, resta ancor oggi, per muoversi nella contrastata realtà del mondo, un atteggiamento umano senza pari” (I. Calvino, Risposta all’inchiesta La generazione degli anni difficili, Laterza, Bari 1962, cit. da Prefazione 1964, p. XXXIII).

 

Abbozzate figure di paese o di entroterra ligure, duplicità e voluta ambiguità dello sguardo narrante, allontanarsi dal manicheismo – i percorsi personali dei partigiani non sono necessariamente migliori e più coerenti di quelli dei nazi-fascisti – rendono il romanzo un’entità picaresca nella letteratura resistenziale, matrice aperta dell’opera calviniana.

 

Ma il libro testimonia innanzitutto una posizione storica e politica. Non vi è traccia di obbligo, per i “resistenti”, di essere ontologicamente diversi e migliori degli avversari contro cui si combatte, non si cede al ricatto morale in base al quale ci si rivolta solo se si è incorrotti portatori di una umanità intrinsecamente superiore. Kim, a cui il libro è dedicato, e l’autore, nella Prefazione del 1964, ricordano che resistere è una scelta politica, un’operazione tecnica e un contributo umano, indipendentemente dalle miserie del singolo. Così come in un racconto di poco anteriore, La stessa cosa del sangue, Calvino ripercorre la propria vicenda familiare – l’impegno partigiano con il fratello minore Floriano e la sorveglianza dei genitori da parte dei tedeschi – con parole inequivocabili:

 

“Ma ora i due fratelli avevano una cosa in comune [...] La lotta, l’odio per i fascisti non erano più come prima, per il maggiore una cosa imparata sui libri, ritrovata come per caso nella vita, per il minore una bravata, un girare per le mulattiere carico di bombe a spaventare le ragazze, erano ormai la stessa cosa del sangue, una cosa profonda in loro come il senso della madre, una cosa decisa una volta per tutte, che li avrebbe accompagnati per la vita” (I. Calvino, La stessa cosa del sangue, cit. dalla raccolta Ultimo viene il corvo, Einaudi, Torino 1949, p. 85).

 

Attraverso il ricorso a personaggi e a situazioni non lontane dall’universo della fiaba, poi così familiare a Calvino, il libro è testimonianza dell’impegno dell’autore. Il giovane “avanguardista” del racconto ambientato a Mentone successivo nella scrittura ma antecedente nell’esperienza esistenziale , prima perplesso e poi disgustato dall’atteggiamento dei compagni, rappresenta un atteggiamento a-fascista che diverrà, nel corso della guerra, un impegno antifascista da parte di Calvino.

 

Se il bisogno di raccontare la partecipazione alla guerra si esprime attraverso l’artificio della “regressione”, che consente di descrivere frammenti del conflitto con gli occhi e le parole di un ragazzo, il giovane Pin vive drammatiche esperienze di formazione senza poter attribuire senso storico o politico alla propria presenza in quello strano gruppo di partigiani che affrontano tedeschi e fascisti nell’entroterra ligure, mentre la vicenda narrativa tende a rovesciare l’immagine luminosa della Riviera, come nell’incipit del romanzo:

 

“Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde […]”.

 

 

.

G. Pagano, Gruppo rurale presso Rossiglione nell’Alta Liguria

 

In un itinerario lungo la Riviera che si fa dimensione esistenziale e ideologica alla ricerca della consapevolezza della scrittura e della politica, l’avventura a Mentone del giovane Calvino e la visione della Resistenza attraverso il racconto di Pin entrano allora a pieno titolo nella narrazione di percorsi che sono spazi di vita. Rilettura di quegli anni, e collegamento tra quei luoghi prima e dopo il conflitto, è quanto infine scrive il narratore nella Prefazione all’edizione del 1964 de Il sentiero:

 

“Avevo un paesaggio. Ma per poterlo rappresentare occorreva che esso diventasse secondario rispetto a qualcos’altro: a delle persone, a delle storie. La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui. Lo scenario quotidiano di tutta la mia vita era diventato interamente straordinario e romanzesco: una storia sola si sdipanava dai bui archivolti della Città vecchia fin su ai boschi; era l’inseguirsi e il nascondersi d’uomini armati; anche le ville, riuscivo a rappresentare, ora che le avevo viste requisite e trasformate in corpi di guardia e prigioni; anche i campi di garofani, da quando erano diventati terreni allo scoperto, pericolosi ad attraversare, evocanti uno sgranare di raffiche nell’aria”.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.