N. 107 - Novembre 2016
(CXXXVIII)
Italo
Calvino
e
gli
avanguardisti
spazi,
paesaggi,
conflitti
tra
Mentone
e la
Riviera
di
Ettore
Janulardo
È
nel
1953
che
Italo
Calvino
(1923-1985)
pubblica
per
la
prima
volta
il
racconto
Gli
avanguardisti
a
Mentone.
Le
venticinque
pagine
di
questa
rievocazione
giovanile
sono
comprese
in
un
trittico
apparso
nel
1954,
L’entrata
in
guerra,
che
avrebbe
dovuto
costituire
il
nucleo
centrale
di
un
romanzo
sugli
anni
della
Seconda
guerra
mondiale.
La
vicenda
del
giovane
protagonista
–
figura
attraverso
la
quale
si
esprime
l’esperienza
autobiografica
dell’autore
– si
situa
nel
settembre
1940,
sullo
sfondo
di
una
Riviera
ligure
destinata
a
trasformarsi.
Come
indicato
da
Calvino
in
queste
pagine,
e
anche
in
altre
osservazioni
biografiche
e
critiche,
San
Remo
e i
dintorni
stanno
per
perdere
la
loro
connotazione
di
cosmopolite
stazioni
di
una
selezionata
villeggiatura:
ma
per
adesso,
all’epoca
del
racconto,
il
paesaggio
ligure
non
è
che
lo
sfondo
d’uno
scenario
bellico
–
quello
italo-francese
dell’estate
1940
–
secondario
nel
contesto
del
conflitto
scoppiato
in
Europa.
.
A.
Tosi,
Orto
in
Liguria,
1926.
Olio
su
tela,
70 x
80
cm.
Collezione
privata
Il protagonista è un riflessivo diciassettenne inserito,
come
i
ragazzi
della
sua
età,
in
una
delle
organizzazioni
giovanili
fasciste,
gli
“Avanguardisti”.
Mentre
continua
a
trascorrere
giornate
tranquille
nelle
stradine
di
San
Remo
–
ove
persino
l’oscuramento
sembra
favorire
piacevoli
scoperte
durante
le
uscite
serali
–,
il
giovane
comincia
a
conoscere
alcuni
aspetti
della
situazione
bellica
e ha
modo
di
osservare
flussi
di
rifugiati
italiani
che
lasciano
le
proprie
case,
troppo
vicine
a
luoghi
di
azione
militare,
per
trovano
un
riparo
più
sicuro.
E
quando
nel
racconto
si
sottolinea
che
le
abitazioni
e i
beni
di
questi
profughi
non
sono
risparmiati
da
saccheggi
di
gente
disposta
a
tutto,
assistiamo
all’introduzione
di
una
nota
drammatica
in
un
contesto
altrimenti
quasi
vacanziero.
È
attraverso
una
sorta
di
escursione
in
gruppo
che
il
protagonista
della
vicenda
incontra
direttamente
i
luoghi
toccati
dalla
guerra
e
dalla
storia:
non
potrà
che
restar
colpito
da
questa
esperienza,
anche
se
non
si
tratta
per
il
momento
che
di
un
primo
grado
di
presa
di
coscienza.
Nel
racconto,
i
fascisti
reclutano
“avanguardisti”
da
portare
a Mentone.
La
città
è
stata
annessa
all’Italia
dopo
le
operazioni
militari
iniziate
nel
1940,
ma
resta
ancora
un
luogo
inaccessibile
ai
civili:
potervi
entrare
costituisce
così
un’occasione
privilegiata,
anche
se
ci
si
limiterà
a
una
sorta
di
parata
alla
stazione
ferroviaria
nell’attesa
dell’arrivo
di
una
delegazione
di
giovani
falangisti
spagnoli.
.
G.
Pagano,
Tetto
a
cupola
a
Varigotti
nella
Riviera
Ligure
Dopo
aver
iscritto
anche
il
suo
amico
Biancone
a
questa
operazione
para-militare,
il
giovane
protagonista-narratore
sale
in
un
torpedone
diretto
a
Mentone.
Sotto
un
cielo
piovoso
il
tragitto
non
invita
ad
una
particolare
festosità,
ma
si
possono
comunque
osservare
gli
esiti
di
alcuni
scontri
a
fuoco
e
scorgere,
protetto
da
un
tunnel,
il
“treno
armato”
offerto
da
Hitler
a
Mussolini.
Si
supera
il
vecchio
posto
di
frontiera,
si
tenta
di
vantare
l’espansione
italiana
verso
occidente,
ma
non
c’è
un’atmosfera
trionfale:
le
truppe
italiane
non
sono
riuscite
ad
impadronirsi
di
Nizza
e la
conquista
di
Mentone
non
riesce
a
soddisfare
il
magniloquente
bellicismo
fascista.
L’arrivo a Mentone segna il confronto con una serie
di
prospettive
differenti.
Dietro
l’ingenuità
di
alcune
domande,
è
immediatamente
posta
la
questione
della
percezione
di
una
collocazione
spaziale
e
temporale
diversa
rispetto
alle
città
italiane.
Pur
distando
pochi
chilometri
da
San
Remo,
i
viali
alberati
di
Mentone
sembrano
avere
qualcosa
di
“estraneo”,
che
farebbe
addirittura
pensare
a
luoghi
del
Nord
Europa,
ancora
ignoti
al
giovane
protagonista:
“Mentone
è
come
Parigi?”,
si
chiede.
La seconda domanda sembra implicare un livello superiore di
riflessione.
Vedere
vecchie
insegne
di
negozi
chiusi
conduce
a
uno
slittamento
verso
la
problematica
temporale:
“La
Francia
appartiene
al
passato?”.
Nel
contesto
storico
del
racconto
la
domanda
del
giovane
“avanguardista”
Calvino
è
meno
innocentemente
superflua
di
quanto
si
potrebbe
credere:
è un
frammento
di
realtà
che
inizia
a
confrontarsi
con
la
propaganda
fascista,
con
la
sottile
ansia
di
comprendere
se i
due
piani
sono
effettivamente
sovrapponibili.
E il
confronto
con
la
“differenza”
francese,
autentica
o
supposta,
non
è
che
una
tappa
di
processo
di
svincolo
rispetto
alle
promesse
e
alle
percezioni
determinate
dal
regime
fascista.
Il soggiorno nella città francese è disorganizzato e privo
di
senso.
Mentre
si
attende
la
comparsa
del
treno
dei
giovani
falangisti
spagnoli
– il
cui
arrivo,
di
volta
in
volta
posticipato,
non
sarà
che
una
presenza
fugace
e
ulteriormente
incongrua
–
gli
“avanguardisti”
italiani
si
abbandonano
a
incoerenti
saccheggi
nelle
case
e
nelle
ville
abbandonate
di
Mentone.
Già
presente
nelle
prime
pagine
della
storia,
torna
in
forze
il
tema
della
depredazione
nella
seconda
parte
del
racconto:
incoraggiato
dai
capi
fascisti,
l’accumulo
di
ogni
tipo
di
oggetto
rubato
diviene
il
vero
scopo
di
questa
strana
“escursione”.
Dopo
lo
stato
d’animo
perplesso
del
narratore
durante
il
viaggio
e
all’arrivo
a
Mentone,
è
rispetto
ai
saccheggi
che
si
evidenzia
un
secondo
momento
forte
di
distacco
di
Calvino
rispetto
ai
compagni.
Rifiutando l’idea stessa di attraversare la città solo per
approfittarne,
il
giovane
vorrebbe
invece
percorrerla
alla
ricerca
di
aspetti
inediti
o di
qualche
“verità”
nascosta:
non
fossero
altro
che
dei
negozi
ove
trovare
sigarette
o un
monumento
alla
“bambina”
Mentone
accolta
da
“madame
la
France”
dopo
il
plebiscito
del
1860.
La
delusione
del
protagonista
si
fa
tanto
più
forte
quando
osserva
l’amico
Biancone
districarsi
bene
nelle
tecniche
del
saccheggio,
accaparrandosi
–
tra
altri
oggetti
– un
ritratto
di Danielle
Darrieux
e un
libro
di Léon
Blum.
Dopo una notte d’incerto riposo, Calvino potrebbe essere
così
l’unico
“avanguardista”
a
tornare
in
Liguria
senza
un
“ricordo”
della
città
occupata.
Ma è
proprio
durante
la
notte
che
il
giovane
protagonista
riunisce
nello
stesso
disgusto
“il
fascismo,
la
guerra
e la
volgarità”
dei
suoi
conoscenti,
giungendo
a
teorizzare
la
valenza
“eroica”
del
suo
atteggiamento:
non
rubare
è un
atto
di
sabotaggio
antifascista.
E il
sabotaggio
si
fa
azione
concreta
quando
infine
Calvino
ruba
la
chiave
del
“New
Club”,
ex
sede
mentonese
di
una
società
inglese
divenuta
“Casa
del
Fascio”
nella
città
occupata.
Diretto
contro
un
edificio
preso
dagli
italiani,
il
furto
diviene
così
una
delle
sole
forme
possibili
di
protesta
nel
corso
della
permanenza
in
Francia.
.
A.
Tosi,
Zoagli,
1928
c.
Olio
su
tela,
70 x
90
cm.
Collezione
privata.
Deposito
presso
la
Collezione
Peggy
Guggenheim,
Venezia
La conclusione del racconto presenta un terzo momento di
distacco
del
protagonista
rispetto
ai
compagni.
Attraverso
poche
frasi
malinconiche
si
traccia
il
percorso
del
torpedone
nella
notte
della
Riviera,
con
uno
sguardo
rivolto
al
mare
agitato:
a
differenza
della
vigilia,
quest’itinerario
non
corrisponde
più
a
un’escursione
da
ragazzi
ma
annuncia
il
confronto
inevitabile
con
la
guerra:
porsi,
da
parte
di
un
“avanguardista”,
domande
sulle
modalità
di
quest’impegno
e
sulle
sue
conseguenze
corrisponde
già
ad
un
allontanamento
dal
fascismo,
al
suo
“tradimento”.
Inserita nel trittico L’entrata in guerra,
che
presenta
un
analogo
spirito
di
partecipazione
curiosa
e
maldestra
agli
eventi
militari
dell’estate
1940,
la
storia
dell’
“escursione”
a
Mentone
acquisisce
un
più
ampio
spessore
se
messa
in
relazione
con
i
personaggi
del
primo
romanzo
dello
scrittore
sanremese.
Sotto
l’impulso
di
un’urgenza
narrativa
e di
una
ridefinizione
ideologica,
Calvino
ha
già
pubblicato
Il
sentiero
dei
nidi
di
ragno.
La
visione
di
lacerti
di
mondo
attraverso
lo
sguardo
di
un
bambino
consente
un’indiretta
testimonianza.
Il
sentiero
dei
nidi
di
ragno
viene
pubblicato
nell’ottobre
del
1947,
ma
si
vuol
qui
riflettere
sull’edizione
del
1964,
riveduta
e
corretta,
e
sulla
Prefazione
del
giugno
di
quell’anno.
Lontano
dalle
pagine
“gappiste”
del
Vittorini
di
Uomini
e no,
e
agli
antipodi
della
geometria
sperimentale
di
Fenoglio
– al
cui
impasto
generazionale
e
linguistico
si
dedica
un
omaggio
alla
fine
della
Prefazione
citata
(“Il
libro
che
la
nostra
generazione
voleva
fare,
adesso
c’è,
e il
nostro
lavoro
ha
un
coronamento
e un
senso,
e
solo
ora,
grazie
a
Fenoglio,
possiamo
dire
che
una
stagione
è
compiuta,
solo
ora
siamo
certi
che
è
veramente
esistita:
la
stagione
che
va
dal
Sentiero
dei
nidi
di
ragno
a
Una
questione
privata”:
I.
Calvino,
Prefazione
1964,
p.
XXIII,
a
Il
sentiero
dei
nidi
di
ragno,
1947,
cit.
dall’ed.
Mondadori,
Milano
1993)
– il
primo
romanzo
di
un
Calvino
ventitreenne
decontestualizza
e
priva
di
aura
mitica
la
scena
della
lotta
partigiana,
cui
sembrano
aderire
personaggi
grotteschi
e
imperfetti,
sbandata
divisione
di
combattenti
raffigurati
attraverso
gli
occhi
di
un
ragazzino
in
un
clima
sospeso
tra
favola
e
impegno.
Così
nella
prima
pagina:
“Basta
un
grido
di
Pin,
un
grido
per
incominciare
una
canzone,
a
naso
all’aria
sulla
soglia
della
bottega,
o un
grido
cacciato
prima
che
la
mano
di
Pietromagro
il
ciabattino
gli
sia
scesa
tra
capo
e
collo
per
picchiarlo,
perché
dai
davanzali
nasca
un’eco
di
richiami
e
d’insulti”
(I.
Calvino,
Il
sentiero
dei
nidi
di
ragno,
1947,
cit.,
p.
3).
Se
alla
lotta
politica
si
può
arrivare
anche
per
caso,
o
per
dispetto
o
capriccio,
non
si
dimentica
che
lo
sfondo
dei
carrugi
è
piano
inclinato
lungo
il
quale
scivola
la
Storia,
fatta
di
debolezze
e
violenze,
di
certezze
e
viltà:
“Poi
ci
sono
gli
orti
e le
immondizie
e le
case:
e
arrivando
lì
Pin
sente
delle
voci
non
italiane
che
parlano.
C’è
il
coprifuoco
ma
lui
spesso
gira
lo
stesso
di
notte
perché
è un
bambino
e le
pattuglie
non
gli
dicono
niente”
(Ibid.,
p.
26).
Corrispettivo
dell’avanguardista
chiamato
a
una
precaria
opera
di
assistenza
agli
sfollati,
nel
racconto
L’entrata
in
guerra
–
diviso
tra
l’imbarazzo
della
gerarchia
e il
desiderio
di
rendersi
utile
–,
Pin
s’improvvisa
protagonista
di
vicende
che
non
può
comprendere.
In
un
romanzo
caratterizzato
dalla
discontinuità
stilistica
e da
personaggi
ambigui
o
poco
verosimili
–
più
maschere
e
“tipi”
che
entità
vive
–,
il
paese
e i
paesaggi
si
sfrangiano
nella
narrazione
calviniana,
che
sublima
spazi
e
tensioni
e
battaglie,
mentre
la
nettezza
classificatoria
delle
definizioni
infantili
riporta
alla
luce
gerarchie
di
violenza:
“I
tedeschi
sono
peggio
delle
guardie
municipali.
Con
le
guardie,
se
non
altro,
ci
si
poteva
mettere
a
scherzare,
dire:
- Se
mi
lasciate
libero
vi
faccio
andare
a
letto
gratis
con
mia
sorella.
Invece
i
tedeschi
non
capiscono
quello
che
si
dice,
i
fascisti
sono
gente
sconosciuta,
gente
che
non
sa
nemmeno
chi
è la
sorella
di
Pin.
Sono
due
razze
speciali:
quanto
i
tedeschi
sono
rossicci,
carnosi,
imberbi,
tanto
i
fascisti
sono
neri,
ossuti,
con
le
facce
bluastre
e i
baffi
da
topo”
(Ibid.,
p.
27).
Se
Pavese
aveva
evidenziato
“un
sapore
ariostesco”
nel
libro:
“Ma
l’Ariosto
dei
nostri
tempi
si
chiama
Stevenson,
Kipling,
Dickens,
Nievo,
e si
traveste
volentieri
da
ragazzo”
(C.
Pavese,
“Il
sentiero
dei
nidi
di
ragno”,
in
“L’Unità”,
ed.
romana,
26
ottobre
1947,
ora
in
C.
Pavese,
La
letteratura
americana
e
altri
saggi,
Einaudi,
Torino
1962),
preme
qui
ricordare
quest’altra
sua
osservazione:
“Diremo
allora
che
l’astuzia
di
Calvino,
scoiattolo
della
penna,
è
stata
questa,
di
arrampicarsi
sulle
piante,
più
per
gioco
che
per
paura,
e
osservare
la
vita
partigiana
come
una
favola
di
bosco,
clamorosa,
variopinta,
diversa” (Ivi).
.
G.
Pagano,
Copertura
a
botte
a
Portigliolo
nella
Riviera
di
Ponente
Si
coglie
quindi,
insieme
all’aura
favolistico-letteraria
della
vicenda
raccontata,
una
puntuale
anticipazione
del
destino
calviniano
di
guardar
la
realtà
dal
basso
–
come
nella
regressione
dello
sguardo
e
dello
sboccato
eloquio
di
Pin
– o
dall’alto,
da
alberi
su
cui
si
sale
ancora
per
capriccio
e a
cui
si
resterà
fedeli
per
assunta
scelta
di
vita,
come
avverrà
ne
Il
barone
rampante.
La
luminosa
profezia
pavesiana
s’invera
per
Calvino
nel
1957.
Nello
stesso
anno
della
pubblicazione,
sul
fascicolo XX
di
“Botteghe
Oscure”,
de
La
speculazione
edilizia,
la
favola
del
Barone
appare
antidoto
regressivo
– o
neo-anarchico
–
alla
costruzione
seriale
e
speculativa,
a
sottolineare
anche
nel
prosieguo
della
sua
opera
la
trama
dell’impegno
attraverso
la
modalità
della
finzione
fantastica.
Incrociando
osservazioni
e
sperimentazioni
adolescenziali
con
il
filtro
poetico
della
visione
montaliana:
“Montale
[...]
è
stato
il
mio
poeta
e
continua
ad
esserlo
[...]
Poi
sono
ligure,
quindi
ho
imparato
a
leggere
il
mio
paesaggio
anche
attraverso
i
libri
di
Montale”
(Italo
Calvino,
Intervista
su “Mondoperaio”,
XXXII,
6,
giugno
1979,
cit.
da
Prefazione
1964,
p.
XXXI),
il
romanzo
di
Calvino
coglie,
nel
delineare
lo
spazio
antropizzato
e il
contesto
narrativo
de
Il
sentiero,
la
presenza
di
una
dimensione
“vernacolare”
e
popolare
sanremese
–
quella
dei
carrugi
e
dei
sentieri
– da
contrapporre
alla
tipologia
internazionale
della
vacanza
in
villa,
prima
dell’ulteriore
trasformazione
“ideologica”
dell’orizzonte
ligure:
“L’estate
in
cui
cominciavo
a
prender
gusto
alla
giovinezza
era
il
1938:
finì
con
Chamberlain
e
Hitler
e
Mussolini
a
Monaco.
La
‘belle
époque’
della
Riviera
era
finita
[...]
Con
la
guerra,
San
Remo
cessò
d’essere
quel
punto
d’incontro
cosmopolita
che
era
da
un
secolo
(lo
cessò
per
sempre;
nel
dopoguerra
divenne
un
pezzo
di
periferia
milan-torinese)
e
ritornarono
in
primo
piano
le
sue
caratteristiche
di
vecchia
cittadina
ligure.
Fu,
insensibilmente,
anche
un
cambiamento
d’orizzonti”
(I.
Calvino,
Risposta
al
questionario
de
“Il
paradosso”,
V,
23-24,
settembre-dicembre
1960,
cit.
da
Prefazione
1964,
p.
XXXI).
La
recensione
di
Pavese
fa
riflettere
sulle
“congiunzioni”
da
evidenziare
nel
romanzo
del
giovane
Calvino:
apologo
favolistico,
rivisitazione
della
propria
esperienza
di
lotta
partigiana
attraverso
l’elaborazione
di
una
falsa
regressione,
strumento
di
percezione
della
realtà
come
luogo
della
visione
–
fondale
su
cui
stagliare
o,
più
spesso,
da
cui
ritagliare
figurine
–,
macchina
e
meccanismo
del
tempo
attraverso
cui
muoversi.
Pin
non
è
dunque
lontano
dai
protagonisti
de
I
nostri
antenati
e il
suo
casuale
confluire
nella
vicenda
resistenziale
è
liberazione
–
più
che
riflesso
autobiografico
–,
nonché
prefigurazione
di
una
visione
della
Storia
quale
esprimerà
Calvino
nel
settecentismo
alla
Candide
de
Il
barone
rampante.
Sotto
il
manto
dell’inverosimiglianza
e
della
veloce
trasfigurazione
di
vicende
personali
e
collettive,
ricompare
la
Storia
come
spazio
e
tempo
delle
scelte,
sia
nel
dipanarsi
polisemico
della
narrazione
sia
nella
compattezza
dell’analisi
politica.
Isolata
anche
nel
tono
dal
resto
del
romanzo,
l’allocuzione
ideologica
si
concentra
nel
capitolo
IX,
con
le
riflessioni
del
commissario
Kim.
Centrale
deuteragonista
del
romanzo,
“doppio”
di
Pin
e
altra
voce
dell’isolamento
provato
dal
giovane
Calvino,
sguardo
intellettuale
ancora
estraneo
al
dispiegarsi
continuo
dei
fatti
sul
terreno
–
come
poi
avviene
nell’opera
del
narratore
sanremese
–,
questa
figura
non
può
non
ricordare
l’omonimo
romanzo
di
Kipling
e il
“primo
vero
piacere
della
lettura
d'un
vero
libro”
provato
da
Calvino,
i
Libri
della
Giungla,
tanto
da
farsi
citazione
palese
del
giovane
anglo-indiano
nel
turbamento
della
notte
prima
della
battaglia:
“Abbiamo
ancora
la
testa
piena
di
miracoli
e di
magie,
pensa
Kim.
Ogni
tanto
gli
sembra
di
camminare
in
un
mondo
di
simboli,
come
il
piccolo
Kim
in
mezzo
all’India,
nel
libro
di
Kipling
tante
volte
riletto
da
ragazzo”
(I.
Calvino,
Il
sentiero
dei
nidi
di
ragno,
1947,
cit.,
p.
116).
“Composito”
e
“spurio”,
il
romanzo
di
Calvino,
nelle
parole
dello
stesso
autore,
ma
tanto
più
significativo
poiché
risulta
oggi
problematico
e
periclitante
ciò
che
egli
riteneva
socialmente
acquisito
nella
Prefazione
del
1964,
tanto
da
potersene
distaccare
in
chiave
di
rilettura
critica.
Gli
sembrava
“ormai
lontano”
il
“senso
di
questa
polemica”
sulla
“rispettabilità”
della
Resistenza,
che
era
stata
una
delle
componenti
dialettiche
insite
nel
romanzo:
“Direi
che
volevo
combattere
contemporaneamente
su
due
fronti,
lanciare
una
sfida
ai
detrattori
della
Resistenza
e
nello
stesso
tempo
ai
sacerdoti
d’una
Resistenza
agiografica
ed
edulcorata” (I.
Calvino,
Prefazione
1964,
p.
XIII).
E il
senso
della
Storia
si
evidenzia
così
per
Kim:
“Ferriera
mugola
nella
barba:-
Quindi,
lo
spirito
dei
nostri...
e
quello
della
brigata
nera...
la
stessa
cosa?... -
La
stessa
cosa
[...];
- la
stessa
cosa
ma
tutto
il
contrario.
Perché
qui
si è
nel
giusto,
là
nello
sbagliato.
Qua
si
risolve
qualcosa,
là
ci
si
ribadisce
la
catena.
[...]
C’è
che
noi,
nella
storia,
siamo
dalla
parte
del
riscatto,
loro
dall’altra.
Da
noi,
niente
va
perduto,
nessun
gesto,
nessuno
sparo
[...]
L’altra
è la
parte
dei
gesti
perduti,
degli
inutili
furori,
perduti
e
inutili
anche
se
vincessero,
perché
non
fanno
storia,
non
servono
a
liberare
ma a
ripetere
e a
perpetuare
quel
furore
e
quell’odio,
finché
dopo
altri
venti
o
cento
o
mille
anni
si
tornerebbe
così,
noi
e
loro,
a
combattere
con
lo
stesso
odio
anonimo
negli
occhi
e
pur
sempre,
forse
senza
saperlo,
noi
per
redimercene,
loro
per
restarne
schiavi.
Questo
è il
significato
della
lotta,
il
significato
vero,
totale,
al
di
là
dei
vari
significati
ufficiali”
(I.
Calvino,
Il
sentiero
dei
nidi
di
ragno,
1947,
cit.,
p.
115).
.
A.
Tosi,
Paesaggio
con
ponte,
1933.
Olio
su
tavola,
89 x
69
cm.
Fondazione
Cariplo,
Milano
Lettura
dei
tempi,
e
delle
scelte
esistenziali,
ribadita
dall’autore
anni
dopo,
spiegando
lo
spirito
della
lotta
partigiana:
“[...]
una
attitudine
a
superare
i
pericoli
e le
difficoltà
di
slancio,
un
misto
di
fierezza
guerriera
e
autoironia
sulla
stessa
propria
fierezza
guerriera,
di
senso
di
incarnare
la
vera
autorità
e di
autoironia
sulla
situazione
in
cui
ci
si
trovava
a
incarnarla
[...]
A
distanza
di
tanti
anni,
devo
dire
che
questo
spirito,
che
permise
ai
partigiani
di
fare
le
cose
meravigliose
che
fecero,
resta
ancor
oggi,
per
muoversi
nella
contrastata
realtà
del
mondo,
un
atteggiamento
umano
senza
pari”
(I.
Calvino,
Risposta
all’inchiesta
La
generazione
degli
anni
difficili,
Laterza,
Bari
1962,
cit.
da
Prefazione
1964, p.
XXXIII).
Abbozzate
figure
di
paese
o di
entroterra
ligure,
duplicità
e
voluta
ambiguità
dello
sguardo
narrante,
allontanarsi
dal
manicheismo
– i
percorsi
personali
dei
partigiani
non
sono
necessariamente
migliori
e
più
coerenti
di
quelli
dei
nazi-fascisti
–
rendono
il
romanzo
un’entità
picaresca
nella
letteratura
resistenziale,
matrice
aperta
dell’opera
calviniana.
Ma
il
libro
testimonia
innanzitutto
una
posizione
storica
e
politica.
Non
vi è
traccia
di
obbligo,
per
i
“resistenti”,
di
essere
ontologicamente
diversi
e
migliori
degli
avversari
contro
cui
si
combatte,
non
si
cede
al
ricatto
morale
in
base
al
quale
ci
si
rivolta
solo
se
si è
incorrotti
portatori
di
una
umanità
intrinsecamente
superiore.
Kim,
a
cui
il
libro
è
dedicato,
e
l’autore,
nella
Prefazione
del
1964,
ricordano
che
resistere
è
una
scelta
politica,
un’operazione
tecnica
e un
contributo
umano,
indipendentemente
dalle
miserie
del
singolo.
Così
come
in
un
racconto
di
poco
anteriore,
La
stessa
cosa
del
sangue,
Calvino
ripercorre
la
propria
vicenda
familiare
–
l’impegno
partigiano
con
il
fratello
minore
Floriano
e la
sorveglianza
dei
genitori
da
parte
dei
tedeschi
–
con
parole
inequivocabili:
“Ma
ora
i
due
fratelli
avevano
una
cosa
in
comune
[...]
La
lotta,
l’odio
per
i
fascisti
non
erano
più
come
prima,
per
il
maggiore
una
cosa
imparata
sui
libri,
ritrovata
come
per
caso
nella
vita,
per
il
minore
una
bravata,
un
girare
per
le
mulattiere
carico
di
bombe
a
spaventare
le
ragazze,
erano
ormai
la
stessa
cosa
del
sangue,
una
cosa
profonda
in
loro
come
il
senso
della
madre,
una
cosa
decisa
una
volta
per
tutte,
che
li
avrebbe
accompagnati
per
la
vita”
(I.
Calvino,
La
stessa
cosa
del
sangue,
cit.
dalla
raccolta
Ultimo
viene
il
corvo,
Einaudi,
Torino
1949,
p.
85).
Attraverso
il
ricorso
a
personaggi
e a
situazioni
non
lontane
dall’universo
della
fiaba,
poi
così
familiare
a
Calvino,
il
libro
è
testimonianza
dell’impegno
dell’autore.
Il
giovane
“avanguardista”
del
racconto
ambientato
a Mentone
–
successivo nella scrittura ma antecedente nell’esperienza esistenziale
–, prima perplesso e poi disgustato dall’atteggiamento
dei
compagni,
rappresenta
un
atteggiamento
a-fascista
che
diverrà,
nel
corso
della
guerra,
un
impegno
antifascista
da
parte
di
Calvino.
Se
il
bisogno
di
raccontare
la
partecipazione
alla
guerra
si
esprime
attraverso
l’artificio
della
“regressione”,
che
consente
di
descrivere
frammenti
del
conflitto
con
gli
occhi
e le
parole
di
un
ragazzo,
il
giovane
Pin
vive
drammatiche
esperienze
di
formazione
senza
poter
attribuire
senso
storico
o
politico
alla
propria
presenza
in
quello
strano
gruppo
di
partigiani
che
affrontano
tedeschi
e
fascisti
nell’entroterra
ligure,
mentre
la
vicenda
narrativa
tende
a
rovesciare
l’immagine
luminosa
della
Riviera,
come
nell’incipit
del
romanzo:
“Per
arrivare
fino
in
fondo
al
vicolo,
i
raggi
del
sole
devono
scendere
diritti
rasente
le
pareti
fredde,
tenute
discoste
a
forza
d’arcate
che
traversano
la
striscia
di
cielo
azzurro
carico.
Scendono
diritti,
i
raggi
del
sole,
giù
per
le
finestre
messe
qua
e là
in
disordine
sui
muri,
e
cespi
di
basilico
e di
origano
piantati
dentro
pentole
ai
davanzali,
e
sottovesti
stese
appese
a
corde
[…]”.
.
G. Pagano,
Gruppo
rurale
presso
Rossiglione
nell’Alta
Liguria
In un itinerario lungo la Riviera che si fa dimensione esistenziale
e
ideologica
alla
ricerca
della
consapevolezza
della
scrittura
e
della
politica,
l’avventura
a Mentone
del
giovane
Calvino
e la
visione
della
Resistenza
attraverso
il
racconto
di
Pin
entrano
allora
a
pieno
titolo
nella
narrazione
di
percorsi
che
sono
spazi
di
vita.
Rilettura
di
quegli
anni,
e
collegamento
tra
quei
luoghi
prima
e
dopo
il
conflitto,
è
quanto
infine
scrive
il
narratore
nella
Prefazione
all’edizione
del
1964
de
Il
sentiero:
“Avevo
un
paesaggio.
Ma
per
poterlo
rappresentare
occorreva
che
esso
diventasse
secondario
rispetto
a
qualcos’altro:
a
delle
persone,
a
delle
storie.
La
Resistenza
rappresentò
la
fusione
tra
paesaggio
e
persone.
Il
romanzo
che
altrimenti
mai
sarei
riuscito
a
scrivere,
è
qui.
Lo
scenario
quotidiano
di
tutta
la
mia
vita
era
diventato
interamente
straordinario
e
romanzesco:
una
storia
sola
si
sdipanava
dai
bui
archivolti
della
Città
vecchia
fin
su
ai
boschi;
era
l’inseguirsi
e il
nascondersi
d’uomini
armati;
anche
le
ville,
riuscivo
a
rappresentare,
ora
che
le
avevo
viste
requisite
e
trasformate
in
corpi
di
guardia
e
prigioni;
anche
i
campi
di
garofani,
da
quando
erano
diventati
terreni
allo
scoperto,
pericolosi
ad
attraversare,
evocanti
uno
sgranare
di
raffiche
nell’aria”.