N. 60 - Dicembre 2012
(XCI)
CALENDARI MAYA
Perché il mondo non finirà il 21 dicembre 2012
di Greta Fogliani
Gli
antichi
Maya
possono
essere
considerati
come
una
civiltà
per
certi
versi
paradossale,
secondo
il
nostro
punto
di
vista.
Se
nelle
attività
pratiche
erano
un
“disastro”,
nelle
materie
teoriche
erano
invece
dei
veri
geni:
non
seppero
mai
cos’era
una
ruota,
eppure
erano
in
grado
di
disegnare
una
carta
astronomica;
non
erano
capaci
di
pesare
un
sacco
di
granoturco,
ma
riuscirono
a
calcolare
il
computo
di
milioni
di
anni.
Una
ragione
plausibile
per
spiegare
questa
“aberrazione
mentale”,
come
la
definisce
J.E.S.
Thompson,
uno
dei
più
grandi
studiosi
di
questa
civiltà,
si
può
trovare
nell’interesse
principale
dei
Maya:
il
tempo.
Più
che
interesse
si
potrebbe
chiamare
quasi
ossessione.
I
Maya
non
solo
erano
affascinati
dal
continuo
trascorrere
delle
giornate
e
dall’eternità
del
tempo,
ma
arrivarono
a
fare
del
computo
dei
giorni
un
perno
della
vita
quotidiana.
giornata
aveva
un
significato
religioso,
tant’è
che
i
membri
della
comunità
regolavano
le
proprie
mansioni
a
seconda
del
tipo
di
giornata.
I
giorni,
infatti,
erano
concepiti
come
vere
e
proprie
divinità,
che
favorivano
oppure
ostacolavano
determinate
attività.
Ognuno,
quindi,
doveva
conoscere
con
precisione
i
giorni
favorevoli
e i
giorni
nefasti
per
avere
il
favore
degli
dèi.
A
dimostrazione
che
il
computo
del
tempo
era
la
preoccupazione
principale
di
questo
popolo
è il
fatto
che
i
Maya
non
avevano
un
solo
calendario,
ma
due:
lo
Tzolk’in
e l’Haab.
Lo
Tzolk’in,
il
calendario
più
antico
della
Mesoamerica
(probabilmente
di
origine
olmeca),
determinava
il
ciclo
rituale
che
serviva
per
le
funzioni
religiose.
Il
suo
nome
deriva
da
Tzol,
“conto”,
“ordine
dei
giorni”
e
K’in,
ossia
“giorno”,
e
quindi
significa
letteralmente
“conto
dei
giorni”.
In
tutto,
lo
Tzolk’in
era
composto
da
260
giorni
e si
basava
su
altri
due
cicli,
più
brevi:
uno
composto
da
cifre
da 1
a 13
e un
altro
composto
da
20
giorni.
Dunque
i
nomi
dei
giorni
dello
Tzolk’in
si
componevano
premettendo
un
numero
dall’1
al
13
al
nome
di
uno
dei
20
giorni.
A
ognuno
dei
20
giorni
corrispondeva
un
glifo,
legato
alla
divinità
che
patrocinava
quella
determinata
giornata.
Questi
20
giorni
erano:
1.
Imix,
il
primo
giorno
del
calendario
rituale,
era
dedicato
a
una
divinità
femminile,
probabilmente
una
dea
madre
della
fertilità.
2.
Ik’,
il
nome
del
secondo
giorno,
significa
“vento”.
Questa
giornata
era
connessa
con
la
pioggia
fertilizzante
che
permetteva
la
nascita
del
mais,
ma
era
legata
anche
al
dio
del
vento
Kukulkan,
inteso
come
soffio
vitale,
spirito
e
voce.
3.
Ak’bal,
il
terzo
giorno,
era
associato
alla
notte
e a
esseri
legati
a
questo
momento
della
giornata,
come
il
dio
giaguaro,
che
rappresentava
il
cammino
notturno
del
sole,
e il
serpente.
4.
K’an,
il
nome
del
quarto
giorno,
etimologicamente
significa
“corda”,
ma
nel
glifo
di
questo
giorno
compare
un
chicco
di
mais.
Questo
perché
il
glifo
indicava
anche
Yum
Kax,
il
giovane
dio
del
mais,
simbolo
di
abbondanza.
5.
Chikchan,
quinto
giorno,
rappresentava
il
serpente
piumato
e il
pianeta
Venere,
concepito
come
stella
del
mattino.
6.
Kimi,
il
sesto
giorno,
era
patrocinato
dal
dio
della
morte
Yum
Cimil
ed
era
associato
anche
all’uccello
Muan
e ad
altri
volatili
malauguranti.
7.
Manik’,
il
settimo
giorno,
simboleggiava
il
cervo,
poiché
la
divinità
che
presiedeva
a
questo
giorno,
Buluk
Chabtan,
era
il
dio
protettore
della
caccia
e
del
sacrificio
umano,
che
si
presentava
proprio
sotto
forma
di
cervo.
Nel
Popol
Vuh,
il
testo
mitologico
più
importante
della
tradizione
maya,
tale
divinità
corrisponde
a
Tohil,
connesso
con
la
caccia,
la
concia
delle
pelli
e ai
sacrifici
di
sangue.
8.
Lamat,
l’ottavo
giorno,
nel
glifo
presenta
una
stella,
forse
Venere.
La
sua
simbologia
era
connessa
al
coniglio
e a
Venere,
ma
non
si
conosce
con
precisione
la
divinità
a
esso
associata.
9.
Muluk,
il
nono
giorno,
significa
“giada”,
pietra
simbolo
dell’acqua
e
connessa
con
una
figura
mitologica,
Ah
Xoc.
Ma
il
patrono
di
questo
giorno
è
Kinik
Ajaw,
“faccia
di
sole”.
10.
Ok,
il
decimo
giorno,
si
collocava
alla
metà
di
uno
Winal,
una
ventina,
che
era
un
completamento
di
un
ciclo
di
20
giorni.
Il
nome
significa
“cane”,
ed
era
dedicato
a
una
divinità
infera
che
accompagnava
i
morti
nell’aldilà
dei
Maya,
chiamato
Xibalbá.
11.
Chuwen,
nome
dell’undicesimo
giorno,
significa
“scimmia”,
animale
che
rappresentava
Ah
Chicum
Ek,
la
dea
della
stella
polare
che
proteggeva
gli
scribi
e
gli
artisti.
Si
trattava
di
una
divinità
doppia,
raffigurata
anche
come
una
coppia
di
gemelli
che
dipingevano,
intagliavano,
scrivevano
o si
dedicavano
ad
altre
attività
artigianali.
12.
Eb,
dodicesimo
giorno,
era
ritratto
come
un
teschio,
simbolo
della
pioggia.
Eb
era
dedicato
a
una
divinità
nefasta,
probabilmente
Ixchel.
13.
Ben,
il
tredicesimo
giorno,
era
collegato
al
dio
del
mais
che
protegge
la
pianta
nella
prima
fase
di
crescita.
14.
Ix,
nome
del
quattordicesimo
giorno,
deriva
da
un
termine
arcaico
che
indica
il
giaguaro.
15.
Men,
il
quindicesimo
giorno,
era
raffigurato
come
una
testa
di
aquila
o di
un
altro
uccello
rapace
ed
era
associato
alla
fase
decrescente
della
luna.
Forse
era
anche
collegato
alla
dea
dell’arcobaleno,
Ixchel.
16.
Kib,
sedicesimo
giorno,
ha
un
nome
che
potrebbe
significare
“gufo”,
ma
era
dedicato
al
dio
delle
api,
che
garantiva
una
produzione
abbondante
di
miele.
17.
Kaban,
diciassettesimo
giorno
del
calendario,
corrispondeva
alla
testa
di
una
giovane
dea
della
terra,
associata
anche
alla
fase
crescente
della
luna,
al
coniglio,
alla
fecondità
e al
mais.
18.
Etz’nab,
termine
che
designava
il
diciottesimo
giorno,
significa
“coltello
di
ossidiana”,
l’arnese
che
si
usava
nei
sacrifici
umani
e
negli
autosacrifici.
19.
Kawak,
diciannovesimo
giorno
del
calendario,
era
rappresentato
da
nuvole
poiché
il
nome
significa
“pioggia”
o
“tempesta”.
Probabilmente
la
divinità
che
patrocinava
questo
giorno
portava
piogge
e
temporali
distruttori,
opposti
alle
piogge
fertilizzanti.
20.
Ajaw,
l’ultimo
giorno
del
calendario
rituale,
rappresentava
il
volto
del
signore
del
sole.
L’etimologia
del
nome
rimanda
a
“re”,
“signore”,
titolo
che
veniva
usato
anche
per
rivolgersi
ai
sovrani,
ai
sacerdoti
e
alle
divinità.
Questo
giorno
era
dedicato
a
Itzamna
e a
una
divinità
solare,
Kinik
Ajaw,
ovvero
un’altra
forma
di
Itzamna.
In
teoria
il
computo
dei
giorni
dovrebbe
partire
da 1
Imix,
ma
secondo
il
conteggio
mitico
il
primo
giorno
dello
Tzolk’in,
cioè
il
giorno
in
cui
tutto
ebbe
inizio,
è 4
Ajaw.
Da
quest’ultima
data
parte
anche
il
computo
delle
ere
maya,
quello
che
viene
chiamato
il
“conto
lungo”.
1
Imix,
invece,
è il
giorno
di
partenza
del
calcolo
delle
ventine,
chiamate
Winal.
Ogni
giorno
che
passa,
entrambi
i
cicli
avanzano
di
uno:
avremo
dunque
1
Imix,
2 Ik’,
3 Ak’bal,
ecc.,
fino
ad
arrivare
a 13
Ben.
Da
questo
punto
in
poi
la
numerazione
riparte
da
capo,
ma
non
accade
lo
stesso
per
il
nome
dei
giorni;
si
proseguirà
dunque
con
1 Ix,
2
Men,
3
Kib
fino
a 7
Ajaw.
Dopo,
i
nomi
dei
giorni
ricominceranno
da 8
Imix,
mentre
la
numerazione
proseguirà,
e
così
via.
In
questo
modo,
ogni
giorno
assume
tutte
le
volte
che
si
presenta
un
numero
diverso
da 1
a 13
secondo
una
sequenza
sempre
uguale:
1 –
8 –
2 –
9 –
3 –
10 –
4 –
11 –
5 –
12 –
6 –
13 –
7 –
1 –
8
ecc.
Di
conseguenza,
il
lasso
di
tempo
che
passerà
tra
due
giorni
che
presentano
lo
stesso
numero
e lo
stesso
nome
sarà
equivalente
al
minimo
comune
multiplo
tra
13 e
20,
cioè
260
giorni,
ovvero
un
intero
ciclo
Tzolk’in.
Questo
calendario
era
importante
anche
per
registrare
le
date
di
nascita
delle
persone
della
comunità,
annotate
proprio
secondo
lo
Tzolk’in.
A
seconda
del
giorno
in
cui
un
individuo
nasceva,
si
poteva
capire
quale
sarebbe
stato
il
suo
destino.
Dunque
i
Maya
credevano
che
le
caratteristiche
di
quel
dato
giorno
e
della
corrispondente
divinità
protettrice
influissero
sulla
vita
dell’individuo,
un
po’
come
il
nostro
oroscopo
basato
sui
12
segni
zodiacali.
Oltre
allo
Tzolk’in,
però,
i
Maya
avevano
un
altro
calendario,
che
era
legato
al
ciclo
delle
stagioni
e
del
sole:
l’Haab.
Etimologicamente,
il
nome
deriva
da
Ha,
acqua,
quindi
un
significato
plausibile
del
termine
potrebbe
essere
“ciò
che
produce
o
causa
acqua”.
Si
presume
che
l’Haab
fosse
stato
utilizzato
per
la
prima
volta
intorno
al
550
a.
C.,
quando
l’inizio
dell’anno
coincideva
con
il
solstizio
invernale.
Se
lo
Tzolk’in
era
il
calendario
delle
cerimonie
religiose,
l’Haab
aveva
un
valore
civile
e
scandiva
il
tempo
dal
punto
di
vista
agricolo.
L’Haab
era
composto
da
365
giorni,
come
il
nostro
attuale
calendario,
ma
suddivisi
in
modo
diverso:
18
periodi
di
20
giorni
ciascuno,
chiamati
Winal
(Winalob
al
plurale)
costituivano
i
mesi,
ciascuno
dedicato
a
una
divinità;
I
cinque
giorni
rimanenti
si
chiamavano
Wayeb
ed
erano
giorni
infausti
ma
importantissimi,
perché
tesi
alla
preparazione
delle
cerimonie
di
fine
e
inizio
anno.
I
venti
giorni
che
componevano
un
mese
erano
numerati
dallo
0 al
19.
Questo
perché
il
giorno
0 di
ogni
mese
era
considerato
il
giorno
di
insediamento
del
nuovo
mese,
mentre
l’inizio
effettivo
del
mese
si
aveva
con
il
giorno
1.
Dunque,
per
esempio,
il
giorno
0
Pop,
il
primo
dell’anno,
era
considerato
un
giorno
di
transizione,
mentre
il
mese
Pop
iniziava
ufficialmente
con
il
giorno
1
Pop.
Si
può
paragonare
questo
concetto
con
la
cerimonia
dell’intronizzazione
di
un
sovrano.
Il
giorno
0 è
il
momento
in
cui
il
re
viene
incoronato,
ma
il
suo
regno
vero
e
proprio
inizia
dal
giorno
successivo.
Allo
stesso
modo,
ogni
mese
viene
“incoronato”
nel
giorno
0,
ma
il
suo
corso
inizia
solo
con
il
giorno
1.
Come
i
vari
giorni
dello
Tzolk’in,
tutti
i
mesi
dell’Haab
erano
caratterizzati
da
una
divinità
protettrice
e da
cerimonie
peculiari:
1. Pop
era
il
primo
mese
dell’anno,
ed
era
all’insegna
del
rinnovamento,
Per
questo,
tutti
gli
oggetti
d’uso
quotidiano
venivano
cambiati:
si
sostituivano
abiti
vecchi
con
abiti
nuovi,
mentre
altri
oggetti,
come
il
vasellame
o le
stuoie,
venivano
proprio
distrutti.
Le
divinità
connesse
con
questo
mese
erano
due:
il
dio
giaguaro,
rappresentato
anche
nel
glifo
del
mese,
che
era
inteso
come
il
dio
della
terra
(sia
della
superficie
sia
delle
profondità
del
sottosuolo)
e
Mam,
la
divinità
che
simboleggiava
l’anno
e
responsabile
dei
terremoti.
2. Wo,
il
secondo
mese,
era
caratterizzato
da
celebrazioni
in
onore
degli
dèi
patroni
dei
sacerdoti.
Nella
mitologia,
il
nome
di
questo
mese
indicava
le
rane
dei
Chac,
gli
dèi
della
pioggia,
che
con
il
loro
gracidio
annunciavano
imminenti
precipitazioni.
Il
patrono
del
mese,
però,
era
il
giaguaro
dell’inframondo.
3. Sip,
il
nome
del
terzo
mese,
etimologicamente
significa
“un
tempo
di
cielo
chiaro”.
In
questo
periodo
si
svolgevano
feste
in
onore
di
tre
categorie
di
lavoratori:
i
cacciatori,
i
pescatori
e i
medici.
Ognuno
di
questi
gruppi
svolgeva
riti
di
purificazione
che
prevedevano
che
si
dipingessero
di
azzurro
degli
strumenti
tipici
del
proprio
mestiere
e
che
richiedevano
sacrifici
di
sangue,
mediante
la
pratica
di
fori
o di
taglietti
nei
lobi
delle
orecchie.
Il
patrono
del
mese
era
una
divinità
dalle
sembianze
serpentine,
simile
a
Kukulkan.
4. Sotz’,
il
quarto
mese,
è
rappresentato
da
un
glifo
raffigurante
un
pipistrello.
Effettivamente,
nel
Popol
Vuh
si
parla
di
un
enorme
pipistrello,
Camatzotz,
che
è
connesso
con
la
morte.
Il
patrono
di
Sotz’
era
un
pesce,
chiamato
Xoc.
5. Sek,
il
quinto
mese,
aveva
come
dèi
protettori
i
quattro
Bacab,
specialmente
il
Bacab
rosso,
corrispondente
all’est,
chiamato
Hobnil
Bacab.
Le
cerimonie
di
questo
periodo
erano
dedicate
al
dio
delle
api,
insetti
importantissimi
per
la
produzione
del
miele,
sostanza
che
i
Maya
adoperavano
per
ottenere
l’idromiele.
Questo
importante
alcolico
era
usato
sia
per
i
suoi
effetti
curativi,
sia
perché
era
ritenuto
magico
a
causa
delle
visioni
che
ispirava.
6. Xul,
il
nome
del
sesto
mese,
significa
letteralmente
“piantatoio
per
il
mais”,
un
attrezzo
che
si
usava
per
seminare
i
chicchi
di
mais.
Dunque,
questo
nome
è
connesso
al
concetto
di
fine
e di
inizio.
Xul,
infatti,
rappresentava
la
fine
di
un
anno
agricolo
e
l’inizio
di
quello
nuovo,
che
si
celebrava
il
giorno
16
Xul
nella
ricorrenza
di
Chic
Kabanche,
dedicata
a
Kukulkan.
Il
patrono
del
mese
probabilmente
era
un
dio
canino
appartenente
all’inframondo,
come
quello
raffigurato
nel
glifo
corrispondente.
7. Yaxk’in,
termine
che
designava
il
settimo
mese,
deriva
dall’unione
di
Yax,
“verde”,
“azzurro”
e
K’in,
cioè
“giorno”
o
“sole”.
Il
significato
di
questo
periodo
era
connesso
con
il
concetto
di
inizio
e di
fondazione.
Il
patrono
del
mese
era
il
dio
del
sole,
festeggiato
forse
in
concomitanza
con
Kukulkan
e il
fuoco
nuovo.
8. Mol,
appellativo
dell’ottavo
mese,
derivava
da
una
parola
yucateca
che
significa
“raccogliere”,
“raggruppare”,
ed
era
rappresentato
da
un
glifo
con
acqua
e
giada.
In
questo
mese
vi
era
una
festa
importante,
dedicata
a
tutte
le
divinità,
celebrata
in
due
modi.
Il
primo
prevedeva
che
venissero
dipinti
di
azzurro
gli
oggetti
d’uso
quotidiano,
le
porte
degli
edifici,
le
scritture
sacre,
le
statue,
ecc.
e
che
i
ragazzi
e le
ragazze
fossero
colpiti
per
nove
volte
sul
palmo
delle
mani
per
diventare
abili
nel
mestiere
dei
propri
genitori.
Nell’altra
cerimonia
alcuni
scultori
fabbricavano
dei
simulacri
degli
dèi
da
offrire
alle
varie
divinità.
Raffigurare
gli
dèi
era
un
compito
rischioso,
perché
se
le
divinità
non
fossero
state
soddisfatte
del
lavoro
degli
scultori,
si
sarebbero
vendicate
inviando
a
questi
malattie
o
morte.
9. Ch’en,
nome
del
nono
mese,
significa
“cenote”,
termine
che
indica
delle
cavità
naturali
contenenti
acqua
tipiche
dello
Yucatan,
considerate
dei
pozzi
sacri.
Con
Ch’en
iniziavano
i
quattro
mesi
i
cui
glifi
rimandano
alla
pioggia
e
alla
tormenta
(gli
altri
erano
Yax,
Sak
e
Keh).
Il
patrono
di
questo
periodo
era
la
luna.
10.
Yax,
il
cui
significato
è
“primo”,
“tenero”,
“verde”,
è il
decimo
mese
dell’Haab.
È
probabile
che
il
patrono
di
questo
mese
fosse
il
dio
del
pianeta
Venere.
Proprio
in
questo
periodo
si
celebrava
la
festività
di
Ocná,
dedicata
al
rinnovamento
dei
templi
di
Chac,
effettuato
mediante
la
sostituzione
degli
idoli
lignei
e
dei
vasi
di
terracotta.
11.
Sak,
undicesimo
mese,
con
tutta
probabilità
aveva
come
patrono
il
dio
del
mese
maya,
detto
Winal,
che
veniva
raffigurato
con
una
testa
di
un
rettile
o di
una
rana.
Nel
mese
di
Sak
i
cacciatori
celebravano
una
solennità
tesa
a
chiedere
perdono
agli
dèi
per
il
sangue
degli
animali
versato
durante
la
caccia.
Ciò
dimostra
il
profondo
rispetto
che
i
Maya
nutrivano
per
gli
animali.
Se
questo
sentimento
di
rispetto
veniva
meno,
lo
spirito
tutelare
dell’animale
cacciato
non
avrebbe
più
concesso
il
successo
nella
caccia
al
sacrilego.
Inoltre,
presso
i
Maya
vi
era
una
cerimonia
di
espiazione
dopo
l’uccisione
dell’animale,
che
obbligava
il
cacciatore
a
versare
il
proprio
sangue
sulle
ferite
dell’animale.
12.
Keh,
il
dodicesimo
mese,
era
l’ultimo
dei
quattro
mesi
che
nel
glifo
possedevano
il
segno
Kawak,
associato
con
la
tempesta.
Il
patrono
di
Keh
era
legato
al
dio
del
cielo,
mentre
il
suo
glifo
rappresenta
un
cervo.
13.
Mak,
il
tredicesimo
mese,
significa
“fine”,
“chiudere”,
“coprire”
e
forse
è
anche
per
questo
che
Thompson
ritiene
che
Mak
segni
la
fine
del
calendario
Tzolk’in.
Il
patrono
del
mese
è il
dio
del
numero
3,
probabilmente
una
rappresentazione
del
dio
del
mais.
In
questo
periodo
cadeva
la
solennità
Tupp
Kak,
celebrata
in
onore
di
Itzamna
e
dei
quattro
Chac
per
ottenere
delle
piogge
abbondanti.
14.
K’ank’in,
nome
che
deriva
da
Kan,
“giallo”
e
K’in,
“sole”,
“giorno”,
era
il
quattordicesimo
mese
dell’Haab
e
faceva
riferimento
al
periodo
di
maturazione
del
mais.
Questo
mese
era
patrocinato
da
una
divinità
della
terra.
15.
Muwan,
il
quindicesimo
mese,
aveva
lo
stesso
nome
di
un
uccello
associato
all’acqua,
alle
piogge
e
alle
nubi,
che
altri
non
era
che
il
patrono
di
Muwan.
Questo
mese
era
dedicato
a Ek
Chuah,
divinità
protettrice
dei
mercanti
e
del
cacao
(che
veniva
usato
come
moneta
in
tutta
la
Mesoamerica)
e di
Hobnil,
il
Bacab
rosso.
16.
Pax,
il
sedicesimo
mese,
era
patrocinato
dal
giaguaro
o
dal
puma.
Nei
venti
giorni
di
Pax
si
svolgeva
la
cerimonia
di
Pacum
Chac,
in
onore
del
dio
Cit
Chac
Coh,
il
“padre
puma
rosso”,
in
cui
il
Nacom
(il
capitano
di
guerra),
era
portato
nel
tempio
del
dio
per
assistere
alla
danza
dei
guerrieri.
Successivamente
si
celebrava
un
rito
propiziatorio
alla
vittoria
in
guerra,
dove
si
offrivano
i
cuori
degli
animali
a
Cit
Chac
Coh,
gettandoli
nelle
fiamme.
La
cerimonia
si
concludeva
con
un
banchetto
finale
in
cui
tutti,
meno
il
Nacom,
si
ubriacavano.
Dopo
il
Pacum
Chac,
i
vari
villaggi
stabilivano
la
data
delle
celebrazioni
festive
degli
ultimi
tre
mesi
dell’anno.
17.
K’ayab,
diciassettesimo
mese
dell’Haab,
era
raffigurato
in
un
glifo
rappresentante
una
testa
di
pappagallo.
Nel
Popol
Vuh
compare
una
sorta
di
divinità
pappagallo,
Vucub
K’aquix,
che
fingeva
di
essere
il
sole
per
ricevere
i
sacrifici
da
tutte
le
creature
viventi.
Costui
fu
però
punito
in
seguito
da
Hunahpú
e
Ixbalanqué,
i
gemelli
prodigiosi.
Il
mese
era
dedicato
a
una
dea
della
luna
crescente,
patrona
della
medicina.
K’ayab
segnava
l’inizio
delle
celebrazioni
che
si
svolgevano
negli
ultimi
quaranta
giorni
dell’anno,
chiamate
Sabacil
Than.
Nonostante
conservassero
le
pratiche
della
purificazione,
delle
danze
e
dei
banchetti,
tali
festività
avevano
un
carattere
privato,
poiché
si
celebravano
nella
casa
di
chi
le
organizzava,
ed
erano
quindi
più
contenute.
18.
Kumk’ú
era
l’ultimo
mese
di
venti
giorni,
e la
sua
chiusura
coincideva
con
la
fine
del
Tun,
l’anno
di
360
giorni.
In
questo
mese
proseguivano
le
feste
del
Sabacil
Than
e il
patrono
celebrato
era
il
coccodrillo
o un
essere
celeste.
Inoltre,
l’8
Kumk’ú
era
considerata
la
data
mitica
dell’inizio
del
calendario
Haab.
L’ultimo
periodo
dell’Haab
era
chiamato
Wayeb
ed
era
composto
da
soli
cinque
giorni.
Si
ritiene
che
una
probabile
radice
di
Wayeb
sia
Way,
cioè
“minaccia”,
“dramma”.
Il
significato
complessivo
però
si
lega
a
concetti
come
“letto
da
cui
ci
si
alza”
o
“stanza
dalla
quale
si
esce”.
Questi
cinque
giorni
avevano
una
particolarità,
segnalata
anche
dal
loro
appellativo
Xma
Baba
Kin,
ovvero
“giorni
senza
nome”.
I
giorni
del
Wayeb
non
avevano
un
nome
perché
dovevano
cancellare
le
influenze
dei
giorni
precedenti
dall’anno
venturo,
tanto
che
anche
i
giorni
dello
Tzolk’in
che
transitavano
in
questo
periodo
dell’anno
perdevano
il
proprio
carattere.
Questa
neutralità
rendeva
impossibile
prevedere
gli
effetti
del
mondo
trascendente
sulla
natura
e
sull’uomo
e
proprio
per
questo
i
cinque
giorni
del
Wayeb
erano
considerati
nefasti
e
pericolosi.
Perciò,
i
Maya
li
passavano
svolgendo
meno
attività
possibili:
stavano
chiusi
in
casa,
non
si
lavavano
né
pettinavano,
digiunavano
e si
astenevano
dai
rapporti
sessuali.
Il
Wayeb
dunque
era
un
abisso
che
divideva
il
tempo
vecchio
da
quello
nuovo
e
che
segnava
una
rottura
nel
flusso
ininterrotto
del
tempo.
Tuttavia,
ricalcando
un
pensiero
tipicamente
maya,
questa
sorte
di
“morte
del
tempo”
era
necessaria
per
la
successiva
rinascita.
Questo
è
testimoniato
dal
fatto
che
già
nei
giorni
del
Wayeb
si
effettuavano
sia
le
cerimonie
di
purificazione
tipiche
di
questo
periodo,
sia
i
riti
propiziatori
per
l’inizio
del
nuovo
anno.
Questi
ultimi
variavano
a
seconda
del
giorno
Tzolk’in
con
cui
sarebbe
cominciato
l’anno
nuovo.
In
ogni
caso,
però,
le
celebrazioni
consistevano
in
sacrifici
di
animali,
autosacrifici,
banchetti
e
offerte
di
cibo
agli
dèi.
Tutto
ciò
si
compiva
nella
casa
prescelta,
in
cui
gli
idoli
dell’anno
vecchio
e
dell’anno
nuovo
venivano
posti
uno
di
fronte
all’altro.
Una
volta
terminati
i
giorni
del
Wayeb,
l’idolo
della
divinità
protettrice
del
nuovo
anno
veniva
condotto
nel
tempio,
mentre
l’idolo
dell’anno
vecchio
veniva
collocato
all’ingresso
della
città.
Gli
idoli
avrebbero
conservato
la
propria
posizione
per
i
prossimi
365
giorni.
A
questo
punto
bisogna
sottolineare
che
i
giorni
Tzolk’in
con
cui
iniziava
l’anno
potevano
essere
solo
quattro,
che
all’epoca
della
conquista
spagnola
erano:
K’an,
Muluk,
Ix e
Kawak.
Questi
giorni
erano
contrassegnati
da
un
valore
mitologico
non
indifferente
e
consentivano
di
prevedere
la
qualità
dell’anno
che
stava
per
iniziare:
gli
anni
K’an
erano
favorevoli,
i
Muluk
molto
favorevoli,
mentre
gli
anni
Ix
erano
negativi,
anche
se
non
quanto
i
Kawak,
che
erano
considerati
molto
sfavorevoli.
A
prescindere
dal
tipo
di
anno,
però,
le
degenerazioni
erano
sempre
in
agguato.
Se
in
un
anno
le
calamità
si
facevano
particolarmente
insistenti,
si
pregavano
delle
determinate
divinità
ausiliarie,
affinché
accorressero
in
aiuto
della
comunità.
Naturalmente
ogni
anno
aveva
delle
specifiche
divinità
ausiliarie
e
dei
riti
relativi,
anche
cruenti,
a
seconda
del
problema
che
affliggeva
gli
uomini.
I
riti
di
fine
anno
erano
importanti
soprattutto
per
le
donne,
poiché
erano
le
uniche
celebrazioni
alle
quali
potevano
assistere
e
addirittura
partecipare
con
delle
danze
a
loro
riservate.
Per
la
definizione
completa
di
una
data
i
Maya
ricorrevano
a
entrambi
i
calendari
illustrati.
Il
nome
del
giorno
si
componeva
dunque
del
numerale
e
della
denominazione
dello
Tzolk’in
più
il
numerale
e il
mese
dell’Haab.
Diversi
studiosi
hanno
concepito
questi
due
calendari
come
due
ruote
di
un
ingranaggio,
di
raggio
differente,
i
cui
denti
si
incastrano
tra
loro
per
comporre
il
nome
completo
di
un
giorno.
La
differenza
di
lunghezza
tra
lo
Tzolk’in
e l’Haab
faceva
in
modo
che
ogni
anno
i
giorni
avessero
sempre
un
nome
diverso
rispetto
all’anno
prima.
Tuttavia,
dopo
un
certo
periodo
di
tempo,
le
combinazioni
tra
la
denominazione
dello
Tzolk’in
e
dell’Haab
tornavano
a
ripetersi.
E
questo
periodo
di
tempo
era
dato
dal
minimo
comune
multiplo
tra
il
numero
dei
giorni
dei
due
calendari:
lo
Tzolk’in
durava
260
giorni,
ovvero
5 x
52,
mentre
l’Haab
copriva
un
periodo
di
365
giorni,
cioè
5 x
73.
Il
minimo
comune
multiplo
è
dunque
5 x
52 x
73,
pari
a
18.980
giorni
o,
se
vogliamo
esprimere
il
conto
secondo
un’unità
di
misura
più
comoda,
52
anni.
Gli
storici
chiamano
questo
periodo
Calendar
round,
calendario
rotondo,
proprio
perché
dopo
52
anni
(quindi
dopo
52
Haab
o 73
Tzolk’in)
gli
accoppiamenti
tra
le
date
Haab
e
Tzolk’in
tornavano
a
ripetersi.
Oltre
a
questi
cicli,
però,
ve
ne
era
un
altro
di
fondamentale
importanza
per
la
profezia
che
tanto
ha
scatenato
il
panico
nel
corso
di
quest’anno.
Si
tratta
del
conto
lungo,
un
tipico
prodotto
culturale
dei
Maya
che
contava
il
tempo
trascorso
a
partire
dalla
data
mitica
dell’origine
del
mondo,
che
corrispondeva
a 4
Ajaw
8
Kumk’ú.
Da
questo
giorno,
che
possiamo
considerare
una
sorta
di
anno
zero,
i
Maya
hanno
iniziato
a
contare
gli
anni
del
conto
lungo
basandosi
su
cinque
cicli
principali:
- K’in,
l’unità
base
del
computo
del
tempo,
corrispondeva
a un
giorno,
inteso
come
l’insieme
di
notte
e
dì.
I
Maya,
infatti,
concepivano
il
cammino
del
sole
sotto
un
duplice
aspetto:
da
una
parte
vi
era
un
viaggio
celeste,
compiuto
dall’astro
nella
volta
del
cielo
durante
le
ore
di
luce,
ma
dall’altra
vi
era
un
viaggio
nelle
viscere
del
sottosuolo,
che
costituivano
la
partenza
e il
ritorno
del
disco
solare
nel
suo
percorso
quotidiano.
Questa
duplice
concezione
del
sole,
corrispondente
alla
divisione
della
giornata,
rispecchia
anche
l’opposizione
tra
la
fase
di
fecondazione-generazione
e
quella
di
nascita.
La
generazione,
che
può
essere
quella
quotidiana
del
seme
di
mais
o
quella
mitica
dell’uomo,
avviene
al
buio
(come
per
esempio
la
sepoltura
del
seme),
atmosfera
simbolo
di
morte,
ma
anche
di
fecondazione.
La
nascita
segna
invece
il
passaggio
dalle
tenebre
alla
luce.
Dunque,
la
parte
luminosa
del
giorno
si
collocava
sotto
la
protezione
delle
tredici
divinità
del
cielo,
dette
Oxlahutikú,
mentre
la
parte
buia
era
patrocinata
dalle
nove
divinità
del
sottosuolo,
i
Bolontikú.
Il
glifo
K’in
può
essere
un
ritratto
del
dio
sole,
posto
di
profilo,
oppure
un
segno
che
somiglia
a un
fiore
con
quattro
petali,
simboli
dei
quattro
punti
cardinali
o
dei
quattro
punti
di
levata
e
tramonto
del
sole
nei
solstizi
invernale
ed
estivo.
Il
numerale
dei
K’in
si
azzera
a
20.
-
Winal,
periodo
dato
dalla
successione
di
20
K’in,
cioè
20
giorni.
Come
si è
potuto
notare,
il
20
nella
cultura
maya
era
il
numero
fondamentale,
poiché
anche
i
calcoli
venivano
effettuati
su
base
vigesimale,
a
differenza
dei
nostri
che
sfruttano
la
base
decimale.
Il
glifo
rappresentante
lo
Winal
è
una
rana,
ma
questo
periodo
simboleggiava
anche
la
luna,
poiché
in
alcune
varianti
del
glifo
viene
raffigurato
proprio
questo
corpo
celeste.
Nel
conto
lungo,
il
ciclo
degli
Winal
finisce
a
18.
-
Tun,
periodo
che,
come
già
accennato,
si
compone
di
360
giorni,
è un
ciclo
Haab
senza
il
Wayeb,
ovvero
senza
i
cinque
giorni
infausti.
Dal
punto
di
vista
del
conto
lungo,
un
Tun
era
composto
da
18
Winal.
Questo
era
l’unico
ciclo
calendariale
che
si
discostava
dalla
base
vigesimale
per
raccordare
l’aritmetica
all’anno
solare.
L’etimologia
della
parola
Tun
può
avere
significati
diversi,
che
andavano
da
“pietra”,
a
“monumento”
a
“nocciolo
di
un
frutto”.
Quello
più
diffuso
in
Yucatan
è il
primo,
poiché
per
Tun
si
intende
una
pietra
preziosa,
una
giada.
Il
glifo
del
Tun,
invece,
contiene
un
segno
che
si
associa
con
l’acqua,
elemento
che
si
connette
anche
alla
giada,
come
si è
già
visto
per
il
giorno
di
Muluk
e
per
il
mese
di
Mol.
Nel
conto
lungo,
il
ciclo
dei
Tun
si
azzera
una
volta
superato
il
20.
-
K’atun,
ciclo
di
7.200
giorni,
prende
nome
dall’unione
di
Kal,
“venti”,
e
Tun;
il
significato
corrisponderebbe
dunque
a
“venti
pietre”.
Il
K’atun
era
quindi
composto
da
20
Tun,
un
periodo
di
poco
meno
di
20
anni.
Quando
finiva
un
K’atun
si
tenevano
delle
cerimonie
pubbliche
in
cui
il
reggente
si
trapassava
la
lingua
o il
pene
e
raccoglieva
il
sangue
che
ne
sgorgava
su
una
carta,
che
veniva
bruciata
in
onore
degli
dèi.
A
conclusione
del
rito,
veniva
eretta
una
stele
commemorativa.
Il
ciclo
dei
K’atun
finisce
a
20.
-
Bak’tun,
il
periodo
di
144.000
giorni,
corrisponde
a 20
K’atun,
quindi
a
circa
400
anni
(per
la
precisione
394,3
anni).
Letteralmente,
il
nome
significa
“quattrocento
pietre”,
ma
il
termine
in
lingua
originale
è
sconosciuto.
La
definizione
di
Bak’tun
è
stata
ricavata,
come
per
i
cicli
più
lunghi,
dallo
yucateco
contemporaneo.
Il
numerale
dei
Bak’tun
si
azzera
una
volta
superato
il
13.
Questi
sono
i
cicli
principali
utilizzati
nel
conto
lungo
dei
Maya,
ma
in
realtà
esisterebbero
dei
cicli
ancora
più
lunghi,
sempre
costituiti
seguendo
la
base
vigesimale:
il
Pictun,
composto
da
20
Bak’tun,
il
Calabtun,
formato
da
20
Pictun,
il
Kinchiltun,
che
corrisponde
a 20
Calabtun
e
infine
l’Alautun,
che
vale
20
Kinchiltun.
I
numeri
che
designano
un
giorno
nel
conto
lungo
fanno
però
riferimento
principalmente
ai
cinque
cicli
menzionati
in
precedenza.
La
data
dell’origine
del
mondo
può
essere
dunque
scritta
in
questo
modo:
0.0.0.0.0,
4
Ajaw
8
Kumk’ú,
dove
il
primo
zero
a
partire
da
sinistra
corrisponde
ai
Bak’tun,
il
secondo
ai
K’atun,
il
terzo
ai
Tun,
il
quarto
ai
Winal
e
l’ultimo
ai
K’in.
Le
predizioni
che
vogliono
che
la
fine
del
mondo
avvenga
il
21
dicembre
2012
si
basano
proprio
sui
cicli
del
conto
lungo.
Quel
giorno,
infatti,
terminerà
il
tredicesimo
Bak’tun
(data
che
si
può
scrivere
sia
in
questo
modo
13.0.0.0.0,
sia
in
questo
0.0.0.0.0),
il
ciclo
che
determina
la
fine
di
un’era.
La
nostra
mente
occidentale
ricollega
tutto
questo
a
un’apocalisse,
alla
fine
dell’universo
che
conosciamo.
Tuttavia,
se
veramente
vogliamo
capire
i
Maya,
non
possiamo
fermarci
a
considerare
le
cose
da
una
prospettiva
occidentale,
ma
dobbiamo
imparare
a
porci
da
un
altro
punto
di
vista.
Quella
che
la
nostra
mentalità
interpreta
come
la
fine
del
mondo,
per
i
Maya
è
solo
la
fine
di
un’epoca,
la
fine
di
un
ciclo
al
quale
ne
seguirà
un
altro.
Non
bisogna
dimenticare,
infatti,
che
per
i
Maya
il
tempo
era
ciclico
e il
suo
corso
si
poteva
rappresentare
con
una
spirale;
il
tempo,
in
altre
parole,
non
era
una
pura
ripetizione
di
fatti
già
accaduti,
ma
un
progresso
verso
la
perfezione
che
continuava
di
era
in
era.
Ne è
una
dimostrazione
il
racconto
mitologico
della
creazione
dell’uomo
contenuto
nel
Popol
Vuh.
In
questo
mito,
l’uomo
viene
creato
in
cinque
fasi,
ognuna
delle
quali
dura
13
Bak’tun.
Nelle
prime
fasi,
la
creazione
dell’uomo
si
rivela
una
fallimento,
che
porta
con
sé
altri
tentativi
di
creazione
fino
alla
definitiva
riuscita.
Ogni
ciclo
della
creazione,
dunque,
non
preannuncia
una
fine,
ma
un
continuo
progresso
del
tempo.
E,
se
ricordiamo
il
concetto
di
fine
secondo
il
pensiero
maya,
dovremmo
ricordare
anche
che
non
si
tratta
di
un
epilogo
definitivo,
ma
il
punto
di
partenza
di
un
nuovo
inizio.
Ciò
che
per
noi
dunque
rappresenta
una
fine
senza
appello,
per
i
Maya
è un
momento
di
passaggio
da
una
condizione
a
un’altra.
In
conclusione,
i
Maya
non
hanno
mai
pensato
che
il
mondo
sarebbe
finito
il
21
dicembre
2012.
Siamo
noi
gli
artefici
veri
di
questa
profezia,
prodotto
dell’incomprensione
tra
culture
diverse.
Riferimenti
bibliografici:
Thompson
J.E.S.,
La
civiltà
Maya,
Einaudi
Tascabili
Saggi,
Torino
1994;
Zaffagnini
G.,
I
calendari
maya
-
Oltre
le
paure
della
fine,
Edizioni
Sonda,
Casale
Monferrato
(AL)
2011.