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N. 40 - Aprile 2011 (LXXI)

tra Rivoluzione e calcio

ungheria, 1956
di Daniela Coppola

 

Che cosa di nuovo - e originale - resta ancora da dire sulla Rivoluzione ungherese del 1956? Tutti sanno che in quella stagione infelice, in quel novembre triste molti sognatori, forse i migliori tra i comunisti italiani e di mezza Europa, lasciarono il loro ideale spezzato sulle rive de “a Duna”.

 

I giovani universitari italiani dell'epoca furono i soli a sostenere e solidarizzare con i colleghi di Szeged e con gli intellettuali del Circolo Petofi. In un intenso articolo che sarebbe stato pubblicato sul Corriere della Sera il 17 novembre del 1956, “Un messaggio da Budapest agli studenti italiani” Indro Montanelli raccontò il drammatico messaggio che un gruppo di studenti magiari ormai sconfitti aveva affidato al giornalista, chiedendo di trasmetterlo agli studenti italiani per ringraziarli di quanto fatto in quei giorni: “Dio e il loro coraggio, che non sono bastati a salvare quella nostra, salvino almeno la loro libertà. Viva l'Italia e l'Ungheria” (cfr: pag. 75, La sublime pazzia della rivolta, Rizzoli). Montanelli aggiungerà un suo personale appello rivolto ai ragazzi in quello stesso articolo, denso ed emozionante.

 

Anche Josef Muller, vero rivoluzionario per caso, racconta in una sua intervista di quei freddi giorni, di come si trovarono, lui e altri ragazzi come lui, a combattere con armi -che nessuno sapeva bene usare- distribuite alla meno peggio. Aggiunge particolari sugli scontri con i carri armati invasori ed episodi in cui inspiegabilmente, a volte, alcuni soldati russi abbandonando il proprio carro passavano dalla loro parte. Racconta anche di come fosse poi riuscito a scappare verso l'Austria e della sua risoluzione di non tornare più in Ungheria, se non 27 anni dopo. (cfr: pagg. 35-38, Il fallimento dei “101” di Valentina Meliadò, Liberal).

 

Le cifre dei morti, feriti, profughi, processati, condannati a morte, deportati, scomparsi, sono alte e impressionanti, oltre che imprecise. Lo stesso Muller ricorda che le vittime, solo in quei giorni di lotta furono tante, specialmente con la seconda ondata. La televisione, agli albori in Italia, trasmetteva spettrali immagini in bianco e nero di case sventrate, ma non distrutte, immagini che rimandavano ai freschi ricordi di una Guerra appena terminata, in casa nostra, con altri invasori.

 

“Il Manifesto dei 101” coraggiosamente sottoscritto da tanti intellettuali di area comunista italiani, fu una finestra aperta sopra quell'inquietudine che spezzava in due il sogno dei tanti che avevano creduto ormai archiviato -con la morte di Stalin del 1953 e con la successiva e immediata denuncia delle sue malefatte nel 1956 - il malessere della Grande Madre dell'internazionalismo rosso.

 

Ancora oggi l'evento è carico di conseguenze, se è vero, com'è vero, che non appena insediato il Presidente Napolitano si è sentito in dovere di esercitarsi in un atto di contrizione rispetto alle posizioni filosovietiche da lui assunte nel novembre 1956.

 

Eppure il filo del ripensamento aveva già intessuto una trama importante -eppur tardiva- nel 1989, allorché l'allora Segretario del P.C.I. Achille Occhetto aveva preso parte al funerale, per onorare la degna inumazione di IMRE NAGY trenta anni dopo la sua violenta fine (cfr documento filmato La Rivoluzione ungherese, Istituto LUCE).

 

Tutto sembra già stato detto e scritto, nonostante i dubbi e le domande ancora senza risposta, o con risposte equivoche. Tanto soggettiva e limitata fu -al tempo- l'osservazione occidentale da indurre ripetutamente Montanelli (inviato sul posto, ma presto costretto a riparare nella più sicura Vienna) a riferire che "il suo articolo ha il limite della parzialità del proprio punto di vista" (op. cit. pag. 47).

 

Eppure il mondo in quegli anni si era riempito la bocca con l'Ungheria. Il nome di questa Nazione correva per l'Europa da almeno un biennio e generava stupore e interesse.

Qualcuno si è anche immerso ad esplorare la piaga purulenta, ancora sanguinante nella coscienza dell'Occidente: perché nessuno è intervenuto a sostegno della resistenza ungherese? Perché nessuna delle anime belle dell' "internazionalismo operaio" ha pensato di inviare neppure una bicicletta a sostegno delle barricate ungheresi? Che cosa pensava l'Occidente "sazio e disperato", tutto preso a sfornare Fiat 600 e frigoriferi? Che si trattava di un regolamento di conti interno tra comunisti?

 

Persino l'America aveva manifestato una solidarietà posticcia nei confronti dei rivoltosi, dopo averli illusi per anni dai microfoni di RADIO FREE EUROPE (RFE) che irradiava da Monaco, costituita nel 1950 dal Comitato Nazionale Europa Libera, diretto da John Foster Dulles (già promotore con il fratello Allen della Commissione per le attività anti-americane, quella che diede il via alla "Caccia alle streghe" negli USA) e strumento dei Servizi Segreti americani. Dunque, da sei anni, invitava i cittadini dell'Est Europa a sollevarsi contro i regimi filosovietici, promettendo salvacondotti e aiuti economici.

 

Sul punto ancora Montanelli racconta che, - “gli ungheresi, pensavano che tutte quelle promesse impegnassero chi le faceva almeno ad un appoggio morale, che in realtà non è avvenuto o perlomeno non lo hanno sentito” - e anche, quando descrive l'arrivo di Nixon a Vienna (all'epoca Vice-presidente), parla esplicitamente di "aiuti poco spontanei" elargiti dagli USA ai profughi ungheresi, sempre con il timore di non irritare le autorità moscovite (op. cit. pagg. 149-153).

 

Ma non era l'Italia (ma anche la Spagna e altre squadre europee), che faceva carte false per scippare i migliori talenti da sotto il naso del regime, sottraendo con l'inganno i migliori giocatori all'Ungheria? Non erano ancora le grandi squadre dell’Occidente che in attesa del perfezionamento delle procedure burocratiche -per poter schierare quei talenti fra le loro file- organizzavano amichevoli, raggruppando tutti i giocatori profughi o transfughi, in un'unica squadra denominata “Hungaria”?

 

Come è mai possibile votarsi improvvisamente al silenzio, girar la testa, far come se fosse nulla, mentre si esultava fino a qualche giorno prima per la rappresentativa che per originalità di gioco, per epicità di imprese, per la stupefacente superiorità palesata, a partire dalle Olimpiadi del 1952 e fino ai Mondiali del 1954 in Svizzera aveva impressionato il mondo, guadagnandosi una simpatia senza confini e l'orgoglio della gente ungherese? Sto parlando della Nazionale di calcio danubiana di quegli anni.

 

Da qui si parte per raccontare un diverso punto di vista, il più recente che è stato proposto sulla Rivoluzione del '56: il punto di vista originale che mi pare mancante nella colonna delle riflessioni più serie e rigorose sul tema. E' un punto di vista speciale, non oziosamente intellettuale e che indaga la Storia non solo prendendo a esame il rigido determinismo dei fatti, ma anche la volatile impronta dell'umore collettivo.

 

Lo scrittore e giornalista Luigi Bolognini nel suo libro dal titolo "La squadra spezzata" (Ed. Limina) inserisce un frammento narrativo (la storia di un giovanissimo fanatico delle imprese di Puskas e della sua squadra d'oro, l'Aranycsapat) nella storia magiara di quegli anni. La tesi del libro riprende, in sostanza, un tema già affrontato da altri: la magia del calcio ungherese degli Anni 50 (vittoria olimpica, trionfo a Wembley contro l'Inghilterra, finale mondiale persa per un soffio) aveva dato una speranza agli ungheresi oppressi da un regime grigio e stantio, creando una sostanziale coincidenza tra trionfi sportivi e prospettive radiose per il socialismo

 

Alla base di tale "miracolo" sportivo due squadre, entrambe di Budapest: la HONVED (che riunisce le antiche e gloriose Kispest e Ferencvaros), la squadra dell'esercito; l'MTK (che accorpa MTK, Vasas e Ujpest), formazione della polizia politica .

Due strutture "istituzionali" attraverso le quali il Partito aveva il controllo diretto del calcio ungherese, con l'obiettivo di agevolare lo sviluppo di un gruppo di ragazzi talentuosi e, allo stesso tempo, cercare di evitare la "fuga" delle giovani promesse verso l'Europa - Italia e Spagna in particolare - una vera piaga del calcio danubiano nel decennio precedente.

 

La squadra Nazionale (alimentata esclusivamente da giocatori provenienti dalle due squadre di club appena ricordate) veniva chiamata l'ARANYCSAPAT (la squadra d'oro) e annoverava tra i suoi campioni nomi quali Ferenc PUSKAS ("ocsi" -"il ragazzino" - cicciotello, basso, col ciuffo di capelli ribelle e mancino), Nandor HIDEGKUTI (capo-cannoniere ai mondiali del 1954) e Sàndor KOCSIS.

 

La Nazionale ungherese aveva sconfitto la Jugoslavia nella finale olimpica del 1952, sconfitto l'Inghilterra nel 1953 in un memorabile incontro a Wembley e incantato il mondo disputando un fantastico Campionato del Mondo in Svizzera nell'estate del 1954, perdendo la finale con la Germania Ovest per 3 a 2 (dopo essere stata lungamente in vantaggio).

 

Genio demiurgico del calcio magiaro e allenatore della Nazionale era il Vice-ministro dello Sport Guzstav SEBES: costui era un personaggio di carattere che aveva vissuto una vita avventurosa come delegato politico-sindacale all'estero, soprattutto in Francia. Era un grande studioso del gioco, che affrontava con approccio scientifico, da buon marxista. Creò un gruppo irripetibile di talenti (i suoi giocatori lo chiamavano "Guszhi Bacsi" -"zio Guszhi"-), organizzandoli in maniera entusiasmante, tanto da far dire oggi a qualcuno che la sua Ungheria giocava il calcio "totale" che negli anni Settanta sarebbe diventata prerogativa esclusiva della grande Olanda di Cruijff.

Ma l'allenatore Sebes soprattutto era un grandissimo motivatore: da buon uomo di partito i suoi discorsi erano infarciti di retorica politica, capaci di accendere il fuoco negli animi di chi doveva scendere in campo.

 

Altrettanto fedele al Partito era il portiere Gyula GROSICS mentre le stelle autentiche e, tra questi Puskas (nonostante il suo grado di Colonnello dell'esercito), si professavano solo per quieto vivere "fedeli all'ideologia dominante".

 

L'irripetibile stagione del calcio ungherese era arrivata a un soffio dalla conquista del titolo mondiale, perso con quella sublime e sconcertante supponenza, quella invisibile patina che si sovrappone alla forza di volontà, quando gli elogi sono troppo numerosi e che solo una grande favorita poteva esprimere.

 

Più d'uno, tra gli interpreti della rivolta, ebbe modo di affermare che l'epilogo - in fondo ingiusto e doloroso di quella Finale Mondiale (una settimana dopo, l'intera squadra tedesca, forse a conseguenza del doping somministrato, venne ricoverata in ospedale -"topolini siringati" - li definì Sebes) - liberò le energie oppositive che percorrevano le anime magiare, in qualche modo intrappolate dai successi sportivi.

 

Se per un biennio, ogni successo sportivo era stato percepito come il contrassegno delle vittorie del regime, che scaldavano "al sole dell'avvenire" i tiepidi sentimenti socialisti degli ungheresi, a partire dalla inattesa sconfitta di Berna e la conseguente dissoluzione dello spirito vincente della squadra, si era a quel punto improvvisamente dipanato il senso di scoramento nell'animo magiaro. (cfr. Antonello Biagini e Francesco Guida "Mezzo secolo di socialismo reale" pag. 75- Giappicchelli Editore).

 

Come il protagonista del libro di Bolognini, la delusione della sconfitta calcistica diventò occasione di riflessione sul senso di quel socialismo ottuso e trionfalistico. La gente scese anche materialmente in piazza dopo quel 3 a 2 a esprimere rabbia e stupore, gli stessi -ma più decisi- sentimenti che nel volgere di due anni infiammeranno le piazze di Budapest.

 

La gente, perlopiù, aveva troppo legato quegli uomini e i loro successi alla vicenda del socialismo in Ungheria. I giocatori più bravi allora, credettero più opportuno trovare comodi ripari altrove (magari lasciando anche credere all'opinione pubblica mondiale di aver cercato riparo da non meglio precisate persecuzioni di stampo sovietico che li avrebbero attesi al rientro in patria), in una "diaspora" inarrestabile dei suoi uomini più rappresentativi: anche Puskas, che si fermò in Spagna e NYERS, invece, in Italia all'Inter.

 

Ma la dichiarazione più incisiva e amara fu proprio dell'uomo più significativo di quella squadra, il perfetto comunista Sebes, che si lamentava affermando che “se l'Ungheria avesse vinto il Campionato del mondo, non ci sarebbe stata la Rivoluzione del '56”.

 

 

Riferimenti bibliografici e audiovisivi:

 

Indro Montanelli, La sublime pazzia della rivolta, Rizzoli, 2006

“La squadra spezzata”, Luigi Bolognini, Limina

Documento filmato La Rivoluzione ungherese, Istituto LUCE

Antonello Biagini e Francesco Guida, Mezzo secolo di socialismo reale, Giappichelli Editore

Valentina Meliadò, Il fallimento dei “101”, Liberal



 

 

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