N. 89 - Maggio 2015
(CXX)
Caio Giulio Cesare
Ritratto di un dictator perpetuus in lotta con il destino - Parte III
di Paola Scollo
Con
la
morte
di
Crasso
gli
equilibri
tra
i
triumviri
cominciarono
a
incrinarsi.
Negli
anni
53 -
52
a.C.
Roma
fu
in
preda
all’anarchia.
Il
18
gennaio
del
52
a.C.
Clodio,
che
aspirava
alla
pretura,
venne
ucciso
sulla
via
Appia
dalla
banda
di
Milone,
suo
competitor
nella
corsa
al
consolato.
La
Curia
Ostilia
andò
in
fiamme
insieme
alla
Basilica
Porcia
e a
numerosi
altri
edifici.
Alla
fine
di
febbraio
il
senato
scelse
di
nominare
Pompeo
consul
sine
collega.
A
tutti
gli
effetti
diveniva
princeps,
uomo
politico
di
riferimento
per
l’oligarchia
senatoria
con
il
compito
di
tutelare
la
res
publica
da
eventuali
attacchi
da
parte
di
Cesare.
La
situazione
a
Roma
sembrava
destinata
a un
epilogo
tragico,
nonostante
fosse
viva
nella
maggior
parte
dei
senatori
la
speranza
di
giungere
a un
accordo.
Nessun
uomo
di
senno
avrebbe
potuto
desiderare
la
guerra
civile
(Cic.,
ad
Att.
V
20.
8).
Nel
corso
del
49
a.C.
Pompeo
si
mostrò
disponibile
ad
accogliere
le
richieste
di
Cesare
di
rinnovare
gli
accordi
di
Lucca.
Ma
non
si
verificò
nulla
di
tutto
ciò.
Cesare
inviò
a
Roma
Curione,
dichiarando
di
essere
disposto
ad
abbandonare
il
comando
dell’esercito
soltanto
se
Pompeo
avesse
fatto
lo
stesso;
in
caso
contrario,
avrebbe
difeso
se
stesso
e la
patria.
Dopo
la
lettura
in
senato
dell’ultimatum
di
Cesare,
Metello
Scipione
invitò
i
senatori
a
decretare
che
Cesare
dovesse
deporre
il
comando
in
un
giorno
ben
preciso,
ante
certam
diem,
e
che
venisse
dichiarato
nemico
pubblico,
hostis
publicus,
qualora
avesse
opposto
resistenza.
Antonio
e
Cassio
Longino
tentarono
di
porre
il
veto,
ma
furono
cacciati.
Il 7
gennaio
del
49
a.C.
il
senato
affidò
ai
consoli
poteri
straordinari,
in
quanto
la
patria
era
gravemente
minacciata.
Il
giorno
successivo
a
Pompeo
venne
concessa
la
piena
facoltà
di
ricorrere
a
qualsiasi
mezzo
pur
di
salvare
la
patria.
Alle
due
province
di
Cesare
furono
assegnati
due
nuovi
governatori:
la
Gallia
Transalpina
a L.
Domizio
Enoarbo
e la
Cisalpina
a
Considio
Noniano.
Da
parte
sua,
Cesare
ordinò
alle
legioni
della
Gallia
Transalpina
di
oltrepassare
le
Alpi,
mentre
si
impegnò
a
guidare
personalmente
la
XIII
legione
che
aveva
con
sé a
Ravenna.
Nella
notte
del
10
gennaio
oltrepassò
il
fiume
Rubicone,
che
divideva
la
sua
provincia
dall’Italia,
raggiungendo
i
suoi
soldati
a
Rimini.
Le
truppe
di
Pompeo
erano
superiori
a
quelle
di
Cesare,
che
poteva
contare
unicamente
sulle
legioni
stanziate
nelle
Gallie.
Disponeva
infatti
delle
legioni
di
Spagna,
delle
riserve
d’Italia
e
delle
nazioni
alleate,
per
non
parlare
dell’appoggio
del
senato
e
della
nobiltà,
quindi
della
possibilità
di
attingere
alle
risorse
dello
Stato.
Pompeo
immaginava
di
abbandonare
l’Italia
a
Cesare
per
rifugiarsi
con
il
senato
e
poche
forze
in
Grecia.
In
tal
modo
avrebbe
potuto
riunire
un
grande
esercito,
mentre
Cesare
era
impegnato
ad
assicurare
il
suo
potere
nella
penisola
e ad
allestire
una
flotta.
Ma
non
aveva
tenuto
in
considerazione
l’imprevedibilità
del
rivale.
Cesare
marciò
fino
ad
Arezzo,
riuscendo
ad
attrarre
a sé
i
contingenti
di
Pompeo
che
andava
incontrando
per
strada.
Dopo
aver
conquistato
Corfinio,
nel
febbraio
del
49
a.C.
si
diresse
a
Brindisi
al
fine
di
impedire
l’imbarco
di
Pompeo,
ma
non
vi
riuscì.
Decise
quindi
di
combattere
le
forze
di
Pompeo
in
Spagna,
di
conquistare
l’Italia,
le
isole
e
l’Africa.
In
seguito
si
volse
verso
Roma,
dove
giunse
la
sera
del
31
marzo.
Il
senato
concesse
a
Cesare
la
piena
facoltà
di
attingere
all’erario
dello
Stato
per
reperire
fondi
in
vista
della
campagna
militare
in
Spagna.
Inoltre
il
pretore
Emilio
Lepido
accolse
una
deliberazione
del
popolo
che
nominava
Cesare
quale
comitiorum
habendorum
causa,
ossia
dittatore.
Cesare
adottò
misure
finanziarie
al
fine
di
alleviare
la
crisi
economica
causata
dalla
guerra,
senza
tuttavia
prevedere
alcuna
cancellazione
dei
debiti,
le
novae
tabulae.
Fece
approvare
un’amnistia
per
tutti
i
comandanti
politici.
Dopo
la
celebrazione
delle
ferie
latine
del
49
a.C.,
depose
la
dittatura
e si
recò
a
Brindisi
per
raggiungere
l’esercito.
Sbarcò
presso
la
città
di
Orico
a
capo
di
sette
legioni,
quindi
si
diresse
alla
volta
di
Durazzo.
Pompeo
lo
raggiunse.
Nel
corso
dei
primi
mesi
del
48
a.C.
cercò
in
tutti
i
modi
lo
scontro
diretto
con
il
nemico.
Il 9
agosto
Pompeo
accolse
l’invito
alla
battaglia
nella
pianura
di
Farsalo.
Si
trattava
della
battaglia
decisiva.
E di
questo
abbiamo
conferma
a
partire
dalle
pagine
della
narrazione
plutarchea,
ricca
di
eventi
prodigiosi
che
preannunciano
la
vittoria
di
Cesare.
Sconfitto
e
prostrato
dagli
eventi,
Pompeo
si
allontanò
dal
campo
di
battaglia,
recandosi
dapprima
ad
Amfipoli
e
poi
a
Mitilene
dove,
presi
con
sé
la
moglie
e il
figlio,
su
esortazione
dello
storico
Teofane
scelse
di
rifugiarsi
presso
Tolomeo
XIV
in
Egitto.
Qui
la
morte
lo
colse
il
28
settembre
del
48
a.C.
Pochi
giorni
dopo
la
vittoria
di
Farsalo,
Cesare
si
recò
in
Egitto
alla
ricerca
di
Pompeo.
Appresa
la
notizia
della
morte
del
rivale,
si
impegnò
a
sistemare
la
situazione
nel
Paese
africano.
Ma
l’arrivo
di
Cleopatra,
sorella
del
sovrano,
sconvolse
i
suoi
piani.
La
passione
per
la
giovane
ventiduenne
spinse
Cesare
a
trattenersi
per
qualche
tempo.
Pur
contrastato
dagli
Alessandrini,
riuscì
a
porre
sul
trono
d’Egitto
Cleopatra
con
il
fratello
Tolomeo
XV.
Nella
primavera
del
47
a.C.
ottenne
una
vittoria
su
Farnace
a
Zela,
annunciata
al
senato
con
la
celebre
espressione
Veni,
vidi,
vici.
Conclusa
la
guerra
alessandrina,
Cesare
fece
ritorno
a
Roma.
Dopo
aver
sedato
i
numerosi
disordini,
celebrò
i
trionfi
ottenuti
in
Gallia
e in
Egitto,
quindi
elargì
ingenti
donativi
ai
soldati
impegnandosi
a
realizzare
riforme
durature.
Gli
venne
conferita
la
seconda
dittatura
per
dieci
anni
rei
gerundae
causa
e la
praefectura
morum
per
tre
anni,
oltre
alle
prerogative
della
potestà
tribunizia.
In
sintesi
divenne
il
padrone
assoluto
di
Roma.
D’altra
parte,
stando
a
Plutarco,
il
potere
tirannico
si
configurava
agli
occhi
dei
Romani
quale
unica
alternativa
al
dramma
delle
guerre
civili
(Caes.
LVII
1).
Pur
essendo
stato
nominato
dictator
perpetuus,
Cesare
non
si
mostrava
soddisfatto.
La
philotimia,
la
brama
di
gloria,
era
aspetto
predominante
del
suo
ethos:
era
animato
dalla
smania
di
progetti
sempre
più
grandi
e
ambiziosi.
E
proprio
tale
condizione
patologica
lo
avrebbe
condotto
verso
il
precipizio.
Definitivamente.
Nella
prospettiva
plutarchea,
la
morte
di
Cesare
«fu
opera
di
un
dio,
daimon,
che
indirizzava
e
guidava
là
l’azione»
(Caes.
LXVI
1).
Il
dictator
fu
assassinato
ai
piedi
della
statua
di
Pompeo,
dinanzi
alla
folla
interdetta
di
senatori,
in
una
sequenza
di
azioni
dall’elevato
valore
rituale.
Avvolto
da
una
schiera
di
spade,
«ovunque
volgesse
lo
sguardo
incontrando
solo
colpi
e il
ferro
sollevato
contro
il
suo
volto
e i
suoi
occhi,
inseguito
come
una
bestia,
venne
a
trovarsi
irretito
nelle
mani
di
tutti.
Era
infatti
necessario
che
tutti
avessero
parte
alla
strage
e
gustassero
del
suo
sangue»
(Caes.
LXVI
10 -
11).
L’immagine
della
bestia
trova
peraltro
riscontro
nella
rappresentazione
platonica
del
tiranno
quale
belva
feroce.
La
violenza
dei
congiurati
si
riversò
senza
pietà
sul
corpo
di
Cesare,
trafitto
da
ventitré
colpi.
Il
sangue
del
dittatore
bagnò
il
simulacro
di
Pompeo,
che
sembrava
gridare
vendetta.
La
Vita
di
Cesare
di
Plutarco
non
si
conclude
con
la
narrazione
della
morte
del
protagonista,
ma
con
il
suicidio
di
Bruto,
l’assassino
di
Cesare.
L’estrema
esaltazione
del
dominio
assoluto
e
incontrastato
del
daimon,
forza
vendicatrice
che
sempre
ha
guidato
l’eroe
amante
del
rischio
in
perenne
lotta
con
il
destino.
Fino
all’ultimo
respiro.