N. 87 - Marzo 2015
(CXVIII)
Caio Giulio Cesare
Ritratto di un dictator perpetuus in lotta con il destino - Parte I
di Paola Scollo
Come
tutti
i
grandi
personaggi
destinati
a
segnare
la
storia,
Caio
Giulio
Cesare
non
ha
goduto
di
fama
univoca
nel
corso
dei
secoli.
La
duplice
rappresentazione
di
dictator,
da
una
parte,
e di
padre
adottivo
di
Augusto,
dall’altra,
è da
porre
alle
origini
di
tali
giudizi
contrastanti.
Ma
l’ultimo
dittatore
di
Roma
fu
realmente
responsabile
della
crisi
irreversibile
della
libertas
oppure
si
pose
quale
fondatore
di
una
nuova
realtà
istituzionale?
È
questo
un
interrogativo
che
divide
e
che
merita
certo
una
risposta.
E il
racconto
di
Plutarco
nelle
Vite
parallele
può
rappresentare
un
valido
contributo
verso
una
maggiore
comprensione
e
consapevolezza.
Osserviamolo
puntualmente.
Nei
primi
capitoli
motivo
di
interesse
di
Plutarco
è il
crescente
favore
che
Cesare
riuscì
a
conquistarsi.
Metro
per
il
raggiungimento
del
potere
non
era
il
grado
del
cursus
honorum,
ma
la
popolarità.
Come
spiega
il
biografo,
riuscì
a
ottenere
progressivamente
una
certa
autorità
politica
grazie
ai
pranzi
che
imbandiva,
alla
tavola
e in
generale
alla
raffinatezza
del
modo
di
vivere
(Caes.
IV
5).
Dapprima
gli
avversari
sottovalutarono
il
favore
di
cui
Cesare
godeva
presso
i
concittadini,
ipotizzando
che
sarebbe
venuto
meno
in
parallelo
con
il
diminuire
delle
sostanze.
Tuttavia,
furono
poi
costretti
ad
ammettere
«che
non
si
deve
ritenere
trascurabile
all’inizio
nessuna
azione,
che
rapidamente
diventa
grande
se è
continua,
e
che
poi
diviene
irresistibile
se
non
viene
considerata
per
quel
che
è» (Caes.
IV
7).
E il
primo
ad
aver
temuto
la
“bonaccia”
dell’attività
politica
di
Cesare
-
come
quella
del
mare
- fu
Cicerone,
che
scorgeva
ambizioni
tiranniche.
Ma
lo
stesso
oratore,
vinto
dall’affabilità
di
Cesare,
ammetteva:
«Quando
vedo
i
suoi
capelli
così
ben
curati
e lo
vedo
grattarsi
la
testa
con
un
dito,
davvero
non
mi
pare
che
questo
uomo
possa
concepire
un
pensiero
così
funesto,
ossia
la
distruzione
della
costituzione
romana»
(Caes.
IV 8
-
9).
Come
tutti
i
politici
di
un
certo
rilievo
Cesare
doveva
ben
conoscere
e
praticare
la
dissimulatio,
ovvero
l’arte
del
“camaleontismo”.
Nonostante
l’atteggiamento
di
Cesare
sin
dall’adolescenza
possa
essere
reputato
una
chiara
anticipazione
della
potenza
futura,
fu
solo
in
seguito
all’elezione
a
pontifex
maximus
che
apparve
un
politico
temibile
per
il
senato
e
gli
ottimati.
I
tratti
demagogici
della
sua
condotta
apparvero
una
vera
e
propria
aspirazione
alla
tirannia
soltanto
con
il
trascorrere
del
tempo.
Di
qui
la
minaccia
per
la
libertas.
Di
fronte
agli
scontri
tra
i
seguaci
di
Mario
e di
Silla,
che
tormentavano
l’Urbe,
Cesare
scelse
di
sostenere
la
schiera
mariana.
Se
da
una
parte
in
molti
apprezzarono
tale
gesto,
lodando
Cesare
come
«l’unico
della
discendenza
di
Mario
che
ne
fosse
degno»,
altri
invece
iniziarono
ad
avvertire
segnali
di
una
politica
tirannica.
L’episodio
fu
oggetto
di
discussione
in
Senato.
Lutazio
Catulo
si
levò
ad
accusare
Cesare,
affermando:
«Cesare
cerca
di
arrivare
al
potere
non
più
con
gallerie,
ma
con
macchine
da
guerra»
(Caes.
VI
6).
Nel
68
a.C.
Cesare
fu
nominato
questore
della
Spagna
Ulteriore,
ottenendo
così
l’appoggio
dei
Transpadani
e di
Crasso.
Venne
poi
eletto
edile
per
il
65
a.C.,
nello
stesso
anno
in
cui
Crasso
ricopriva
la
censura.
Alla
morte
di
Metello
nel
63
a.C.
fu
eletto
pontifex
maximus,
nonostante
i
timori
del
senato
e
degli
ottimati,
convinti
che
avrebbe
condotto
il
popolo
a
qualsiasi
genere
di
eccesso.
Nel
62
a.C.
ottenne
la
pretura,
mentre
l’anno
seguente
fu
nominato
propretore
nella
Spagna
Ulteriore.
In
tale
occasione
rivelò
ottime
doti
di
comandante
e
amministratore.
Scrive
infatti
Plutarco:
«Dopo
aver
bene
sistemato
le
operazioni
belliche,
non
meno
bene
amministrava
i
problemi
della
pace,
rendendo
concordi
le
città
e
soprattutto
sanando
i
dissensi
fra
debitori
e
creditori.
[...]
Con
questo
procedere
si
guadagnò
buona
fama
e
quando
si
allontanò
dalla
provincia
era
diventato
ricco,
aveva
arricchito
i
soldati
con
le
spedizioni
ed
era
stato
da
loro
salutato
con
il
titolo
di
imperator»
(Caes.
XII
4).
Un
titolo
che,
concesso
dai
soldati
in
seguito
a un
trionfo,
veniva
di
solito
mantenuto
sino
al
termine
della
carica.
Giunto
a
Roma,
Cesare
fu
artefice
di
una
vera
e
propria
“macchinazione
politica”,
che
trasse
in
inganno
tutti,
ad
eccezione
di
Catone.
Si
trattava
del
cosiddetto
“Primo
Triumvirato”,
la
riconciliazione
tra
Pompeo
e
Crasso
che
di
fatto
segnò
l’arché
della
drammatica
stagione
delle
guerre
civili.
Nel
59
a.C.
fu
eletto
console
insieme
all’ottimate
Calpurnio
Bibulo.
Presentò
proposte
di
legge,
come
ad
esempio
la
Lex
Iulia
agraria,
adatte
più
che
a un
console
a
«un
tribuno
della
plebe
particolarmente
audace»
(Caes.
XIV
2).
Crasso
e
Pompeo
si
dichiararono
favorevoli
alla
legge
agraria,
laddove
il
senato
apparve
turbato
dall’idea
di
dover
affrontare
un
“mostro
a
tre
teste”.
La
legge,
grazie
all’appoggio
dei
Comizi
Tributi,
venne
approvata
all’unanimità.
Cesare
costrinse
i
senatori
a
non
opporsi
all’esecuzione,
pena
l’esilio.
Tutti,
Catone
compreso,
giurarono.
Durante
il
consolato
Cesare
si
impegnò
a
far
approvare
le
leggi
che
in
breve
tempo
gli
avrebbero
consegnato
un
potere
illimitato.
In
breve
tempo
il
potere
del
senato
venne
del
tutto
adombrato
dal
potere
personale
dei
tre
triumviri,
ognuno
dei
quali
era
sostenuto
da
un
folto
gruppo
di
clientes.
E
Cesare
si
rivelò
demagogo
tenace
e
tribuno
violento,
fautore
di
una
politica
di
opposizione
al
senato
e a
Catone.
Culmine
di
tale
strategia
fu
l’alleanza
con
Clodio,
personaggio
di
discutibile
onestà.