contemporanea
30
anni senza URSS
UN BilanciO, per la Russia
e per il mondo
di Gian Marco Boellisi
Per quanto inaspettati e poco auspicati,
alcuni eventi cambiano il corso della
storia dell’umanità. Solamente nel
secolo scorso se ne potrebbero enumerare
innumerevoli, tuttavia ve ne è uno in
particolare che ha cambiato la
concezione stessa di come percepiamo il
mondo di oggi. Il 25 dicembre 1991,
ovvero esattamente 30 anni fa, veniva
sciolta ufficialmente senza riserve
l’Unione delle Republiche Socialiste
Sovietiche, un’entità statale di
dimensioni immense che per quasi 50 anni
aveva rivaleggiato in tutti i campi con
il proprio avversario, ovvero gli Stati
Uniti.
Benchè siano passate ormai 3 decadi da
quella sera di dicembre dove venne
ammainata la bandiera sovietica dalla
torre del Cremlino per essere sostituita
con quella della Federazione Russa, le
conseguenze di quegli eventi permeano
oggi più che mai gli avvenimenti dello
scenario internazionale a cui assistiamo
tutti i giorni. È quindi interessante
cercare di fare un bilancio di quanto
sia cambiato il mondo a seguito di quel
giorno e di quanto le valutazioni
riguardo al futuro fatte all’epoca
fossero completamente sbagliate.
Partiamo dal principio. La caduta
dell’Unione Sovietica non avvenne in una
notte. Erano infatti ormai anni che
l’enorme stato socialista coltivava
problemi sempre maggiori, sia
all’interno dei propri confini sia in
quelli dei propri stati satellite e
alleati. Per l’Unione Sovietica il colpo
mortale che probabilmente sancì la sua
fine fu la guerra in Afghanistan,
conflitto durato 10 lunghissimi anni e
costato decine di migliaia di vite a
Mosca.
Questo conflitto dall’esito scontato fu
un vero e proprio salasso per l’economia
sovietica, la quale soffriva già da anni
di un fragilissimo equilibrio interno.
Fu proprio la situazione economica,
unita anche a una voglia diffusa di
rinnovamento tra i cittadini sovietici,
che fece inaugurare i due grandi cavalli
di battaglia del presidente Gorbačëv,
eletto nel 1985 segretario del partito
comunista a seguito della morte di
Konstantin Černenko: Glasnost’
(trasparenza) e Perestrojka
(ricostruzione).
Nonostante i vari tentativi perpetrati
negli anni, il destino dell’Europa
socialista era ormai segnato. Uno a uno
gli stati socialisti dell’Est, come solo
le tessere di un domino sanno fare,
caddero sotto le spinte di riforme
interne, rimpiazzando i vecchi regimi
con nuovi governi di unità nazionale.
Anche l’Unione Sovietica infine subì lo
stesso destino, con la Russia che prese
il suo posto all’interno del concerto
degli Stati e con un cambio di governo
altrettanto brusco. Tutti gli Stati
dell’ormai ex-Unione Sovietica
diventarono così indipendenti, formando
la traballante Comunità degli Stati
Indipendenti e facendo riemergere tutta
una serie di problematiche sociali,
etniche e politiche che erano rimaste
congelate sin dalla formazione
dell’Unione Sovietica stessa.
Proprio qui ebbe inizio forse il
decennio più buio della storia recente
russa. Guidata dal liberale e non troppo
affidabile Borís Él’cin (celebri sono i
video in cui scende dall’aereo ubriaco
incapace di mantenersi in piedi), la
nuova Russia si avviò all’integrazione
economica e sociale all’interno di una
comunità internazionale che per larga
parte l’aveva considerata una nemica per
quasi un secolo intero.
Per quanto la promessa di Él’cin di
costruire “un’economia di libero mercato
in 500 giorni” aveva fatto ben sperare
sia i cittadini russi sia gli
osservatori internazionali, il tutto si
dimostrò essere un buco nell’acqua e
nulla più. Con il sistema di voucher
istituito dallo stato russo, al posto di
dinamizzare l’economia la si rese
intrinsecamente debole e in mano a pochi
ex-membri del partito diventati
oscenamente ricchi nell’arco di poche
settimane. E così, cercando di entrare
nell’economia globalizzata, venne creato
invece un cancro intestino alla nazione
russa di difficile eradicazione anche ai
giorni nostri: gli oligarchi.
Come se non bastasse, disordini tra il
parlamento e il presidente e le spinte
centrifughe delle regioni meridionali,
ovvero Cecenia e Daghestan, portarono lo
stato russo e il popolo tutto sull’orlo
della frantumazione neanche 10 anni dopo
lo scioglimento dell’Unione Sovietica.
Vista la disastrosa situazione, nessuno
riuscì a prevedere la svolta radicale
alla nazione che sarebbe arrivata di lì
a pochi anni.
Uscito vincitore alle elezioni del 2000,
Vladimir Putin era un completo outsider,
con pochi vincoli politici, ma con forti
legami nei servizi segreti, per i quali
vantava una lunga e onorata carriera
nella Germania Est. Nell’arco di pochi
anni il nuovo presidente si mosse per
riportare la Russia tra i potenti nel
concerto delle potenze internazionali.
Dalla rinnovata politica estera alla
maggiore azione di governo in
investimenti pubblici, dalla fine della
guerra in Cecenia alle nuove politiche
energetiche europee e mondiali, Putin ha
saputo ridare l’orgoglio perduto ai
russi, orgoglio che non pensavano di
recuperare più dopo quella notte di
Natale del 1991.
Descrivere nel dettaglio l’intera
presidenza (o presidenze) di Putin
sarebbe eccessivamente lungo, tuttavia è
innegabile che molte delle sue opere di
governo siano state quanto meno
controverse e ottenute con mezzi non del
tutto canonici.
Basti pensare alle contraddizioni
vigenti oggi in Russia. Da un lato
abbiamo un paese che in ambito
internazionale cerca di espandere la
propria influenza in tutto il globo
cercando di guadagnare lentamente dalla
crisi dell’Occidente, e degli Stati
Uniti in particolare, mettendo in
difficoltà questi ultimi in svariati
scenari. Dall’altro lato vi è un paese
al cui interno il tenore di vita risulta
essere bassissimo, dove l’inflazione
ormai galoppa a ritmi mai visti prima e
l’ultimo adeguamento concreto degli
stipendi rispetto all’inflazione risale
a svariati anni fa. Complice di tutto
ciò è anche una mancata serie di
investimenti perpetrata negli anni che
ha contribuito a non ammodernare
economicamente il paese, ma a lasciarlo
sopravvivere sulle ceneri dell’Unione
Sovietica ancora oggi. Come molti poeti
e intellettuali hanno sottolineato
nell’arco della storia, la Russia è
sempre stata terra di grandi bellezze e
di altrettanto grandi contraddizioni.
Il merito tuttavia che non si può negare
a Putin è quello di aver tenuto a galla
la Russia in uno scenario internazionale
tra i più complessi mai presentatisi
nella storia dell’umanità. Basti pensare
infatti la cardinalità di quanto
successo nel 1991 con la caduta
dell’Unione Sovietica. Se infatti dal
1945 al 1991 il mondo aveva ragionato
per schemi bipolari, o per dirla in
termini più accademici secondo un
equilibrio di potenza, dopo la caduta
del blocco comunista rimase solo una
super-potenza a fare da
padre-padrone-guardiano al mondo intero.
Prova ne sia che gli anni ‘90 sono
considerati il decennio per eccellenza
del positivismo americano.
A testimonianza della superbia
statunitense di quegli anni, e anche in
parte arroganza, nel 1992 fu pubblicato
un saggio politico scritto dal
politologo Francis Fukuyama dal titolo “La
fine della storia e l’ultimo uomo”,
dove si asseriva che la vittoria del
capitalismo, unito alla democrazia
liberale come forma di governo, e più in
generale dello stile di vita occidentale
altro non era che il capolinea dello
sviluppo socioculturale dell’umanità e
pertanto la forma di governo definitiva
per l’intera specie umana. Indi per cui
la vittoria sul socialismo russo aveva i
tratti di una vera e propria fine della
storia.
Gli ultimi 20 anni di avvenimenti hanno
testimoniato quanto Fukuyama avesse
torto e di quanto gli Stati Uniti, nei
confronti della storia, non fossero
altro che un altro impero anch’esso
destinato un giorno a una prematura
caduta.
Con il passare degli anni si è passati
da un sistema bipolare a uno egemonico
unipolare negli anni ’90 a uno scenario
multipolare. Al giorni d’oggi infatti lo
scenario internazionale è caratterizzato
da tutta una serie di attori proiettati
globalmente con l’intenzione di
massimizzare la propria influenza al
meglio delle proprie capacità. È anche
innegabile tuttavia che gli Stati Uniti
mantengano uno status molto
elevato all’interno della comunità
internazionale. Basti pensare che la
stragrande maggioranza delle istituzioni
internazionali e finanziarie nate
all’indomani del Secondo Conflitto
Mondiale hanno sede ancora oggi negli
Stati Uniti. Per non parlare del fatto
che una delle due valute su cui si
basano gli scambi internazionali è
ancora il dollaro americano.
Nonostante questo dato di fatto, è
altrettanto importante osservare che da
un decennio a questa parte la leadership
internazionale statunitense sta
iniziando a essere sfidata in maniera
importante dalla Republica Popolare
Cinese, la quale ha conosciuto uno
sviluppo esponenziale negli ultimi anni
e che ora ambisce a ricoprire un ruolo
di primo piano all’interno dellla
comunità internazionale. Che sia dal
punto di vista economico, militare o del
soft power, la Cina ha sfruttato la sua
posizione chiave all’interno delle
filiere produttive dell’industria
globale per lanciare progetti economici
ad ampio respiro che coinvolgono
direttamente o indirettamente un terzo
delle economie del mondo. Il riferimento
qui alla Nuova Via della Seta è più che
palese.
Per quanto il confronto per il podio di
prima potenza mondiale sia tra Cina e
Stati Uniti, innumerevoli altri attori
competono sullo scacchiere
internazionale per ottenere maggiore
influenza. La Russia è senz’altro uno di
questi. Con il suo intervento in Siria e
innumerevoli collaborazioni con gli
stati africani in materia di difesa e
trattati commerciali, Mosca ha colmato
spesso i vuoti lasciati dall’influenza
europea e statunitense in quegli stati
ritenuti ingiustamente di secondaria
importanza.
In particolare Putin ha mostrato a
questi nuovi partner come la Russia
possa essere un alleato affidabile nel
breve e nel medio termine, soprattutto
se confrontato con i vecchi partner
coloniali o più in generale con le
agende occidentali, le quali si sono
dimostrate negli ultimi decenni mirate
solo al profitto nel breve termine senza
alcuna prospettiva politica di lungo
corso. Gli esempi che si possono fare
sono virtualmente infiniti: Afghanistan,
Iraq, Libia, Siria, Mali e Republica
Centrafricana sono solamente alcuni di
recente memoria.
Al di là della Russia, la quale cerca di
competere ancora a livello globale
nonostante le difficoltà economiche
intrinseche al suo sistema e una
tecnologia non sempre tra le più
moderne, vi sono sempre più Stati a
livello regionale che lottano per avere
maggiore peso nello scenario locale nel
quale si ritrovano proiettati. Un
esempio può essere l’Iran, il quale da
decenni cerca di espandere la propria
influenza agli stati arabi limitrofi,
sempre constrastato dalle azioni di
Israele e Arabia Saudita. Un altro caso
d’interesse è l’India, una della
maggiori economie mondiali in lotta sia
con il Pakistan che con la Cina per il
mantenimento dei propri confini senza
nessuna di queste due potenze eroda gli
interessi indiani nella zona.
Un altro esempio importante è l’Egitto,
Stato di primaria importanza sia dal
punto di vista politico sia da quello
economico (ricordiamo tutti le vicende
dello stretto di Suez di qualche mese
fa) che gioca un ruolo di rilevanza
vitale per gli equilibri
medio-orientali. Vi è anche la Turchia,
la quale grazie a una guida sempre più
autoritaria unita a delle politiche
sempre più aggressive nei confronti dei
propri vicini sta aumentando il proprio
peso su entrambe le sponde del
Mediterraneo. Infine una menzione a
parte va fatta per l’Unione Europea, la
quale ancora oggi risulta essere
frammentata in una serie di interessi
nazionali senza coesione dal punto di
vista della politica estera e mossa per
lo più dall’emergenza del momento
piuttosto che da una visione di lungo e
ampio respiro.
In conclusione, la caduta dell’Unione
Sovietica 30 anni fa ha cambiato la
storia per sempre. Non solo la storia
della Russia, ma anche quella del mondo
intero. Non più vincolato alla logica di
due uniche superpotenze, il mondo si è
evoluto in maniera estramente
imprevedibile, con l’emergere di potenze
regionali, attori non statali e grandi
corporazioni che determinano l’agire
politico ed economico della vita di
tutti i giorni.
Il cambiamento che ha subito la Russia
nel passaggio da un sistema socialista a
uno di stampo capitalista è stato
traumatico e violento, specialmente per
la popolazione russa, la quale ha visto
crollare le proprie certezze coltivate
per oltre 70 anni nell’arco di poche
settimane. Per quanto oggi Mosca non
ricopra neanche lontanamente il ruolo
predominante a livello internazionale
rispetto ai tempi dell’U.R.S.S., non si
può negare che la Russia oggi occupi una
posizione non indifferente all’interno
dello scacchiere globale.
Sebbene le sfide da affrontare per i
russi siano ancora tante e i
miglioramenti che la macchina statale
russa possa effettuare siano ancora di
più, dopo 30 anni dalla caduta dello
stato che Lenin aveva fondato si può
tranquillamente asserire che Fukuyama
aveva torto: la storia non è finita con
la caduta dell’Unione Sovietica, anzi è
appena arrivata al suo punto di svolta
più rivoluzionario. |