contemporanea
INCHIESTA SUL 25
LUGLIO
1943
parte iV /LA SOLIDARIETÀ
CHE MENO TI ASPETTI
di Federico Toscano
Un Panzer IV appartenente alla I divisione corazzata SS
“Leibstandarte Adolf Hitler” irrompe
nella mattina meneghina spezzando la
routine di un giorno feriale ai piedi
della Madonnina. L’“operazione Alarich”
è iniziata e la Wehrmacht sta occupando
le principali città della penisola senza
che il Regio Esercito sia in grado di
opporre efficace resistenza.
Questo ci racconta l’immagine iconica in copertina
all’articolo. Essa è stata realizzata
nel settembre 1943, ma sarebbe potuta
essere scattata già alla fine di luglio.
Per comprendere perché ciò non sia
accaduto, occorre spostarsi di qualche
centinaio di chilometri, da Milano alle
calli della città lagunare.
Venezia, 1° agosto 1943, Hotel Danieli
In una saletta privata si incontrarono per un colloquio
riservato il generale Cesare Amé,
comandante del SIM e un piccolo
entourage di personalità tedesche
composto da due colonnelli, Erwin von
Lahousen e Wessel Freytag von
Loringhoven che accompagnavano
l’ammiraglio Wilhelm Franz Canaris, a
capo dell’Abwehr, il servizio segreto
militare germanico.
Ufficialmente l’incontro era parte di una normale prassi di
scambio di informazioni tra i vertici
dell’intelligence di due paesi alleati,
ma l’occasione era ghiotta per i
convenuti per esprimere francamente le
loro posizioni sulla situazione militare
dell’Asse e sulla possibilità di
concludere anzitempo il conflitto
mondiale prima che le rispettive nazioni
venissero distrutte economicamente e
materialmente dalla strabiliante potenza
degli Alleati.
Non a caso, il generale Amé che nutriva una certa stima nei
confronti di Canaris non perse tempo per
aggiornarlo sugli sviluppi della
situazione politica italiana,
raccontando della seduta del Gran
Consiglio del 24 luglio e del successivo
arresto di Mussolini l’indomani a opera
dei militari, su ordine del Sovrano.
Dall’altra parte scoprì, ma se lo aspettava, un
interlocutore particolarmente
interessato: Canaris non era un nazista
ortodosso, anzi era ormai persuaso da
tempo della necessità di organizzare una
congiura di palazzo anche in Germina per
estromettere il Führer e la sua cricca
di fanatici e concludere una pace che
avrebbe risparmiato al suo paese le
devastazioni che poi effettivamente
patì.
L’ammiraglio dopo aver ascoltato il racconto del suo
omologo decise di rivelare ad Amé,
pregandolo, con fare preoccupato di
avvertire il Maresciallo Badoglio, che
Hitler era determinato a dare il via
all’operazione Alarico, il piano segreto
di invasione della penisola.
Il progetto tedesco assumeva il nome di un antico sovrano
visigoto, Alarico per l’appunto, che
riuscì a mettere a sacco Roma nell’anno
410 d.C. ed era stato elaborato nel
corso dei mesi precedenti il luglio
fatidico del 1943. Già dalla primavera
stavano giungendo, infatti, al comando
supremo tedesco voci allarmistiche circa
la possibilità di un colpo di mano per
estromettere il Duce dal potere: il
colonnello delle SS di stanza nella
Capitale, Eugen Dollmann, sempre ben
informato degli affari italiani,
riferendo a Himmler, si era detto sicuro
dell’esistenza “di piani neppure troppo
segreti di un colpo di Stato dei circoli
ben noti” e anzi già faceva valutazioni
su chi l’avrebbe alla fine spuntata in
un conflitto armato tra i fascisti e i
monarchici.
Stante queste notizie, il Comando supremo, riunitosi il 19
e 20 maggio, prese i primi
provvedimenti, non solo di rafforzamento
delle difese costiere e di invio di
divisioni nell’Italia meridionale, in
previsione di un probabile e prossimo
sbarco alleato, ma anche per cautelarsi
dalla non più remota possibilità di una
defezione italiana.
Iniziò in questo modo l’organizzazione dell’operazione
Alarico con l’affidamento del comando
del gruppo di armate B che avrebbero
dovuto occupare il nord Italia al
feldmaresciallo Erwin Rommel: egli era
una personalità che suscitava il
rispetto e anche l’ammirazione di molti
fascisti italiani e che si riteneva
potesse con la sua fama, acquisita sui
cambi di battaglia in nordfrica,
coinvolgere nella lotta quanti più
uomini possibile.
La zona settentrionale della penisola era, infatti, di
vitale importanza per il Reich, che
intendeva sfruttarla da un punto di
vista produttivo per accrescere le sue
capacità di resistenza rispetto
all’impatto con le superiori potenze
economiche americane e sovietiche.
A questo scopo era stato già predisposto un piano da parte
dell’ufficio armamenti della Wehrmacht,
nella persona del generale di divisione
von Horsting, per traferire in tutta
segretezza le materie prime essenziali e
buona parte degli impianti utili
all’industria bellica dal mezzogiorno,
che dunque assurgeva a ruolo di mero
campo di battaglia, fino all’Italia
settentrionale, settore funzionale
all’economia di guerra.
Roma, 1° agosto 1943, via Bruxelles, abitazione privata di Pietro Badoglio
Il Capo del Governo, appresa la notizia dell’imminente
azione militare tedesca, rimase
evidentemente sconcertato e iniziò a
temere seriamente per la sua sorte e per
quella della Corona ma nonostante ciò
agì con prontezza e mandò subito a
chiamare, per un incontro privato nel
suo appartamento romano, l’addetto
militare presso l’ambasciata germanica
Enno von Rintelen: i due si conoscevano
da diversi anni, avendo frequentato i
medesimi circoli monarchici dove si
intrattenevano saggiando liquori e vini
di prima qualità tra una partita a
bridge e l’altra.
Badoglio confidava di convincere l’amico tedesco ad
attivarsi in ogni modo per bloccare
l’iniziativa hitleriana.
Poco dopo il generale von Rintelen era nel suo
appartamento, e l’anziano Maresciallo,
nel farlo accomodare era coscio che
l’unica possibilità di poter scongiurare
una invasione dell’Italia risiedeva nel
far leva sui sentimenti monarchici
dell’addetto militare tedesco e sulla
sua estraneità rispetto alla causa
nazista: infatti sia quest’ultimo che
l’ambasciatore von Mackensen erano di
estrazione aristocratica e avevano
aderito al regime nazista più per
salvare i privilegi, le rendite e il
peso economico dell’antica casta
prussiana, minacciata dai rivolgimenti
sociali degli anni trenta, che per reale
condivisione dei programmi politici e
ideologici nazionalsocialisti.
In buona sostanza temevano che il loro ceto, anacronismo
ottocentesco, venisse spazzato via
dall’emergere del movimento operaio e
contadino con le sue rivendicazioni di
redistribuzione della ricchezza, di una
fiscalità più equa e di maggiori
garanzie sui diritti sociali e furono
ben felici di avallare l’ascesa del
nazismo che prometteva di stroncare il
movimento comunista.
Le camicie brune (SA), del resto, già prima del gennaio
1933, avevano dato vita a brutali
pestaggi e omicidi di sindacalisti e
leader politici delle formazioni di
sinistra e una volta divenuto
cancelliere fu lo stesso Hitler a far
arrestare e deportare nei primi campi di
concentramento i parlamentari
socialdemocratici, liberali e chiunque
si opponesse al nascente regime.
Ma i tempi erano cambiati e dieci anni dopo, il rapporto
tra aristocrazia tedesca e nazismo si
andava incrinando: le sorti del
conflitto mondiale si facevano
sfavorevoli per la Germania e il
pericolo comunista, nonostante i
propositi di annientamento hitleriani,
era ancor più temibile che in precedenza
e dunque gli esponenti della casta
militare prussiana erano adesso disposti
a smarcarsi dalla linea politica e
militare del Führer.
Tra questi vi era il generale Rintelen, che nel corso
dell’incontro sopracitato annotò su un
taccuino le argomentazioni del Capo del
Governo e sulla base delle posizioni
ideologiche predette, una più di tutte
lo convinse a imbarcarsi sul primo volo
diretto in Germania. Badoglio infatti,
nel congedarlo gli disse: “se il mio
governo crolla, sarà sicuramente
sostituito da un altro a tinta
bolscevica. E questo, caro amico, non è
nel nostro e neppure nel
vostro interesse”.
Turbato dalle previsioni alquanto nefaste del maresciallo,
Rintelen, rapidamente si mise in viaggio
alla volta della Tana del Lupo per una
missione quasi disperata: lo attendeva
infatti il Führer. Era quest’ultimo, già
particolarmente diffidente nei confronti
dei diplomatici tedeschi a Roma, che
l’addetto militare doveva convincere
circa la buona fede del nuovo governo
italiano.
Egli in un primo momento, con l’aiuto di alcuni generali
vicini a Hitler, dubbiosi quanto lui
circa l’opportunità di avviare Alarico,
riuscì a prendere tempo, rinviando la
decisione finale all’esito di un
incontro tra gli stati maggiori generali
italo-tedeschi da tenersi a Tarvisio.
Ma proprio quando tutto sembrava ormai perduto, giunse un
inaspettato aiuto al povero Rintelen: il
generale delle SS Josep Dietrich,
fedelissimo del Führer e a capo della
potente ed efficiente divisione
corazzata “Leibstandarte Adolf Hitler”
era arrivato a Roma per predisporre
personalmente l’arresto del Re Vittorio
Emanuele III, del Principe ereditario
Umberto e di tutto il governo italiano.
Egli parlando con il colonnello Dollmann, si era persuaso
della intempestività dell’azione
tedesca, utile solamente per fornire il
pretesto per una plateale rottura
dell’alleanza da parte dell’Italia.
Dietrich temeva che in quel frangente si
sarebbe solamente aperto un ulteriore
fronte di combattimento nelle retrovie
in un quadro di pesante incertezza
militare.
Da lui arrivò quindi la spinta decisiva, che convinse
definitivamente Hitler a sospendere
l’esecuzione di Alarico il 3 agosto,
dando la possibilità così al Colpo di
Stato del 25 luglio di ottenere un
successo, quantomeno insperato alla
vigilia.
Riferimenti bibliografici:
A. Petacco, S. Zavoli, Dal Gran
Consiglio al Gran Sasso, una storia da
rifare, Mondadori, Milano, 2013.
L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca
in Italia 1943-1945, Bollati
Boringhieri, Torino, 1993 (ed. or.,
Zwischem Bündnis und Besatzung.
Das nationalsozialistiche Deutschland
und die Rupublik von Salò 1943 bis 45,
Max Niemeyer Verlag GmbH & Co.
KG, Tübingen, 1993). |