[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 153 / SETTEMBRE 2020 (CLXXXIV)


contemporanea

INCHIESTA SUL 25 LUGLIO 1943

PARTE III / STRATEGIA DEI SAVOIA E CONGIURA DEI MILITARI

di Federico Toscano

 

Nei fatidici giorni di fine luglio 1943 in cui si consumò la resa dei conti all’interno del partito fascista, veniva data attuazione finale, non senza problematiche dell’ultimo momento, al piano di esautorazione dal potere di Mussolini, predisposto in segreto e di concerto tra la Casa Reale e lo Stato Maggiore Generale.

 

Già a partire dal febbraio 1943 era maturato negli ambienti militari vicini al Sovrano l’intendimento di mettere fine al regime fascista e di avviare lo sganciamento dell’Italia dalle sorti dell’Asse. Per mesi tra Palazzo Vidoni, sede appunto dello Stato Maggiore e il Quirinale si lavorò alacremente all’operazione che sarebbe dovuta scattare lunedì 26 luglio, al termine della consueta udienza del Capo del Governo a Palazzo Reale, prima che la riunione del Gran Consiglio facesse rapidamente precipitare la situazione.

 

Febbraio 1943

La situazione militare italiana è gravemente compromessa su ogni fronte: nel novembre 1942 la disfatta di El Alamein aveva segnato l’inizio della fine per le truppe coloniali rinforzate dai reparti tedeschi dell’ “Africa Korps” che inesorabilmente avrebbero perduto il controllo sulla Libia e stretti in una tenaglia da est e da ovest adesso si attestavano per una disperata resistenza in Tunisia.

 

Da pochi giorni era arrivata la notizia della resa della VI armata della Wehrmacht al comando del feldmaresciallo Von Paulus ai sovietici nella sacca di Stalingrado, sintomo che anche il fronte orientale, dove poco tempo prima l’Armir era stato travolto, iniziava a scricchiolare.

 

La penisola era  in oltre dall’entrata in guerra pesantemente bersagliata dai bombardieri alleati che in diverse incursioni avevano distrutto gli impianti industriali del nord (Torino, Milano e Genova), le principali direttrici ferroviarie e stradali e i porti del mezzogiorno. La popolazione civile mostrava sempre più insofferenza, esplosa con le contestazioni e gli scioperi di marzo, verso le ristrettezze economiche imposte dallo sforzo bellico. In questo contesto veniva nominato, grazie ai buoni uffici di Ciano, il nuovo Capo di Stato Maggiore Generale, Vittorio Ambrosio. 

 

Il genero del Duce aveva caldeggiato la nomina del generale perché anche quest’ultimo, come lui era persuaso circa la necessità di negoziare una pronta uscita dell’Italia dal conflitto e pensava magari di assicurarsi una buona sponda per far valere le sue ragioni tra gli altri gerarchi e presso lo stesso Mussolini.

 

Pochi giorni dopo l’avvicendamento allo Stato Maggiore però, il 6 febbraio, il Duce varò un ampio rimpasto di governo assumendo l’interim del dicastero degli Esteri e allontanando Ciano dagli ambienti più influenti di Palazzo Chigi.

 

Rimanevano così della partita Ambrosio e il suo collaboratore più vicino, il generale Giuseppe Castellano, che in special modo dopo l’infruttuoso incontro austriaco tra il Duce e il Führer (7-11 aprile a Salisburgo) iniziarono ad architettare un vero e proprio Colpo di Stato.

 

Il piano messo a punto da Castellano prevedeva la neutralizzazione delle principali forze militari fasciste, l’arresto di Benito Mussolini e degli alti papaveri, in particolare gli elementi più radicali del partito che avrebbero potuto organizzare la resistenza in armi al Colpo di Stato e infine la mobilitazione di un buon numero di reparti del Regio Esercito che avrebbero dovuto contrastare la reazione tedesca al diffondersi della notizia. Il progetto, che riscontrò la generale approvazione dell’élite militare fu però riposto nel cassetto in attesa del decisivo nulla osta da parte del Sovrano. 

 

Trascorse qualche mese in cui la situazione bellica e politica precipitò ancor di più. Mussolini pareva, pubblicamente almeno, sempre più cieco dinanzi alla gravità della situazione militare tant’è che dichiarava poco prima dello sbarco alleato in Sicilia che il regio esercito era pronto a fermare gli invasori sulla linea che “i marinai chiamano del bagnasciuga”.

 

Egli però in cuor suo era coscio dell’impreparazione delle truppe e della disorganizzazione delle nostre difese costiere, ma ormai succube politicamente del Führer, poiché timoroso della possibile reazione militare germanica, non riuscì mai ad essere sincero sulle reali possibilità delle armi italiane e sulla tenuta scarsa del sistema industriale e produttivo.

 

Il 22 luglio, nel corso di un colloquio con il Sovrano, quest’ultimo maturò la scelta finale di esautorarlo e  prese contatto con l’élite militare per predisporre il Colpo di Stato: Vittorio Emanuele assunse questa  decisione sofferta anche pensando al futuro di casa Savoia al termine del conflitto e a come la popolazione civile avrebbe reagito nel prevedibile momento di attribuzione delle responsabilità per una guerra tanto inutile strategicamente quanto mal condotta.

 

Il Re aveva, del resto, toccato con mano il disappunto e l’insofferenza degli italiani, anche nei confronti della Corona, nella visita avvenuta qualche giorno prima al quartiere San Lorenzo della capitale, devastato dal raid aereo alleato del 19 luglio, dove gli abitanti lo avevano accolto, a differenza del pontefice Pio XII, con freddezza e sfiducia.

 

In accordo con i militari dunque si decise, come accennato in precedenza, di entrare in azione nel corso dell’udienza consueta del Capo del Governo al Quirinale prevista per lunedì 26: erano state vagliate diverse possibilità compreso un blitz a Palazzo Venezia, poi scartato per la presenza di troppe guardie armate.

 

La scelta  infine ricadde sul Palazzo Reale data la possibilità di isolare Mussolini dalla sua scorta, che nel corso dell’incontro avrebbe stazionato con i mezzi nella piazza antistante. Una volta preso in custodia egli sarebbe stato caricato su un’autoambulanza per essere portato fuori da un uscita secondaria su via XX settembre.

 

Questi intendimenti vennero vanificati però dalla richiesta da parte di Mussolini di anticipare l’incontro alla domenica pomeriggio: ciò comportò che il comandante generale dei carabinieri Angelo Cerica, incaricato di occuparsi della cattura del Duce, dovette riorganizzare l’arresto a Villa Savoia nascondendo uomini e mezzi nel giardino della residenza reale. Nel frattempo si era provveduto ad isolare telefonicamente Palazzo Venezia dai principali ministeri e dal comando generale della milizia cosicché sarebbe risultato più difficile per i fedelissimi organizzare una resistenza in armi.

 

Una volta terminata l’operazione: l’ex Capo del Governo fu fatto uscire assieme al suo segretario particolare Niccolò De Cesare dalla villa all’insaputa della scorta, che infatti lo attese dinanzi l’ingresso principale fino alle 21, subito due incaricati, il generale Giuseppe Castellano e il maggiore Luigi Marchesi, armato di rivoltella, si recarono al Viminale.

 

Qui, sollevato dall’incarico il sottosegretario Albini, assieme a Carmine Senise, appena designato Capo del dipartimento di pubblica sicurezza, i due militari redassero le disposizioni per i prefetti, i quali avrebbero dovuto vigilare con il massimo rigore e scrupolo sui possibili disordini che si sarebbero verificati nelle ore e nei giorni successivi l’annuncio della fine del regime fascista: non sarebbe stata tollerata alcuna manifestazione di dissenso come di giubilo, gli scioperi rimanevano vietati e la censura sulla stampa in essere.

 

Tutte queste misure avevano lo scopo evidente di non allarmare gli alleati tedeschi, che già presenti in forze sul territorio nazionale, avevano da tempo predisposto un piano ben congegnato, l’operazione Alarico, per assumere il controllo della penisola se il governo italiano si fosse sganciato unilateralmente dall’alleanza.

 

Le operazioni si conclusero definitivamente a fine giornata, alle 22:45 con l’annuncio radiofonico  dello speaker Giovanni Battista Arista che informava la popolazione delle dimissioni di Mussolini e della nomina come nuovo Capo del Governo del maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Seguiva la lettura di due comunicati, uno del Sovrano, l’altro del Primo Ministro, che precisavano che la guerra al fianco degli alleati dell’Asse continuava e incitavano la popolazione e i militari ad onorare gli impegni assunti e a resistere agli invasori.

 

Arrivati a questo punto sorgono però inevitabili dei quesiti. Che cosa permise a questo piano che si inseriva in un contesto così incerto di giungere in porto?

 

Perché gli esponenti fascisti che non avevano condiviso l’ordine del giorno Grandi la sera prima o che erano noti per la loro ortodossia e fedeltà al Duce non organizzarono una resistenza armata al Colpo di Stato, o ancora, perché i tedeschi non reagirono dando il via alla già menzionata operazione Alarico?

 

A tal proposito tra l’altro va detto che nonostante le cautele la notizia della caduta del regime fascista era già arrivata alla “Tana del Lupo”, il quartier generale di Hitler nella Prussia orientale, alle 19:00 di domenica 25 luglio, ben prima dell’annuncio radiofonico: dunque il Führer e il suo entourage avrebbero avuto tutto il tempo per organizzare nelle ore e nei giorni immediatamente successivi una reazione militare in grado di aver ragione delle truppe italiane.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

A. Petacco, S. Zavoli, Dal Gran Consiglio al Gran Sasso, una storia da rifare, Mondadori, Milano 2013. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]