contemporanea
INCHIESTA SUL 25 LUGLIO 1943
PARTE III / STRATEGIA DEI SAVOIA E
CONGIURA DEI MILITARI
di Federico Toscano
Nei fatidici giorni di fine luglio 1943
in cui si consumò la resa dei conti
all’interno del partito fascista, veniva
data attuazione finale, non senza
problematiche dell’ultimo momento, al
piano di esautorazione dal potere di
Mussolini, predisposto in segreto e di
concerto tra la Casa Reale e lo Stato
Maggiore Generale.
Già a partire dal febbraio 1943 era
maturato negli ambienti militari vicini
al Sovrano l’intendimento di mettere
fine al regime fascista e di avviare lo
sganciamento dell’Italia dalle sorti
dell’Asse. Per mesi tra Palazzo Vidoni,
sede appunto dello Stato Maggiore e il
Quirinale si lavorò alacremente
all’operazione che sarebbe dovuta
scattare lunedì 26 luglio, al termine
della consueta udienza del Capo del
Governo a Palazzo Reale, prima che la
riunione del Gran Consiglio facesse
rapidamente precipitare la situazione.
Febbraio 1943
La situazione militare italiana è
gravemente compromessa su ogni fronte:
nel novembre 1942 la disfatta di El
Alamein aveva segnato l’inizio della
fine per le truppe coloniali rinforzate
dai reparti tedeschi dell’ “Africa Korps”
che inesorabilmente avrebbero perduto il
controllo sulla Libia e stretti in una
tenaglia da est e da ovest adesso si
attestavano per una disperata resistenza
in Tunisia.
Da pochi giorni era arrivata la notizia
della resa della VI armata della
Wehrmacht al comando del feldmaresciallo
Von Paulus ai sovietici nella sacca di
Stalingrado, sintomo che anche il fronte
orientale, dove poco tempo prima l’Armir
era stato travolto, iniziava a
scricchiolare.
La penisola era in oltre dall’entrata
in guerra pesantemente bersagliata dai
bombardieri alleati che in diverse
incursioni avevano distrutto gli
impianti industriali del nord (Torino,
Milano e Genova), le principali
direttrici ferroviarie e stradali e i
porti del mezzogiorno. La popolazione
civile mostrava sempre più insofferenza,
esplosa con le contestazioni e gli
scioperi di marzo, verso le ristrettezze
economiche imposte dallo sforzo bellico.
In questo contesto veniva nominato,
grazie ai buoni uffici di Ciano, il
nuovo Capo di Stato Maggiore Generale,
Vittorio Ambrosio.
Il genero del Duce aveva caldeggiato la
nomina del generale perché anche
quest’ultimo, come lui era persuaso
circa la necessità di negoziare una
pronta uscita dell’Italia dal conflitto
e pensava magari di assicurarsi una
buona sponda per far valere le sue
ragioni tra gli altri gerarchi e presso
lo stesso Mussolini.
Pochi giorni dopo l’avvicendamento allo
Stato Maggiore però, il 6 febbraio, il
Duce varò un ampio rimpasto di governo
assumendo l’interim del dicastero degli
Esteri e allontanando Ciano dagli
ambienti più influenti di Palazzo Chigi.
Rimanevano così della partita Ambrosio e
il suo collaboratore più vicino, il
generale Giuseppe Castellano, che in
special modo dopo l’infruttuoso incontro
austriaco tra il Duce e il Führer (7-11
aprile a Salisburgo) iniziarono ad
architettare un vero e proprio Colpo di
Stato.
Il piano messo a punto da Castellano
prevedeva la neutralizzazione delle
principali forze militari fasciste,
l’arresto di Benito Mussolini e degli
alti papaveri, in particolare gli
elementi più radicali del partito che
avrebbero potuto organizzare la
resistenza in armi al Colpo di Stato e
infine la mobilitazione di un buon
numero di reparti del Regio Esercito che
avrebbero dovuto contrastare la reazione
tedesca al diffondersi della notizia. Il
progetto, che riscontrò la generale
approvazione dell’élite militare fu però
riposto nel cassetto in attesa del
decisivo nulla osta da parte del
Sovrano.
Trascorse qualche mese in cui la
situazione bellica e politica precipitò
ancor di più. Mussolini pareva,
pubblicamente almeno, sempre più cieco
dinanzi alla gravità della situazione
militare tant’è che dichiarava poco
prima dello sbarco alleato in Sicilia
che il regio esercito era pronto a
fermare gli invasori sulla linea che “i
marinai chiamano del bagnasciuga”.
Egli però in cuor suo era coscio
dell’impreparazione delle truppe e della
disorganizzazione delle nostre difese
costiere, ma ormai succube politicamente
del Führer, poiché timoroso della
possibile reazione militare germanica,
non riuscì mai ad essere sincero sulle
reali possibilità delle armi italiane e
sulla tenuta scarsa del sistema
industriale e produttivo.
Il 22 luglio, nel corso di un colloquio
con il Sovrano, quest’ultimo maturò la
scelta finale di esautorarlo e prese
contatto con l’élite militare per
predisporre il Colpo di Stato: Vittorio
Emanuele assunse questa decisione
sofferta anche pensando al futuro di
casa Savoia al termine del conflitto e a
come la popolazione civile avrebbe
reagito nel prevedibile momento di
attribuzione delle responsabilità per
una guerra tanto inutile strategicamente
quanto mal condotta.
Il Re aveva, del resto, toccato con mano
il disappunto e l’insofferenza degli
italiani, anche nei confronti della
Corona, nella visita avvenuta qualche
giorno prima al quartiere San Lorenzo
della capitale, devastato dal raid aereo
alleato del 19 luglio, dove gli abitanti
lo avevano accolto, a differenza del
pontefice Pio XII, con freddezza e
sfiducia.
In accordo con i militari dunque si
decise, come accennato in precedenza, di
entrare in azione nel corso dell’udienza
consueta del Capo del Governo al
Quirinale prevista per lunedì 26: erano
state vagliate diverse possibilità
compreso un blitz a Palazzo Venezia, poi
scartato per la presenza di troppe
guardie armate.
La scelta infine ricadde sul Palazzo
Reale data la possibilità di isolare
Mussolini dalla sua scorta, che nel
corso dell’incontro avrebbe stazionato
con i mezzi nella piazza antistante. Una
volta preso in custodia egli sarebbe
stato caricato su un’autoambulanza per
essere portato fuori da un uscita
secondaria su via XX settembre.
Questi intendimenti vennero vanificati
però dalla richiesta da parte di
Mussolini di anticipare l’incontro alla
domenica pomeriggio: ciò comportò che il
comandante generale dei carabinieri
Angelo Cerica, incaricato di occuparsi
della cattura del Duce, dovette
riorganizzare l’arresto a Villa Savoia
nascondendo uomini e mezzi nel giardino
della residenza reale. Nel frattempo si
era provveduto ad isolare
telefonicamente Palazzo Venezia dai
principali ministeri e dal comando
generale della milizia cosicché sarebbe
risultato più difficile per i
fedelissimi organizzare una resistenza
in armi.
Una volta terminata l’operazione: l’ex
Capo del Governo fu fatto uscire assieme
al suo segretario particolare Niccolò De
Cesare dalla villa all’insaputa della
scorta, che infatti lo attese dinanzi
l’ingresso principale fino alle 21,
subito due incaricati, il generale
Giuseppe Castellano e il maggiore Luigi
Marchesi, armato di rivoltella, si
recarono al Viminale.
Qui, sollevato dall’incarico il
sottosegretario Albini, assieme a
Carmine Senise, appena designato Capo
del dipartimento di pubblica sicurezza,
i due militari redassero le disposizioni
per i prefetti, i quali avrebbero dovuto
vigilare con il massimo rigore e
scrupolo sui possibili disordini che si
sarebbero verificati nelle ore e nei
giorni successivi l’annuncio della fine
del regime fascista: non sarebbe stata
tollerata alcuna manifestazione di
dissenso come di giubilo, gli scioperi
rimanevano vietati e la censura sulla
stampa in essere.
Tutte queste misure avevano lo scopo
evidente di non allarmare gli alleati
tedeschi, che già presenti in forze sul
territorio nazionale, avevano da tempo
predisposto un piano ben congegnato,
l’operazione Alarico, per assumere il
controllo della penisola se il governo
italiano si fosse sganciato
unilateralmente dall’alleanza.
Le operazioni si conclusero
definitivamente a fine giornata, alle
22:45 con l’annuncio radiofonico dello
speaker Giovanni Battista Arista che
informava la popolazione delle
dimissioni di Mussolini e della nomina
come nuovo Capo del Governo del
maresciallo d’Italia Pietro Badoglio.
Seguiva la lettura di due comunicati,
uno del Sovrano, l’altro del Primo
Ministro, che precisavano che la guerra
al fianco degli alleati dell’Asse
continuava e incitavano la popolazione e
i militari ad onorare gli impegni
assunti e a resistere agli invasori.
Arrivati a questo punto sorgono però
inevitabili dei quesiti. Che cosa
permise a questo piano che si inseriva
in un contesto così incerto di giungere
in porto?
Perché gli esponenti fascisti che non
avevano condiviso l’ordine del giorno
Grandi la sera prima o che erano noti
per la loro ortodossia e fedeltà al Duce
non organizzarono una resistenza armata
al Colpo di Stato, o ancora, perché i
tedeschi non reagirono dando il via alla
già menzionata operazione Alarico?
A tal proposito tra l’altro va detto che
nonostante le cautele la notizia della
caduta del regime fascista era già
arrivata alla “Tana del Lupo”, il
quartier generale di Hitler nella
Prussia orientale, alle 19:00 di
domenica 25 luglio, ben prima
dell’annuncio radiofonico: dunque il
Führer e il suo entourage avrebbero
avuto tutto il tempo per organizzare
nelle ore e nei giorni immediatamente
successivi una reazione militare in
grado di aver ragione delle truppe
italiane.
Riferimenti bibliografici:
A. Petacco, S. Zavoli, Dal Gran
Consiglio al Gran Sasso, una storia da
rifare, Mondadori, Milano 2013. |