contemporanea
Inchiesta sul 25 luglio 1943
PARTE II / IL CONTRIBUTO DI DINO GRANDI
ALLA CADUTA DEL FASCISMO
di Federico Toscano
Ricostruire le intenzioni dei membri del
Gran Consiglio del fascismo che hanno
votato l’ordine del giorno a prima firma
Dino Grandi è opera complessa, ma deve
necessariamente partire dalla
decifrazione della figura e delle
determinazioni del promotore principale
di questa iniziativa: il conte di
Mordano.
Dino Grandi, scrivendo la prefazione
introduttiva al suo libro sulla seduta
del Gran Consiglio del 24 e del 25
luglio, uscito nel 1983 per i tipi de il
Mulino, aveva definito quell’evento come
atto che aveva le sue profonde radici in
un intima avversione nei confronti delle
politiche praticate dal regime, maturata
nel corso degli anni a partire dal 1932:
“[…] se pur ha trovato l’ambiente
nelle tragiche vicende vissute
dall’Italia nel 1943, ha le sue radici
lontane, […]”.
Di questa interpretazione da parte dello
stesso protagonista in realtà non si
trova riscontro nelle dichiarazioni
pubbliche e in alcun atto dell’uomo
politico bolognese: egli cioè non
manifestò mai il suo dissenso.
Sarebbe facile obbiettare che in un
regime quantomeno autoritario non vi
sarebbe stato spazio per opposizioni
esterne o interne che fossero e per
questo, per valutare la buona fede delle
affermazioni di Grandi, è necessario
scandagliare le sue realizzazioni per il
regime fascista, atte a testimoniare più
delle parole la sua posizione.
Osservando anche solo la conclusione
della sua carriera in qualità di
Ministro di Grazia e Giustizia, carica
che detenne sino al 6 febbraio 1943, si
registra come egli fu il grande artefice
del nuovo Codice Civile, datato marzo
1942, che occorre sottolineare sarà uno
dei lasciti più duraturi del regime,
essendo esso in vigore nella sua
struttura portante, seppur variamente
emendato, tutt’oggi.
A tal proposito, lo stesso Grandi nella
relazione di presentazione del nuovo
codice al sovrano, datata 21 aprile 1942
scriveva: “il codice del popolo
italiano, quale lo hanno forgiato e
organizzato le forze della Rivoluzione
fascista”.
Questi elementi inducono a ritenere poco
credibile la professione di dissenso e
la presa di distanza dalle politiche del
regime di cui parlò il gerarca nel
dopoguerra, essendo evidente che egli
agì quale uno dei migliori interpreti
dei principi dell’ideologia fascista e
in qualità di importante legislatore per
il regime sino a pochi mesi prima della
caduta dello stesso.
Dino Grandi, inoltre, anche
nell’immediatezza della data fatale del
24 luglio, non mostrò mai con chiarezza
di avere elaborato un piano adeguato per
estromettere Mussolini dal governo del
paese, anzi, pareva non avere alcuna
idea di come procedere.
Quanto appena affermato è dimostrato dal
contenuto di un colloquio che egli ebbe
con il Re Vittorio Emanuele III,
tenutosi poco più di un mese prima i
fatti di cui ci stiamo occupando, il 4
giugno 1943, in occasione della
presentazione di una relazione
sull’andamento dei lavori della Camera
dei Fasci e delle Corporazioni. Nel
corso dell’incontro, il sovrano ebbe
infatti modo di indicare a Grandi che
era necessario affinché egli agisse una
legittimazione politica conferitagli o
da una deliberazione della maggioranza
dei consiglieri della Camera, oppure in
alternativa da un voto del Gran
Consiglio che avrebbe fornito la forza
politica appunto (la facoltà
costituzionale era già affidata al Re
dallo Statuto), per imporre le
dimissioni a Mussolini. In sostanza fu
lo stesso Vittorio Emanuele a tracciare
la strada e a sollecitare il Presidente
della Camera dei Fasci e delle
Corporazioni e non viceversa, affinché
egli si attivasse per ottenere un
pronunciamento di uno dei due organi.
Ma ciò che più concorre a smentire il
racconto dato, a posteriori, da Dino
Grandi circa il suo contributo alla
caduta del regime fu il suo
atteggiamento a seguito dell’incontro
menzionato. Egli infatti, non solo
soggiornò per buona parte del mese di
luglio nella sua Bologna, tenendosi
dunque ben distante dagli ambienti
politici romani e non sollecitando
alcuna convocazione del supremo organo
del fascismo, ma addirittura maturò
l’idea di lasciare la Presidenza della
Camera dei Fasci e delle Corporazioni: a
tal proposito egli si era addirittura
premurato di avvertire colui che
riteneva essere un buon successore,
Giuseppe Bottai.
Occorre segnalare che se tale
avvicendamento fosse realmente avvenuto
prima del fatidico 24 luglio, in assenza
di altra collocazione in un nuovo
incarico istituzionale o presso il
partito, Grandi sarebbe decaduto dal
Gran Consiglio e dunque evidentemente,
non vi sarebbe stato alcun ordine del
giorno a sua firma.
Coloro che invece si adoperarono per
creare un’occasione di dibattito sulla
grave crisi militare, che andava
acuendosi sempre più con l’avanzata
delle truppe alleate in Sicilia, furono
il segretario nazionale del partito
Carlo Scorza e altri gerarchi tra cui
l’ex ministro per l’Educazione Nazionale
Giuseppe Bottai.
Essi, venerdì 16 luglio si diedero
appuntamento presso la sede romana del
partito a Palazzo Wedekind in Piazza
Colonna, ufficialmente per preparare le
adunate fasciste che si sarebbero dovute
tenere quella domenica al fine di
risollevare il morale della nazione e
incitare la popolazione civile alla
resistenza nei confronti dell’invasore,
ma in realtà il tema all’ordine del
giorno prevedeva un franco dibattito
circa le possibili vie d’uscita da un
conflitto che giorno dopo giorno si
rivelava sempre più disastroso per le
armi italiane.
Al termine della riunione, tutti i
convenuti concordarono per recarsi in
udienza dal Duce nel pomeriggio dello
stesso giorno e richiedere un’urgente
convocazione del Gran Consiglio, che
Mussolini, seppur restio dovette
accettare. Di questo drappello in 9
voteranno l’ordine del giorno Grandi,
assente però nell’occasione e ancora
senza una precisa idea sul da farsi.
Giunti a questo punto occorre analizzare
ciò che avvenne in seguito alla
convocazione ufficiale dell’organo
avvenuta nella giornata di lunedì 19
luglio, in seguito al ritorno del Duce
dal convegno di Feltre: egli in un
incontro avuto con Scorza a Villa
Torlonia aveva ordinato di fissare
l’assise per sabato 24 alle ore 17.
Dino Grandi, già aveva posto mano a una
prima bozza dell’ordine del giorno a sua
firma il giorno 15, prima di apprendere
la notizia della convocazione del Gran
Consiglio. In questa prima stesura si
chiedeva con radicalità il ripristino
delle prerogative regie, ma non solo,
anche quelle del Consiglio dei Ministri
come supremo organo di indirizzo
politico del governo e la soppressione
della Camera dei Fasci e delle
Corporazioni con il conseguente
ripristino della Camera dei Deputati.
Il testo non si esauriva qui: era
infatti proposta l’abolizione dei più
rilevanti istituti autoritari con il
conseguente ristabilimento della libertà
di manifestazione del pensiero e di
attività politica. Il PNF dunque avrebbe
cessato di essere l’unico partito
ammesso per legge e secondo gli
intendimenti di Grandi doveva
interrompere ogni interferenza con la
pubblica amministrazione.
Il gerarca dunque decise di partire per
rientrare a Roma (secondo due versioni
discordanti che ha fornito o lunedì 19
sera o martedì 20) con un testo che
faceva intendere la chiara volontà di
liquidare il regime e non poteva che
comportare una inequivocabile sfiducia
politica nei confronti del Capo del
Governo.
Nel corso delle giornate romane
antecedenti il 24 luglio, la bozza
dell’ordine del giorno però subì alcune
modifiche che ne andarono a mitigare
l’impatto. Nella seconda stesura in
effetti sparirono i riferimenti al
ripristino della libera attività
politica e anzi trapelava la richiesta
di una maggiore centralità del PNF come
elemento fondamentale di organizzazione
del consenso e di educazione alla vita
pubblica per la popolazione italiana, ma
fu l’ultima bozza, quella definitiva,
che mostrò i più rilevanti mutamenti.
La versione in questione dell’ordine del
giorno fu scritta a quattro mani da
Grandi e da Giuseppe Bottai e a
giudicare dalla trascrizione che
quest’ultimo fece del testo sul suo
diario personale si nota come vi sia
stata anzitutto una rilevante
compressione nella grandezza, ma anche
come furono stralciate le considerazioni
articolate e le richieste puntuali
svolte nelle precedenti bozze: in
particolare il ripristino della libertà
di manifestazione del pensiero e il
ristabilimento di un consolidato potere
legislativo, nonché la reintroduzione
del basilare principio della
collegialità nell’azione di governo,
rappresentato dal Consiglio dei Ministri
più che dal Gran Consiglio del fascismo,
di cui nelle due stesure vergate da
Grandi era chiesta la soppressione.
Probabilmente per esigenze di sintesi,
molte delle argomentazioni sopra citate
furono condensate in proposizioni
generiche, che però frustravano buona
parte del lavoro preparatorio che il
gerarca bolognese aveva svolto.
In definitiva, le evidenze menzionate in
questa breve disamina permettono di
affermare che il ruolo svolto da Dino
Grandi nel corso delle cruciali giornate
del 24 e del 25 luglio 1943 rispetto
agli altri 18 gerarchi “traditori” fu
indebitamente accresciuto da lui stesso
tramite ricostruzioni imprecise e poco
veritiere nel dopoguerra e che esso non
rappresentò probabilmente il fattore
decisivo per la caduta del regime.
Riferimenti bibliografici:
Gentile E., 25 luglio 1943,
Laterza, Bari 2018. |