contemporanea
LA CADUTA
DI ALBERT CAMUS
PARTE I /
UN ROMPICAPO PER I CRITICI
di Raffaele Pisani
Tra il settembre e il dicembre del 2017
abbiamo parlato diffusamente su questa
rivista di Albert Camus, soffermandoci
nella lettura delle sue opere
principali; avevamo tralasciato La
caduta per una certa difficoltà a
inserirla con il resto del pensiero
camusiano. Vorremmo ora affrontare
questo scritto enigmatico, oggetto di
varie interpretazioni.
La sua pubblicazione nel 1956, a cinque
anni di distanza da L’uomo in rivolta,
produsse notevole sconcerto tra gli
interpreti di Camus, che avevano creduto
di aver colto le linee essenziali del
suo pensiero in forma pressoché
definita.
Gli anni che vanno dal 1951 al 1956
videro Camus alle prese con il dramma
algerino, che per lui nato su questa
sponda del Mediterraneo costituiva un
tormento personale. Il Nostro venne a
trovarsi impegnato nelle aspre polemiche
ideologiche che erano seguite alla
pubblicazione de L’uomo in rivolta.
La rottura con Sartre, nel 1952, e il
distacco dagli intellettuali della
gauche parigina lo portarono a
vivere interiormente una condizione di
esiliato.
Jean-Baptiste Clamence, che si definisce
giudice-penitente, parla con un anonimo
interlocutore. Il fatto che Camus nei
suoi romanzi, nei suoi racconti o in
certe opere teatrali si nasconda per
così dire dietro i suoi personaggi,
rende ancora più problematica, ma anche
più ricca, l’interpretazione del suo
pensiero; lo abbiamo visto con Meursault
(Lo straniero), con Rieux (La
peste) e con Kaliayev (I giusti),
per citarne solo alcuni, e lo vediamo
ora ne La caduta con Clamence.
Tuttavia, se nei personaggi citati certe
concordanze con il pensiero dell’autore
sono chiaramente evidenti, il discorso
in questa narrazione si propone in modo
assai diverso.A parte l’amore che
entrambi condividono per lo sport,
risulta difficile riconoscere il Camus
che ci è noto in questo
giudice-penitente. Se guardiamo poi il
discorso camusiano nel suo differire
temporale, constatiamo come La caduta
ricordi, per contrasto, più un passato
remoto che uno prossimo.
Anche l’ambientazione è
significativamente diversa
dall’ordinario camusiano: Amsterdam è il
luogo dell’indistinto: terra e mare,
luci e ombre si incontrano e si fondono;
siamo lontani nello spazio e nel tempo
dal sole scintillante che esalta le
differenze e vivifica le coste
mediterranee. Amsterdam è il luogo dell’esilio,
del regno lasciato rimangono solo
pallidi ricordi, illuminati dalla luce
ambigua delle insegne dei ritrovi
notturni in cui il protagonista Clamence
trova rifugio.
Già avvocato di fama votato alle nobili
cause, Jean-Baptiste Clamence vanta un
passato invidiabile. La natura lo aveva
dotato di tutte quelle caratteristiche
che si potessero desiderare: poderoso di
costituzione, elegante nell’aspetto e
nei modi, dotato di fine intelligenza e
di vasta cultura e aperto alle esigenze
degli altri.
È soprattutto l’aspetto morale che il
giudice-penitente rivela nei suoi
discorsi, non manca di dire che faceva
il bene in ogni occasione che gli si
presentava e che aveva una propensione
particolare per i più bisognosi; dice
anche che provava un sottile
compiacimento nell’aiutarli:«Mi
compiacevo – afferma– in ogni caso di
quella parte della mia natura che
reagiva alla vedova e all’orfano in modo
così giusto, e finiva, a forza di
esercizio, col regnare su tutta la mia
vita».
Era ben conscio di non aver meriti
particolari: la sua situazione
professionale e la sua indole
condizionavano assai fortemente, fino
quasi a determinare, la nobiltà delle
sue azioni: «Ero sorretto da due
sentimenti sinceri: la soddisfazione di
trovarmi dalla parte del giusto e un
istintivo disprezzo per i giudici in
genere». Proprio questa avversione verso
i giudici lo portava a essere
impeccabile nella sua professione di
avvocato difensore, che assumeva quasi
un carattere di missione.
Anche al di fuori dell’ambito
professionale Clamence trovava molte
gratificazioni, brillante nello sport e
nelle relazioni umane, esercitava un
invidiabile fascino sulle donne ed era
stimato dagli uomini. «Il mio accordo
con la vita era totale, aderivo a quella
che essa era, dall’alto al basso, senza
rifiutare nessuna delle sue ironie,
delle sue grandezze e delle sue
servitù».
Questa esistenza invidiabile incontra a
un tratto un punto di rottura; Clamence
racconta l’episodio accadutogli mentre
attraversava, a Parigi, il Ponte delle
Arti: «Ero salito sul ponte, deserto a
quell’ora, per guardare il fiume che
s’indovinava appena nella notte
sopravvenuta. Di fronte al monumento di
Enrico IV, dominavo l’isola. Sentivo
crescere in me un profondo sentimento di
potenza e, come dire? di compiutezza,
che mi dilatava il cuore. Inorgoglito,
stavo per accendere una sigaretta, la
sigaretta della soddisfazione, quando,
nello stesso istante, dietro di me
scoppiò una risata. Sorpreso feci un
brusco voltafaccia: non c’era nessuno.
Andai fino al parapetto: né battelli né
barche. Mi voltai di nuovo verso
l’isola, e sentii ancora la risata alle
mie spalle, un po’ più lontana, come se
scendesse al fiume. Restavo immobile».
Questa risata costituisce il clou
di tutto il racconto, come lo era stato
il momento dell’uccisione dell’arabo da
parte di MeursaultneLo straniero;
nell’uno come nell’altro caso niente
sarà più come prima.
È sulla base di questa rivelazione che
Clamence racconta la sua precedente vita
con quel distacco che lo caratterizza.
L’episodio della sua colpevole inerzia
di fronte a chi sta per essere
inghiottito dalle onde riemerge anche in
altri passi e viene ripreso alla
chiusura del racconto: «”Fanciulla,
gettati di nuovo in acqua perché io
abbia una seconda volta la possibilità
di salvare entrambi!”. Una seconda
volta, eh, che imprudenza! Supponga,
caro avvocato, che ci prendano in
parola? Bisognerebbe decidersi. Brr…!
L’acqua è così fredda! Ma
rassicuriamoci! Adesso è troppo tardi, e
sarà sempre troppo tardi, per fortuna!».
Sono parole che indicano, non solo e non
tanto un momento di debolezza, ma una
totale chiusura a ogni possibilità di
riscatto.
Un altro episodio importante nella
rivelazione della colpevolezza, se
ancora ce ne fosse bisogno, è quanto è
accaduto in un campo di prigionia del
Nord-Africa durante la seconda guerra
mondiale. Jean-Baptiste Clamence era
stato riconosciuto capo da un gruppo di
prigionieri di cui condivideva la sorte.
Per la verità la questione era un po’
più complessa: un po’ per scherzo e un
po’ seriamente era stato nominato papa,
un papa che, a differenza del Romano,
chiamato così da Duguesclin l’ideatore
di questo strano conclave, avrebbe
dovuto essere capace di condividere le
sofferenze dell’umanità. Ma la cosa
risultò meno semplice di quanto si
potesse immaginare: «Mi sono accorto
allora che non era facile come si crede
fare il papa, e me ne sono accorto anche
ieri dopo averle tenuto discorsi
sdegnosi sui nostri fratelli giudici».
Nel prosieguo del discorso si arriva
anche qui a un punto di svolta, Clamence
compirà un’azione di cui poi dovrà
vergognarsi: «Diciamo che compii l’opera
il giorno in cui bevvi l’acqua di uno di
noi che agonizzava». Non è che le
giustificazioni mancassero: «Ho bevuto
l’acqua, certo, persuadendomi che gli
altri avevano più bisogno di me che di
lui, e che sarebbe morto comunque,
mentre io dovevo salvarmi per loro», ma
tutto questo non è sufficiente a
cancellare il senso di colpa.
Che fare allora? Avviene qui qualcosa di
paradossalmente coerente con il
precedente pensiero camusiano de La
rivolta. Se in quest’ultima, pur non
escludendo una colpevolezza
ragionevole il discorso è nel
complesso portato verso un sentimento di
solidarietà universale per l’umanità
oppressa, qui invece viene rimarcata una
correità universale, senza alcuno
spiraglio di redenzione.
I buoni e i cattivi se un tempo si
potevano riconoscere dalle loro azioni,
nella luce del meriggio sulle coste del
Mediterraneo, ora, in questo mare
nordico con le rive piatte sperdute
nella nebbia in cui tutto si confonde,
ciò non è più possibile. Ingannando
anche sé stessi si confonde la
disponibilità verso il prossimo con il
compiacimento egoistico per quanto si
fa.«Allora, a furia di frugare nella
memoria, ho capito che la modestia mi
aiutava a brillare, l’umiltà a vincere e
la virtù a opprimere. Facevo la guerra
con mezzi pacifici, e alla fine, per
mezzo del disinteresse, ottenevo ciò che
agognavo».Il fatto che sia arrivato a
cogliere questa amara verità non
comporta alcun cammino di redenzione, la
potrà rivelare ai tanti che ancora la
ignorano ma sa che comunque non c‘è
rimedio.
Siamo tutti colpevoli, dice Clamence,
che fa di se stesso paradigma
universale. Anche Cristo, secondo lui
sapeva di non essere completamente
innocente; egli era a conoscenza di
essere stato, sia pur involontariamente
causa di un massacro:«I bambini della
Giudea massacrati mentre i suoi genitori
lo portavano al sicuro, perché erano
morti, se non per causa sua? Non l’aveva
voluto lui, certo. Quei soldati
insanguinati, quei bambini squarciati in
due, gli facevano orrore. Ma egli non
era uomo da poterli dimenticare, ne sono
sicuro».
La caduta
sembra aver cancellato ogni spinta
all’impegno umanitario come si era
delineato in opere come La peste
o L’uomo in rivolta, proprio per
questo l’opera ha costituito un
rompicapo per gli intepreti. |