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medievale


N. 142 - Ottobre 2019 (CLXXIII)

cacciatori, orsi ed eremiti

IL TEMA DELLA CACCIA NELLE FONTI AGIOGRAFICHE DELL'ALTO MEDIOEVO

di Sofia Fagiolo

 

Lo storico Karl Bosl individuava nell’uomo nobile di età Carolingia i seguenti attributi e attività: 1) nobile discendenza; 2) matrimonio ed eredi; 3) esercitazione di poteri pubblici; 4) guerra; 5) caccia; 6) banchetti.

 

Secondo lo schema tracciato, la caccia occupava una posizione centrale nelle attività del mondo aristocratico. Benché l’aspetto ludico ne costituisse una caratteristica importante, non era per mero divertimento che i nobili carolingi praticavano l’attività venatoria. Nel pieno medioevo la caccia era intesa soprattutto come una pratica d’armi e un esercizio di forza, una sorta di «finzione di guerra». Essa era fondamentalmente un’esibizione della forza guerriera. Attraverso l’abilità cinegetica, l’uomo di alto rango dimostrava di possedere le qualità virili e le doti necessarie per esercitare il potere. La caccia diveniva così un’espressione di potere.

 

Finalizzata alla trasmissione di una morale guerriera, l’exercitatio venatoria faceva parte del sistema educativo tradizionale dei Franchi. Nella Vita di san Geraldo d’Aurillac scritta da Odone di Cluny, la caccia figura tra le principali attività sostenute dal giovane conte durante i suoi addestramenti militari. Secondo Odone, Geraldo imparò a maneggiare l’arco, a condurre i cani e a lanciare il falcone quando era ancora fanciullo.

 

L’abate cluniacense dedica alcune righe per descrivere gli allenamenti fisici del ragazzo, specificando che egli malvolentieri si applicava alla caccia. L’autore infatti spiega che Geraldo preferiva dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture e delle lettere, consapevole di quanto «melior est sapientia quamo vires», come riporta il Libro della Sapienza. Tale stato di cose perdurò finché una provvidenziale malattia distolse il ragazzo dall’educazione secolare: troppo debole per affrontare gli addestramenti quotidiani, Geraldo poté finalmente dedicarsi ai suoi amati «litterarum studiis».

 

Il caso di Geraldo non è isolato. Il tema dell’avversione per la caccia è presente in alcune Vitae medievali, dove l’educazione secolare di giovani santi di elevata condizione sociale si scontra con la loro sensibilità spirituale. La Vita Trudonis, della fine del secolo VIII, ci narra per esempio di come il giovane santo desse scandalo ai coetanei del proprio rango a causa del suo rifiuto a partecipare ai piaceri della caccia. Un altro episodio noto è quello della Vita Romualdi, redatto però molto più tardi, intorno al 1042, in cui l’adolescente Romualdo è costretto dal padre a praticare l’attività cinegetica, che egli alla fine rifiuta.  XE "Romualdo di Camaldoli, santo"  

 

Da questi testi appare chiaro che i monaci non vedevano di buon occhio un’attività che era considerata irrinunciabile nella vita di ogni aristocratico. Le ragioni per questa ostilità sono molteplici. Gli agiografi, a parte qualche eccezione, consideravano la caccia un’attività inappropriata per un santo, anche per un santo laico e potente come Geraldo o altri come lui. La figura del santo mal si conciliava con quella del cacciatore. Il cacciatore incarnava i concetti umani di forza e potere predisposti a degenerare in orgoglio e superbia. La forza e il potere del santo, invece, erano radicalmente diversi.

 

Questo dualismo lo troviamo evidenziato nella produzione agiografica altomedievale, dove la caccia è contrapposta all’ascesi pacifica e quasi vegetariana dell’eremita. Da una parte vi è l’eremita che vive in armonia con gli animali selvatici e con i quali condivide i prodotti spontanei della foresta (erbe selvatiche, frutti, bacche, radici), come segno della ricongiunzione con l’originario stato armonico del paradiso terrestre. Dall’altra parte vi è il cacciatore, che svolge un’attività violenta e carnivora. La foresta diviene così lo scenario di un conflitto di poteri, quello del santo e quello del cacciatore. Quasi sempre l’incontro tra le due parti avviene grazie a un animale-guida.

 

La versione più nota di questo tema topico è quella contenuta nella Vita di san Egidio XE "Egidio, santo" , scritta nel X secolo. Il re dei goti e il suo seguito, mentre incalzano una cerva, giungono a un groviglio inaccessibile di rovi che circonda la spelonca del santo; per far uscire la cerva un cacciatore scocca una freccia che però va a colpire l’eremita.

 

Una volta che i cacciatori riescono a penetrare nell’intrico di rovi, vedendo un uomo seduto con la cerva distesa sulle sue ginocchia, capiscono di trovarsi di fronte a un santo. Solo il re, accompagnato dal vescovo, osa avvicinarsi; pieno di riverenza, il sovrano si inginocchia chiedendogli perdono. Dopo aver fornito al santo le cure necessarie, il re si prodiga all’erezione di due chiese e un monastero.

 

L’episodio appena narrato fornisce un buon esempio di un tema agiografico molto frequente nelle Vitae dei santi eremiti. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, l’incontro con l’eremita non è così pacifico. La storia di san Carileffo di Anille XE "Carileffo di Anille, santo" , eremita vissuto nel VI secolo, ne è un esempio.

 

Il re Childeperto XE "Childeperto, re" , mentre è intento a cacciare un bufalo, s’imbatte nel luogo del santo, presso il quale l’animale non più feroce ma «tremans ac palpitans» ha trovato rifugio. Il re XE "Chidelperto, re"  s’infuria poiché la sua caccia è rovinata: la sua etica guerriera infatti gli impedisce di misurarsi contro un animale indifeso. Ma poi una volta che l’eremita ha fatto rifocillare lui e i suoi uomini con un vino miracoloso, il re si accorge di avere davanti un uomo di Dio e prontamente gli offre delle terre per fondare un monastero.

 

L’elemento comune in questi testi agiografici è rappresentato dall’animale braccato dai cacciatori e protetto dal santo. XE "Carileffo di Anille, santo"  Nella Vita Gisleni è un’orsa a svolgere la funzione di animale-guida XE "Dagoberto, re" . Inseguita dai cacciatori di re Dagoberto, la bestia va a nascondersi dietro le vesti del santo appesi in un albero. I cani dei cacciatori, entrati nello spazio sacro dell’eremita, improvvisamente si ammansiscono e scodinzolanti annusano l’orsa. I cacciatori, irati, accusano san Gisleno XE "Gisleno, santo"  di stregoneria; il santo nega di aver incantato i cani, professando di essere un servo di Dio. Il re resta colpito dalle sue parole e si ricrede; ottenuta dal santo la benedizione, ritorna sui propri passi con il suo seguito, lasciando l’orsa in pace.

 

Non sempre però i cacciatori sono disposti a riconoscere virtus del santo. In questi casi solo un miracolo punitivo fa aprire loro gli occhi, a dimostrazione che il potere divino è superiore all’arroganza del potere umano.

 

È quanto accade con san Vicenziano XE "Vicenziano, santo" , eremita vissuto in Aquitania XE "Aquitania"  tra il VII e l’VIII secolo. Al termine di una caccia, il duca Baronto e i suoi uomini giungono presso il suo eremo con cattive intenzioni; ma i cani dei cacciatori, invece di inferire, accolgono l’eremita festosamente. Gli animali avvertono il potere del santo e la loro ferocia lascia posto alla mansuetudine, in rimando allo stato originario dell’armonia edenica che la presenza stessa del santo ispira. Ma se i cani si sottomettono alla sua santità, gli uomini rifiutano di riconoscerla: uno dei cacciatori minaccia Vicenziano con la lancia e gli rivolge parole sprezzanti a causa della vita che ha scelto; ma in quel momento il braccio che sostiene l’arma gli si paralizza. Allora il santo, impietositosi, intercede per lui e l’uomo viene guarito. XE "Vicenziano, santo"  

 

In quest’ultimo esempio si coglie meglio la tensione mal risolta tra la cultura violenta del cacciatore e l’ideale monastico dell’eremita. Ma questo dualismo esisteva solo nell’ambito della tradizione ascetico-monastica. In ambito ecclesiastico, le ragioni per cui i prelati condannavano la caccia erano ben altre. XE "Gallo, santo"  Nelle riflessioni di prelati e vescovi, la caccia era soprattutto una pratica mondana che allontanava i nobili dalle loro responsabilità.

 

Il vescovo Giona di Orléans XE "Giona di Orléans"  criticava la caccia in quanto veicolo di oppressione sui poveri da parte di coloro che si arrogavano diritti esclusivi sulla selvaggina. Tale rimprovero era fondato sui fatti: in un capitolare dell’anno 807, Carlo Magno XE "Carlo Magno"  invitava i comites a non trascurare i propri doveri politici a causa della caccia o altri divertimenti.

 

La caccia, dunque, non era criticata dai chierici in quanto pratica violenta e “carnivora”, ma perché considerata un vacuo transiret, una pratica mondana con un’intrinseca potenzialità negativa e di devianza. I vescovi l’accusavano di essere tra le principali cause per cui i nobili trascuravano il giorno del Signore. E infatti Carlo Magno, nell’Admonitio generalis del 789, introdusse il divieto di praticare l’attività venatoria di domenica e nelle feste: una sorta di «tregua di Dio» riservata alla caccia.

 

Alla luce di quanto detto finora, appare chiaro il motivo per cui gli agiografi si mostravano ostili alla pratica della caccia. Nel migliore dei casi, essa era vista come un’attività inutile, in contrasto con la sensibilità del santo proteso invece alla meditazione e alla preghiera. In quanto tale, la caccia era antitetica al modello di vita del santo.

 

Vi erano tuttavia delle eccezioni. Nella Vita Gengulfi, redatta verso la fine del IX secolo, la caccia è descritta come un passatempo lodevole. Come Geraldo d’Aurillac, anche Gengolfo è un grande proprietario terriero ma a differenza del primo egli svolge i suoi doveri confacenti al proprio rango e alle proprie responsabilità senza dissidi interiori. Secondo l’agiografo, la caccia era uno dei suoi passatempi preferiti. L’autore giustifica il suo comportamento, affermando che si trattava di un esercizio legittimo, se non addirittura lodevole, dal momento che Gengolfo vi si dedicava per «causa exercitationis», sfuggendo così alle insidie dell’ozio.

 

Vi sono inoltre casi in cui la caccia assume un ruolo positivo nella narrazione agiografica in quanto mezzo di contatto con il sacro. Si tratta della “pia caccia”, un tema che conosce una tradizione consolidata nell’agiografia altomedievale di area franca. Secondo lo schema di questo tema topico, i cacciatori finiscono con lo scoprire antichi luoghi sacri, come chiese abbandonate o sepolture dimenticate di martiri e santi; essi allora, avvertendo la sacralità del luogo, comprendono che lì bisogna edificare una chiesa o un monastero.

 

I rinvenimenti miracolosi di siti monastici, vecchie chiese o sepolture di santi è un tema che ritroviamo anche al di fuori dell’ambito agiografico: esso è infatti presente in cronache, leggende e racconti popolari. Le scoperte di luoghi sacri sono quasi sempre connesse a figure potenti e leggendarie come Clodoveo XE "Clodoveo I" , Pipino il Breve XE "Pipino il Breve"  o Carlo Magno XE "Carlo Magno" . Ma fu soprattutto quest’ultimo a rivestire un ruolo di grande rilievo nel rinvenimento di luoghi sacri.

 

Numerose fonti documentarie e cronachistiche attestano la rinascita di luoghi sacri rinvenuti da Carlo Magno: famosa è la leggenda sulla fondazione del monastero di Aquisgrana, che l’imperatore carolingio ordinò di erigere durante una battuta al cervo. Questa leggenda fu tramandata per diversi secoli durante il Medioevo, consolidando l’immagine di Carlo Magno come archetipo del cacciatore-guerriero del periodo carolingio.

  

 

Riferimenti bibliografici:

 

Il bosco nel Medioevo, a cura di B. Andreolli e M. Montanari, Bologna 1988.

M. Montanari, Uomini, terre, boschi nell’occidente medievale, Catania 1992.

P. Galloni, Il cervo e il lupo. Caccia e cultura nobiliare nel Medioevo, Roma-Bari 1993.

C. Donà, Per le vie dell’altro mondo. L’animale guida e il mito del viaggio, Catanzaro 2003

A. Guerreau, Caccia, in Dizionario dell’Occidente Medievale, I, a cura di J. Le Goff – J.-C. Schmitt, Torino 2011, pp. 154-168 [trad. it. Dictionnaire raisonné de l’Occident médiéval, Fayard – Paris 1999].



 

 

 

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