N. 93 - Settembre 2015
(CXXIV)
la fabbrica del servilismo
riflessioni sulla "buona scuola"
di Giuseppe Tramontana
“Solo l’uomo colto è libero”
(Epitteto, Dissertazioni)
“La
vera
cultura
vive
di
simpatie
e
ammirazioni,
non
di
antipatie
e
disprezzo”.
(W. James, Memorie e studi)
Credevo che
il
dibattito
si
sarebbe
aperto.
Invece,
nulla.
Pensavo
che
l’irruzione
dei
dati
sul
cosiddetto
analfabetismo
funzionale
nel
bel
mezzo
delle
polemiche
sulla
“Buona
scuola”
avrebbe
prodotto
un
surplus
di
accorate
e
allarmate
riflessioni,
se
non
addirittura
un’esplosione
di
indignazione.
Invece,
Rien
de
rien.
Fatto sta
che
i
dati
ci
sono
e
non
sono
tranquillizzanti.
Per
una
volta
l’Italia,
secondo
i
dati
OCSE,
è al
primo
posto
di
qualche
cosa.
Solo
che
quel
primo
posto
non
lo
vorrebbe
conquistare
nessuno:
è un
primo
posto
negativo.
L’Italia,
dicono
i
dati,
ha
il
47%
di
analfabeti
funzionali.
Quasi
un
italiano
su
due.
Cosa significa?
Significa
che
un
analfabeta
di
questo
genere
non
è
colui
che
non
sa
leggere
e
scrivere.
Nossignori.
Anzi, è una
persona
che,
magari
usa
facebook
e
internet,
che
sa
smanettare
con
il
computer
o,
aggiungo
io,
usare
decentemente
un
bisturi,
un
codice
civile
o
tutto
l’armamentario
di
un
ingegnere,
ma
non
sa
comprendere
il
senso
di
un
testo,
non
sa
costruire
analisi
articolate
e
paragona
il
mondo
solo
alle
sue
esperienze
dirette.
È uno che
non
sa
leggere
e
capire
un
contratto
di
lavoro,
un
editoriale
di
Repubblica
o
del
Corsera
e
che
si
fa
un’idea
dei
problemi
solo
se
lo
toccano
direttamente:
per
cui
la
guerra
in
Ucraina
lo
preoccupa
solo
se
aumenta
il
gas
e
quella
in
Iraq
solo
se
aumenta
il
petrolio,
mentre
i
migranti
sono
un
problema
di
assembramento,
sicurezza
e
igiene…
È uno cittadino
dimezzato
che,
in
fondo,
pensa
che
non
ci
sia
vita
oltre
il
paesello
natio
o,
nel
migliore
dei
casi,
oltre
i
confini
nazionali.
Per
cui,
in
fondo,
in
cuor
suo,
si
stupisce,
quando,
andando
in
Austria
o a
Malta,
scopre
che
lì
c’è
gente
che
parla
davvero
e
correntemente
in
tedesco
o
inglese
e
che
lo
stesso
inglese
non
è
fatto
solo
di
quelle
quattro
parole
trite
e
ritrite
masticate
per
far
bella
figura,
ma
che
si
tratta
di
una
lingua
articolata,
con
proprie
regole,
non
improvvisabile,
parlata
davvero
e
correntemente
da
uomini
e
donne,
che
tali
sono
pur
non
vivendo
a
Trebaseleghe,
Corigliano
Calabro
o
Francavilla
Fontana….
Certo, l’Italia
è al
primo
posto
della
classifica,
tallonata
dal
Messico
(42%).
Tuttavia,
considerando
che
il
terzo
posto
è
occupato
dall’Irlanda
con
un
miserabile
23%,
ecco
che
si
può
essere
ottimisti:
dal
podio
non
ci
scalzerà
nessuno
e
comunque,
per
consolidare
questo
primato,
ecco
la
“buona
scuola”.
“La cultura
–
diceva
Antonio
Gramsci
quasi
cent’anni
fa –
è
organizzazione,
disciplina
del
proprio
io
interiore;
è
presa
di
possesso
della
propria
personalità,
e
conquista
di
coscienza
superiore,
per
la
quale
si
riesce
a
comprendere
il
proprio
valore
storico,
la
propria
funzione
nella
vita,
i
propri
diritti,
i
propri
doveri”.
Promuove
questo,
oggi,
la
scuola?
Quest’estate
è
andato
di
moda
pubblicare
consigli
alternativi
su
come
far
trascorrere
le
vacanze
agli
studenti.
E giù a snocciolare
passeggiate
in
riva
al
mare,
albe
e
tramonti
a
cui
assistere,
amici
da
ascoltare,
voluttà
interiori
da
inseguire,
piccoli
momenti
di
gioia
da
assaporare.
Che
ci
fosse
stata
la
lettura
di
un
libro!
E sì che
sono
i
libri
che
modellano
il
nostro
sentire
e il
nostro
vedere
(anche
dei
paesaggi)
che
danno
un
nome
ai
moti
dell’animo
e li
scandagliano.
Perché
chi
legge
vive
molte
vite,
come
ricorda
spesso
Umberto
Eco.
A noi ci ha
rovinato
il
professor
Keating
dell’Attimo
fuggente
(titolo
che
tra
l’altro,
non
avrebbe
senso
senza
il
carpe
diem
oraziano)
e
quel
gesto
di
strappare
le
pagine
dall’antologia
poetica.
Chi strappa
libri,
strappa
cultura,
c’è
poco
da
fare.
E
lascia
libero
il
campo
ai
battiti
di
ciglia,
ai
sommovimenti
dell’animo,
tanto
vacui
quanto
sterili.
Lascia
aperto
il
campo
all’incultura
e
quindi
al
disconoscimento
del
valore
storico
di
sé e
alla
rinuncia
a
diritti
e
doveri.
Che la cultura
dovrebbe
essere
desiderio.
Desiderio
di
conoscere,
desiderio
di
vita,
di
speranza,
di
amore.
È la
forza
umana
che
scopre
nel
mondo
le
esigenze
di
un
mutamento
e ne
dà
coscienza
al
mondo.
Forse, per
questo
l’Italia
e
l’italiano
medio
sono
immutabili,
irredimibili,
come
direbbe
Sciascia.
Non
cambiano
perché
sono
analfabeti
funzionali
(OCSE
dicit).
Una mia amica
e
collega
di
italiano
mi
ha
raccontato
che,
l’anno
scorso,
in
un
compito
in
classe
volle
affrontare
il
tema
dell’immigrazione.
“Ormai
– mi
ha
quasi
rassicurato
–
non
tratto
quasi
più
argomenti
di
cosiddetta
attualità:
i
compiti
degli
studenti,
su
questi
temi,
mi
sembrano
tutti
uguali,
tutti
banali
e
superficiali.
E
siccome,
presa
dall’irritazione,
perdo
l’oggettività
e
inconsapevolmente
li
punisco
con
voti
bassi,
allora
ho
deciso
di
non
dare
più
consegne
del
genere”.
Tuttavia, in
un’occasione,
con
una
terza,
lo
fece:
più
che
altro
per
capire
le
loro
idee,
mi
ha
confidato:
“era
una
classe
nuova
per
me e
volevo
capire
con
chi
avessi
da
fare”.
Correggendo
i
compiti,
si
accorse
con
sgomento
come
per
molti
di
questi
ragazzini
non
esistesse
alcuna
differenza
tra
immigrati
regolari,
immigrati
clandestini, profughi, italiani di
cosiddetta
seconda
generazione
e
via
discorrendo.
Per loro i
migranti
erano
tutti
indistintamente
da
cacciare
via
o
respingere.
Magari
dando
fuoco
ai
barconi
in
arrivo
a
Lampedusa
o
Brindisi
e
augurandosi
persino
la
costruzione
di
palizzate
e
muri
elettrificati
e
l’avvio
di
rastrellamenti
per
“ripulire”
(così
scriveva
uno)
i
quartieri
delle
nostre
città.
“Sembravano
temi
scritti
da
un
qualsiasi
politico
razzista
grufolante
sui
palchi
di
mezza
Italia
o
starnazzante
nei
paludati
talkshow
televisivi”
ha
chiosato,
delusa.
Ma non finì
qui.
Perché,
parlando
successivamente
con
loro
–
“perché
la
questione
meritava
un
confronto
e un
approfondimento”
–
scoprì
qualcosa
di
peggio:
questi
ragazzini
disprezzavano,
odiavano
tutti:
i
cinesi,
gli
africani,
gli
zingari,
i
romeni,
i
bengalesi,
gli
albanesi,
i
moldavi,
non
risparmiando
battute
razziste
su
meridionali,
donne
e i
gay.
Quando cercò
di
spiegare
loro
che
l’odio
verso
il
diverso,
in
tutte
le
sue
declinazioni,
produce
violenza
e
azioni
indegne
e
vergognose,
capaci
di
travolgere
tutti,
anche
gli
autori
del
primo
misfatto,
quelli
che,
all’inizio
si
sentono
sicuri.
A
questo
punto,
lesse
la
famosa
poesia
del
pastore
Niemoeller,
ripresa
da
Brecht
e,
poi,
fece
l’esempio
più
ovvio:
il
Nazismo
e lo
sterminio
degli
ebrei.
Al
che
uno
le
rispose:
“Sì,
okay,
prof,
però
lei
deve
vederla
da
un
altro
punto
di
vista:
Hitler,
a
parte
lo
sterminio
degli
ebrei,
in
fondo,
voleva
fare
il
bene
della
Germania,
era
questo
il
suo
scopo”.
“A parte lo
sterminio
degli
ebrei?”,
gli
chiese,
sconvolta,
trattenendo
a
stento
l’irritazione.
“A parte
questa
bazzecola,
cioè
sei
milioni
di
morti
a
cui
vanno
aggiunti
i
milioni
di
zingari,
omosessuali,
comunisti,
socialisti,
cattolici,
protestanti…
e
poi
i
morti
della
seconda
guerra
mondiale
e i
bambini
e la
gente
di
Sant’Anna
di
Stazzema
e
quelli
di
Marzabotto
e
delle
Fosse
Ardeatine
e di
mille
altri
posti
in
giro
per
l’Italia
e
l’Europa…
a
parte
questo
piccolissimo
particolare,
dici,
non
fece
tanto
male?”.
Insomma, mi
sono
chiesto,
chi
sbaglia?
Ma
‘ste
càspita
di
Giornate
della
Memoria
a
cosa
servono?
Perché un
silenzio
così
assordante,
da
parte
dei
miei
studenti
con
i
quali
intrattengo
la
cosiddetta
“amicizia
su
facebook”,
davanti
alle
foto
dei
bambini
siriani
o
libici
morti
sulle
spiagge
europee?
Insomma,
considerando
che
l’autonomia
scolastica
consiste
(cito
letteralmente
dal
DPR
275/1999)
nella
“capacità
di
progettare
e
realizzare
interventi
educativi
di
formazione
e
istruzione
finalizzati
allo
sviluppo
e
alla
crescita
della
persona
umana”,
vedete
un
po’
voi
– di
fronte
a
episodi
come
quelli
raccontati
dalla
mia
collega
– se
la
Riforma
ha
avuto
successo
o
meno…
Questi ragazzi
spessissimo
non
leggono
giornali,
non
guardano
telegiornali,
non
sfogliano
riviste,
sono
disinteressati
a
tutto
ciò
che
non
riguarda
il
loro
ombelico
e le
loro
ordinarie
e
insipide
serate
alcoliche
o
musicali:
impazziscono
per
ogni
genere
di
concerto,
ad
esempio!
E
mollano
tutto
pur
di
andare
a
bere
qualcosa
di
alcolico…
Nemmeno
il
sesso,
tra
di
loro,
riscuote
un
così
alto
consenso.
Solo
che
poi
vanno
in
tilt
davanti
a
tutto
ciò
che
presenta
un
minimo
di
complessità
(ecco
l’analfabetismo
funzionale).
Per
questo
detestano
la
storia
e
detestano
il
presente.
Ci
vivono,
ma
non
vogliono
né
capirlo
né
tanto
meno
trasformarlo.
Vogliono
solo
sguazzarci
dentro
e
subirlo.
È
così
che
si
diventa
servi.
Se
un
politico
promette
meno
tasse
per
tutti,
loro
lo
votano,
ma
non
si
accorgono
che
li
sta
prendendo
per
il
sedere.
Se
un
altro
dà
la
colpa
di
tutti
i
mali
ai
migranti,
loro
capiscono,
ma
non
vedono
il
demagogo,
il
seminatore
di
odio.
Non
si
rendono
conto,
appunto,
che
stanno
facendo
apprendistato
della
servitù.
È tutto normale e consequenziale
in
un
Paese
come
l’Italia
in
cui,
da
una
ventina
d’anni
a
questa
parte,
si è
assistito
al
progressivo
abbassamento
della
soglia
della
dignità.
Un
Paese
in
cui
i
più
mirano
a
una
prebenda,
a un
regalo,
a un
aiutino,
a
qualsiasi
cosa
purché
immeritata
e
senza
sacrifici.
Ecco, allora, la questione
della
scuola
e
della
valutazione
a
scuola.
Valutazione
che
è
divenuta
la
spia
di
qualcosa
di
più
ampio
e
profondo,
di
qualcosa
che
si è
sempre
più
incistato
nella
società:
la
visione
di
una
vita
facile,
di
un
successo
senza
sacrifici,
merito
e
dignità.
E si comincia subito a
rivendicarla.
Complici
genitori
e
apparati
scolastici.
E tutto comincia in una
data
ben
precisa,
quel
fatidico
8
marzo
1999,
ossia
il
giorno
dell’approvazione
del
già
citato
DPR
275,
applicativo
dell’art.
21
della
L.
59/1997,
che
introdusse
la
tanto
sbandierata
autonomia
scolastica.
Parola,
a
prima
vista,
positiva.
Chi non vuole autonomia,
libertà?
Autonomia è una bella
parola,
che
sa
di
fresco,
corroborante.
Eppure,
fu
questa
Riforma
che,
nei
fatti,
fece
trasformò
gli
studenti
(e
le
loro
famiglie)
da
utenti
in
clienti.
Mi ricordo, all’epoca,
di
un’intervista
a
uno
scrittore,
Claudio
Magris.
Al
giornalista
che
gli
chiedeva
cosa
ne
pensasse
di
questa
equiparazione,
lo
scrittore
rispose
su
per
giù
così:
“Veda,
vogliono
far
diventare
gli
studenti
da
utenti
clienti.
E di
solito
si
dice
che
il
cliente
ha
sempre
ragione.
Se
vado
in
un
ristorante
e
chiedo
lo
zucchero
sulla
pastasciutta
al
posto
del
formaggio,
il
cameriere
mi
accontenterà.
Se
io
invece
chiedo
chi
ha
scritto
la
Divina
Commedia
e lo
studente
mi
risponde
‘Manzoni’,
non
posso
dire:
“beh,
di
solito
non
è
così,
ma
nel
suo
caso
posso
fare
un’eccezione!”.
Ecco, qui sta il nodo.
Uno
che
risponde
che
Manzoni
è
l’autore
della
Divina
Commedia,
sbaglia.
E
sbaglia
anche
se
prima
ha
risposto
esattamente
a
tutte
le
domande
di
fisica,
chimica,
biologia
e
ostrogoto
di
questo
mondo!
Invece i clienti hanno
fatto
irruzione
nella
scuola
e,
da
clienti,
vogliono
avere
sempre
ragione.
Così
cosa
accade?
Accade che i genitori se
vedono
i
figli
studiare
troppo
(e
per
i
figli
lo
studio
è
sempre
troppo!)
cosa
fanno?
Vanno
a
protestare
dal
dirigente
scolastico:
quel
tal
professore
li
fa
studiare
troppo…
non
hanno
tempo
per
altre
materie
(e
questo
lo
dicono,
guarda
caso,
quelli
che
in
queste
altre
materie
vanno
già
male
di
loro
o
che
andavano
male
anche
prima:
stranamente
non
lo
dicono
quelli
che
vanno
bene!)…
o
non
hanno
tempo
per
lo
sport
agonistico
di
turno.
Insomma, protestano e il
dirigente
che
fa?
Siccome
l’autonomia
ha
messo
in
competizione
le
scuole,
deve
assicurare
il
numero
di
cattedre
e
quindi
fare
in
modo
che,
da
un
lato,
la
gente
non
cambi
scuola
e,
dall’altro,
la
medesima
scuola
abbia
un
certo
appeal:
insomma
si
faccia
la
fama
di
essere
“facile”
per
continuare
ad
avere
un
alto
numero
di
iscrizioni.
Si sa, la gente, a parte
pochi
illusi,
cerca
facilità
e
velocità
nel
conseguimento
del
titolo,
non
certo
qualità
e
vera
formazione.
Che
poi
lo
stesso
titolo
attesti
davvero
competenze
e
conoscenze,
questo,
poco
importa.
A
questo
punto
che
succede?
Il dirigente o cerca di
calmare
i
bollenti
spiriti
dell’insegnante
esigente
oppure,
a
fine
anno,
gli
cambia
classe,
piazzando
al
suo
posto
insegnanti
più
“ragionevoli”…
E
così
si
chiude
il
cerchio.
E,
dentro
il
cerchio,
la
mediocrità.
Quella stessa insulsa e
becera
mediocrità
che
sta
divorando
questo
paese
e
che
l’ha
proiettato
al
primo
posto
nella
classifica
dell’analfabetismo
funzionale.
Alcuni docenti universitari
di
mia
conoscenza
si
lamentano
del
fatto
che
le
matricole
ignorano
alcune
nozioni-chiave
del
Diritto
o
della
Storia:
confondono
il
Presidente
del
Consiglio
con
il
Presidente
della
Repubblica,
credono
che
il
Pubblico
Ministero
sia
il
Ministro
della
Pubblica
Istruzione,
collocano
il
Rinascimento
nell’Ottocento,
sono
convinti
che
le
prime
forme
di
vita
sulla
terra
siano
stati
i
dinosauri
o
che
le
BR
siano
state
le
autrici
della
strage
di
Bologna.
E spesso chi fa di queste
sparate
è
gente
che,
a
scuola,
inanellava
voti
rispettabili.
Un
collega,
al
quale
avevo
raccontato
di
queste
lagnanze,
mi
ha
risposto
che
i
docenti
universitari
potrebbero
anche
evitare
simili
commenti.
Certo,
potrebbero,
ma
non
lo
fanno.
E, se non lo fanno, forse
è il
caso,
da
parte
nostra,
di
porci
qualche
interrogativo.
Siamo
nelle
mani
di
gente
che
cita
a
casaccio
Telemaco
e i
miti
greci,
fa
le
corna
nelle
foto
ufficiali,
si
reinventa
la
storia
di
Roma,
introducendo
un
fantomatico
“Remolo”.
E il tunnel sotto il
Gran
Sasso?
La
lontra,
uccello
da
salvare
e
gli
aerei
da
combattimento
che
dovrebbero
servire
per
spegnere
incendi?
Abbiamo politici che
votano
leggi
importantissime
senza
neanche
conoscerne
il
contenuto
e
addirittura
senza
che
la
norma
sia
scritta
nero
su
bianco.
Gaffe
innocenti,
si
potrebbe
dire:
possono
sempre
capitare.
Certo, ma ciò che allarma,
mi
pare,
è la
mancanza
di
senso
di
responsabilità
unita
alla
totale
assenza
di
curiosità
intellettuale,
all’assoluta
incapacità
di
rimboccarsi
le
maniche
per
sapere.
Ma,
evidentemente
e a
ragione,
hanno
un
concetto
non
molto
edificante
degli
italiani.
D’altronde, difficilmente
un
rappresentante
è
peggiore
del
rappresentato
e,
comunque,
una
società
produce
da
sé
gli
uomini
che
la
guideranno.
Se è
vero,
come
dice
il
famoso
proverbio
arabo,
che
siamo
figli
più
dei
nostri
tempi
che
dei
nostri
genitori,
allora
dovrebbe
essere
la
società
a
interrogarsi
sulla
“materia
prima”
che
fornisce
per
la
creazione
della
nuova
classe
dirigente.
Si parla tanto di meritocrazia,
ma
in
realtà
–
diciamoci
la
verità
–
tutto
ruota
attorno
alla
risultatocrazia:
se
bocci
poco
e
promuovi
tanto
va
bene,
la
scuola
richiama
allievi,
poco
importa
se
le
promozioni
le
regali
e,
pertanto,
l’insegnamento
e la
preparazione
degli
studenti
sia
di
scadente
qualità.
Magari, di questo si
accorgeranno
ai
test
universitari
o ai
concorsi
pubblici,
ma
ormai
sarà
tardi
per
rimediare.
È un
Paese
che
ha
smarrito
l’identità.
Questo era il Paese dello
stile,
del
talento,
dell’intellettuale
militante,
era
il
Paese
dell’Olivetti
Lettera
22
e di
Adriano
Olivetti
che
dava
lavoro
a
Paolo
Volponi,
era
il
Paese
di
Giò
Ponti,
di
Pasolini,
di
Sciascia
e
Calvino,
Guttuso
e
Fellini,
Antonioni
e
Rossellini,
era
il
paese
di
Mastroianni
e
Gassman,
di
Berlinguer
e
Pertini,
di
Spadolini
e
Enrico
Mattei,
della
Vespa
e
della
lampada
di
Fontana,
di
Montanelli
e
Leo
Longanesi,
di
Flaiano
e
Vittorini,
di
Montale
e
Moravia,
della
Ferrari
e
della
Lamborghini,
era
il
Paese
del
generale
Angioni
e di
Oriana
Fallaci,
di
Luigi
Pintor
e
Armani,
di
Rivera
e
Mazzola,
Baggio
e
Scirea.
E adesso cosa siamo?
Siamo
un
Paese
pieno
di
scempiaggini
e
pressappochismo.
Scempiaggini
scintillanti
e
pressappochismo
deprimente.
Un paese di slogan
e
hashtag,
di
repliche
e
video
virali,
del
bailamme
e
della
rissa,
delle
smentite
e
delle
foto
su
facebook.
Un
paese
ignorante,
friabile
e,
per
lo
più,
razzista
e
cinico.
E la scuola, che ancora
alcuni
decenni
orsono
rappresentava
l’argine
ai
luoghi
comuni
e
alla
stupidità,
oggi
conduce
una
battaglia
di
retroguardia,
rincorrendo
quegli
stereotipi
che
prima
combatteva,
adeguandosi
ai
modelli
veicolati
da
una
società
in
cui
le
insegne
luminose
attirano
gli
allocchi.
Non c’è da stupirsi se
gli
studenti
migliori,
i
più
intelligenti
e
attivi,
quelli
che
non
si
accontentano
di
vivere
e
morire
di
mediocrità
e
analfabetismo
funzionale
scappano
all’estero,
fuggono
via.