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N. 53 - Maggio 2012 (LXXXIV)

mito del “buon selvaggio” e colonialismo
Spunti per una riflessione storica

di Fabrizio Mastio

 

La questione inerente il “diverso”, lo sconosciuto, potremmo affermare, viene affrontata, contestualmente alla scoperta di nuovi ed inesplorati territori, soprattutto durante il 700, secolo dei Lumi e del nuovo razionalismo, antesignano del progresso scientifico che permeò la cultura ottocentesca.

 

L’esplorazione di terre ignote e il contatto con le popolazioni di tutte le lande incluse nella stesura delle nuove mappe geografiche, pone una questione che va al di là della mera cartografia.

 

Si sviluppa un dibattito legato all’approccio con altre culture e identità e diviene di fondamentale importanza anche la percezione di queste agli occhi di un mondo in continuo progresso, dove l’antropologia e l’etnografia conoscono un periodo di grande scoperta che dai dati di tipo antropometrico si dipana verso una dimensione psicologica e di costume.

 

Il tema dei “barbari”, oi barbaroi, come i greci erano soliti dire, è molto antico e la storia è costellata di descrizioni di popoli e costumi, anche in epoche più lontane rispetto al periodo di cui trattasi: lo storico Erodoto ne offre un esempio nelle Storie, opera pregevole.

 

È un tema che emerge anche nel De Bello Gallico di Giulio Cesare, dove accanto alla descrizione della campagna di conquista delle Gallie, vi si può analizzare la narrazione dei costumi delle popolazioni locali.

 

I diari degli esploratori dei secoli successivi sono ricchi di aneddoti e descrizioni di luoghi misteriosi e sconosciuti e delle genti indigene. Un tema, dunque, che trae origine da tempo immemore, storia di conquista, scoperta e interpretazione “dell’altro” al tempo stesso.

 

A partire dal 700 il fulcro dell’analisi si colloca nella relazione fra la concezione dello stato di natura e la conoscenza scientifica ed etno-antropologica del “selvaggio”, dipinto nel quadro dei diari e degli scritti lasciatici in dono dai viaggiatori dell’epoca.

Emerge in tal modo l’antitesi mondo civilizzato – mondo selvaggio, rappresentazione di un equivoco senso di superiorità dell’uno verso l’altro, talvolta, e premessa della questione razziale, portatrice nelle sue estreme conseguenze di una tragica speculazione sul tema che si farà giustificazione del colonialismo e dell’imperialismo di vittoriana memoria.

 

Shaftesbury offre una chiave di lettura del tema, ascrivibile alla schiera di coloro che vedevano nel selvaggio l’uomo buono per antonomasia, scevro dal nefasto impatto di una civiltà ottenebrata da vizi e corruzione, “logos”, peraltro, ripreso più tardi da Rousseau nell’Émile: «Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo» e che riguarda altresì un approccio educativo.

Il concetto di educazione diverrà la premessa del giustificazionismo nei confronti del colonialismo: i selvaggi come uomini da educare e civilizzare, superiori agli animali solo se portatori di un’educazione che i popoli più evoluti provvederanno a fornire loro.

 

Conquista, colonizzazione e sfruttamento si fondono, dunque, nella paternalistica pretesa di illuminare e redimere popoli avvolti dalle tenebre di una natura spietata, pronta a soverchiare, come nell’opera “La Grande Onda” di Hokusai, i fragili destini umani. Emerge l’atmosfera “conradiana” di una dimensione esotica distante dal progresso e intrinseca alla visione eurocentrica dell’epoca.

 

Talvolta il selvaggio diviene metafora, in tutto il suo candore e ingenuità, della critica allo status quo, secondo una rilettura riscontrabile in Voltaire, altre volte tale visione viene sfatata mediante la narrazione di episodi di antropofagismo o crudeli sacrifici umani.

 

Un classico esempio di selvaggio come portatore del male, archetipo dell’autodistruzione del sé, è riscontrabile nelle vicende delle popolazioni dell’Isola di Pasqua, vissute in totale isolamento per secoli e simbolo di violenza alla natura e che dalla natura violenza subiscono: quando i primi europei arrivarono nell’isola, riportarono nelle cronache scene di grande degrado fisico e morale.

 

Ancora, Henry Morton Stanley , verso la fine dell’800, nel diario che narra l’avventuroso viaggio alla ricerca di Livingstone, scomparso nell’Africa nera, descrisse così la tribu dei Wabembe: “I Wabembe che abitano le cime alpestri della costa occidentale, di fronte allUrundi, sono antropofagie di rado si mostrano agli stranieri. Dai loro modi di fare, si potrebbe ricavare l’impressione che questi cannibali siano convinti del fatto che anche gli altri lo siano; appena vedono le barche degli arabi e dei Wangwana, fuggono sulle loro montagne. Tuttavia si dice che, se sanno di viaggiatori tra i quali si trovi un moribondo, cerchino di comperarlo offrendo in compenso grano e legumi”.

 

Si ritrovano descrizioni circa la percezione di diversità fra uomo civilizzato e selvaggio anche in Darwin nei resoconti del “Viaggio di un naturalista intorno al mondo”(1839): “Dopo essere sbarcati, il gruppo degli indigeni è parso alquanto allarmato,ma ha continuato a parlare e gesticolare con grande vivacità. Quello era davvero lo spettacolo più curioso e interessante che io avessi mai visto, non potevo credere che la differenza fra l’uomo selvaggio e quello civilizzato fosse tanto grande; essa è maggiore di quella che esiste fra l’animale domestico e quello selvatico, per il fatto che nell’uomo vi è una maggiore capacità di miglioramento.”

 

La questione del rapporto fra civile e selvaggio, primato dell’educazione e necessità di estendere il progresso ad altri territori e alle rispettive popolazioni per affrancarle dalla condizione di primordialità sfocia nel colonialismo e nell’imperialismo che in nome di una missione civilizzatrice, determinarono un’espansione innaturale della sovranità nazionale delle potenze europee di fine ottocento.

 

J. A. Hobson affronta il tema dell’imperialismo con lucida analisi, evidenziando i vari aspetti dell’espansionismo economico inglese e descrivendone in modo critico l’evoluzione.

 

Il selvaggio assurge a entità inferiore e in quanto tale, necessitante dell’intervento delle nazioni socialmente più efficienti: “È desiderabile che la terra sia popolata, governata e sviluppata, per quanto possibile, dalle razze più adatte per questi scopi, ossia dalle razze che hanno la più alta efficienza sociale;queste razze devono affermare il loro diritto conquistando,espellendo, sottomettendo o annientandole razze di minore efficienza sociale.”

 

Dal mito del buon selvaggio si giunge alla trasposizione del darwinismo sociale come giustificazione adottata dai nazionalismi e dalle ideologie del novecento, foriere delle catastrofiche guerre mondiali, e ad un ritorno ad una violenza ancestrale che in nome del progresso superiore, di cui tanto si è discettato, non avrebbe dovuto trovare spazio nell’evoluta Europa del secolo scorso.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Henry M. Stanley, Alla ricerca di Livingstone, Rizzoli

 

Darwin C., Viaggio di un naturalista intorno al mondo, 2005, ET Saggi

 

J. A. Hobson, Imperialism, (1902), traduz. italiana L’imperialismo, Isedi, Milano 1974



 

 

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