N. 94 - Ottobre 2015
(CXXV)
Una coerenza lunga una vita
Charles Bukowski, Gregory Corso: naturalmente Beat
di Dario Pontuale
Europa 1952: mentre a Stoccolma François Mauriac per merito del suo stile fluido e la rettitudine morale riceve il Nobel per la Letteratura e a Napoli muore l’accademico Benedetto Croce, in America con un romanzetto dal titolo Go, John Clellon Holmes getta le basi della prima opera della Beat generation.
Sebbene
il
termine
Beat
debba
ancora
essere
coniato
da
Jack
Kerouac,
poco
importa,
determinante
è,
invece,
ricordare
quanto
in
America,
nei
primi
anni
Cinquanta,
sbocci
quello
stile
letterario,
non
unicamente
letterario,
capace
di
far
udire
il
proprio
“Urlo”
fino
nel
lontano
Vecchio
continente.
Il
Beat,
e
con
sé
la
Beat
Generation,
si
presenta
come
un
termine
polivalente,
camaleontico,
brulicante
di
interpretazioni
e
congetture.
Spulciandolo
meglio
assomiglia
a
uno
stato
mentale,
un’ascesi
comportamentale
e
non
a
una
striminzita
definizione
enciclopedica.
Il
Beat
è
la
rivelazione
di
sé
stessi,
della
vita
On
the
road,
per
dirla
sempre
alla
Kerouac,
del
sesso
senza
pregiudizi,
dell’abuso
di
droghe,
della
difesa
dei
diritti
umani,
della
ricerca
del
proibito
e
dell’inesplorato.
Può
considerarsi
degnamente
uno
sputo
in
faccia
ai
sudici
ambienti
politici
e
alle
logiche
disumanizzanti,
alla
follia
della
guerra
in
Vietnam
e al
massacro
militare.
È a
tutti
gli
effetti:
«La
libertà
di
essere
sconfitti»
come
dichiara
Allen
Ginsberg,
altro
poeta
Beat
che
ne
avrebbe
parecchie
da
raccontare.
Succede
alle
volte,
casi
rari,
che
alcune
vite
inciampino
e
precipitino
dentro
correnti
di
pensiero
senza
neppure
saperlo,
respirandone
la
sostanza
inconsapevolmente.
In
casi
rarissimi
accade,
perfino,
che
ne
diventino
successivamente
l’icona,
incarnandone
l’emblema
in
ritardo,
semplicemente
perché
il
manifesto
programmatico
non
è
ancora
stato
redatto.
Sono
Beat
prima
che
il
Beat
esista,
alla
malora
qualunque
discorso
sulla
tempestività
d’azione.
Questo
particolare
effetto
di
inconsapevole
e
precorsa
adesione
al
canone
letterario
affiora
ancor
più
comparando
vite
che
stazionano
sulla
soglia
del
reale,
vite
nelle
quali
una
disposizione
connaturale
prepara
all’autentico
gesto
artistico.
Due
modelli,
due
veri
esempi
di
simile
rarità
intellettuale,
indubbiamente,
possono
rispondere
ai
nomi
di:
Charles
Bukowski
e
Gregory
Corso.
Nel
1952,
Charles
Bukowski,
detto
dagli
amici
Hank,
ha
trentadue
anni,
un
lavoro
che
detesta
da
postino
a
Los
Angeles,
praticamente
zero
pubblicazioni
all’attivo
e
sulle
spalle
un
mezzo
decennio
passato
a
girovagare
tra
New
Orleans,
San
Francisco,
San
Louis
dormendo
in
sudice
camere
in
affitto
e
scolando
fusti
di
birra.
Tra
una
rissa
in
un
bar
e un
arresto
per
reticenza
alla
leva,
trova
il
tempo
per
leggere
quegli
autori
che
scrivono
per
davvero:
Hemingway,
Fante,
Cechov
e
Celine.
Viene
alla
luce
nella
cittadina
di
Andernach,
in
Germania,
ma a
soli
due
anni
sbarca
sul
territorio
americano,
intuendo
già
i
presagi
di
una
vita
dura
come
l’asfalto.
La
madre
è
tedesca,
una
presenza
casalinga
incolore,
il
padre,
con
addosso
i
gradi
di
militare
polacco,
ogni
sera
usa
la
cinta
come
una
frusta
sulla
schiena
di
quel
povero
ragazzo
dalla
faccia
butterata.
I
rapporti
tra
padre
e
figlio
sono
a
dir
poco
terribili
così
a
diciotto
anni,
dopo
l’ennesima
violenta
lite,
il
padre
gli
prepara
la
valigia
e lo
butta
fuori
di
casa.
L’amore
paterno,
in
ogni
caso,
rinsavisce
qualche
tempo
più
tardi,
quando,
grazie
a
una
trasfusione
d’urgenza,
salva
il
figlio
dalle
conseguenze
letali
di
un’ulcera
perforante.
Il
troppo
alcool
ha
trapassato
le
pareti.
Insomma
nel
1952
Charles
Bukowski
è
già
Beat,
ma
non
sa
ancora
di
esserlo.
Nel
1952,
Gregory
Corso
compie
ventidue
anni,
partorito
dall’asprezza
della
Grande
Mela,
figlio
indesiderato
di
italiani,
viene
abbandonano
in
una
galera
che
qualcuno
chiama
sfacciatamente
istituto.
Fugge,
ma
viene
riacciuffato
e
rinchiuso
cinque
mesi
in
un
ospedale
psichiatrico.
Torna
a
piede
libero,
progetta
una
rapina,
ma
qualcosa
va
storto,
sconta
tre
anni
e
che
difficilmente
dimenticherà.
Trova
un
impiego
come
cameriere
in
un
bar
dalla
parti
del
Greenwich
Village,
accumula
qualche
poesia
nel
cassetto,
ama
leggere
Shelley,
Poe
e
Keats.
Sembra
cambiato,
almeno
all’esterno,
ma
ribolle
nelle
viscere
intanto
che
la
vena
ispiratrice
inizia
a
pulsare.
Insomma
nel
1952,
Gregory
Corso
è
già
Beat,
ma
non
sa
ancora
esserlo.
Evidente,
quasi
lapalissiano,
come
fin
dalle
origini
questi
due
“autori
sconosciuti”
qualcosa
in
comune
già
la
posseggano,
ma
con
l’arrivo
della
notorietà,
ossia
dopo
il
riconoscimento
pubblico
dello
status
di
“Beat”,
le
convergenze
si
infittiscono.
Agli
inizi
la
celebrità
coglie
alle
spalle
Bukowski,
cala
bollente
come
un
sorso
di
whisky
sceso
di
traverso,
eppure
lo
tira
fuori
per
un
po’
dai
cassonetti
dell’immondizia
e
dalle
liste
di
collocamento.
Nel
1959
bivacca
all’ippodromo
rimanendo
spesso
al
verde,
si
ubriaca
quotidianamente
e
scribacchia
poesie
e
racconti.
Nessun
periodico
lo
considera,
riceve
solo
lettere
di
rifiuto,
poi
viene
pubblicato
ed
esce
sull’importante
Harlequin.
Stupisce
tutti
con
quello
stile
sboccato
e
truculento,
la
direttrice
della
rivista,
Barbara
Frye,
gli
chiede
perfino
di
convolare
a
nozze.
Lui
senza
particolare
convinzione
accetta
e
puntuale
il
divorzio
arriva
dopo
meno
di
un
biennio,
d’altronde
se
lo
aspettava,
era
durata
fin
troppo.
Hank,
perciò,
riprende
a
lavorare
all’ufficio
postale,
controvoglia,
ma è
un
modo
saggio
per
non
finire
di
nuovo
in
strada
o in
cella.
Un
passo
verso
la
celebrità,
comunque,
è
compiuto,
difficile
crederlo,
ma è
compiuto.
A
Corso,
al
contrario,
la
celebrità
giunge
frontalmente
come
un
treno
ad
alta
velocità.
Mentre
serve
ai
tavoli
del
bar,
nel
1954
conosce
Allen
Ginsberg
che
sbalordito
dalla
forza
dei
versi,
lo
presenta
all’eletta
schiera
Beat,
procacciandogli
perfino
un
editore.
Viene
data
alle
stampe
quindi,
la
raccolta:
The
Vestal
Lady
on
Brattle
and
other
poems,
finanziata
grazie
a
una
colletta
degli
studenti
di
Harvard,
pagine
dalle
quali
spicca
l’incommensurabile
inno
contro
l’armamento
nucleare:
Bomb.
La
raccolta
viene
seguita,
nel
1958,
da
altre
liriche
intitolate:
Gasoline
e
dall’unico
suo
romanzo:
The
American
Express
datato
1961.
Negli
anni
seguenti
Corso
si
sposa,
ma
il
matrimonio
è da
subito
un
disastro,
tenta
la
carriera
dell’insegnamento
con
risultati
ancor
più
fallimentari,
infine,
sentendosi
l’America
troppo
stretta,
nei
primi
del
Sessanta
sorvola
l’Atlantico
e
atterra
in
Europa.
A
Parigi
abita
quasi
per
un
decennio,
al
Beat
Hotel
nel
Quartiere
Latino
diventa
di
casa,
lì
sembra
esser
compreso,
il
suo
nome
è in
ascesa,
la
celebrità
per
lui,
è in
decollo.
Nel
1969
Bukowski,
dopo
la
nascita
della
figlia
Marina
Louise,
avuta
dall’unione
con
Frances
Smith,
lascia
definitivamente
l’odioso
impiego
da
postino,
pare
esser
riuscito,
di
fatto,
a
strappare
un
vitalizio
di
cento
dollari
come
scrittore
alla
Black
Sparrow
Press,
tanto
da
commentare:
«Dovevo
fare
una
scelta,
rimanere
all’ufficio
postale
e
impazzire
o
giocare
a
fare
lo
scrittore
e
morire
di
fame.
Decisi
di
morire
di
fame».
Neppure
un
mese
termina
il
libro
Post
Office
e
con
esso,
l’altro
passo
verso
la
celebrità
è
compiuto.
Il
romanzo
diventa
un
culto.
Da
qui,
fino
al
termine
dei
loro
giorni,
poco
importerebbe
ricordare
gli
altri
titoli
di
tutti
i
loro
romanzi,
racconti,
poesie,
poco
varrebbe
sapere
come
abbiano
vissuto
la
notorietà,
come
abbiano
percepito
il
talento
ormai
pubblicamente
riconosciuto.
Ciò
che
più
conta,
è
tentare
di
capire
il
loro
lascito,
il
senso
affiorante
da
simili
esistenze,
anime
tutt’altro
che
convenzionali,
personaggi
accomunati
dal
modo
di
intendere
la
vita.
In
ogni
loro
opera
si
concretizza
un’ostinata
condotta
personale,
un
rifiuto
totale
del
conformismo,
una
battaglia
quotidiana
e
acerrima
alle
regole.
Un’ironia
feroce,
un
sarcasmo
cannibale,
un
modo
provocatorio
di
mettere
nero
su
bianco,
uno
stile
sfacciato
di
riempire
la
pagina,
un
inchiostro
caustico
peggio
dell’acido.
Attaccano
il
sistema
sociale
vigente,
non
soltanto
quello
americano,
sfidano
i
benpensanti,
i
bigotti,
gli
ipocriti;
lanciando
ortaggi
e
lattine
vuote
sul
farsesco
palcoscenico
culturale.
Non
vogliono
essere
esempi,
nemmeno
eroi
o
guru,
son
soddisfatti
di
essere
chiamati
reietti,
fieri
di
poter
vomitare
ciò
che
bevono,
sentono
e
vivono.
Bukowski
bellamente
dichiarò:
«Il
matrimonio,
Dio,
i
figli,
i
parenti
e il
lavoro.
Non
ti
rendi
conto
che
qualsiasi
idiota
può
vivere
così?
E la
maggior
parte
lo
fa».
Un
pugno
nello
stomaco
farebbe
meno
male,
darebbe
meno
fastidio.
Traspare
spesso
la
decadenza
dell’ideale,
la
disperata
ricerca
di
libertà
del
singolo,
intesa
come
disillusione
da
ogni
pensiero
precostituito,
una
denuncia
gridata
senza
mezze
misure,
realizzata
con
una
potenza
espressiva
senza
precedenti.
Con
caratteri
scontrosi,
schivi
e
burberi,
sia
Corso
che
Bukowski,
rifuggono
dal
banale,
dall’ovvio,
dal
già
detto.
La
scrittrice
Fernanda
Pivano
affresca
il
poeta
newyorchese
con
una
frase
che
suona
come
un
tributo:
«Insolente
al
di
là
del
sopportabile
e
strafottente
nella
più
assoluta
imprevedibilità
qualunque
cosa
abbia
detto
o
scritto,
però,
ha
sempre
rivelato
il
dono
di
non
dire
mai
una
sciocchezza».
Questi
due
autori
vogliono
fortemente
scrivere,
lo
fanno
contro
tutto
e
tutti,
resistono
a
qualunque
tempesta,
mettendo
sempre
la
penna
sul
foglio,
anche
quando
la
loro
vita
è a
un
passo
dal
baratro.
Scrivere
è un
antidoto
al
male,
uno
sfogo
che
nasce
da
dentro
e
strappa
le
carni.
Corso
scavando
nella
memoria
ripesca
un
ricordo
amaro,
trasformandolo
in
impegno
poetico:
«Uscii
di
prigione
amando
i
miei
simili
perché
tutti
quelli
che
incontrai
là
dentro
erano
fieri
e
tristi
e
belli
e
perduti,
perduti».
Bukowski
non
è da
meno,
guarda
avanti
e
rilancia
nel
piatto
della
vita
con
l’impertinenza
che
lo
contraddistingue:
«Scrivere
poesie
non
è
difficile,
difficile
è
viverle».
Poche
parole,
ma
pesanti
più
del
piombo,
risuonanti
quanto
un
“Urlo”.
Una
seppur
minima
biografia
non
può
considerarsi
conclusa,
se
non
si
esaurisce
con
la
cronaca
della
morte,
punto
finale
collocato
al
termine
di
un
discorso
lungo
un’intera
esistenza.
E
alle
volte,
come
in
questo
caso,
riesce
a
rappresentarne
la
sintesi.
Charles
Bukowski,
se
pur
da
molto
ammalato
di
tubercolosi,
muore
stroncato
da
una
leucemia
fulminante
il 9
marzo
del
1994
all’ospedale
di
San
Pedro,
pochi
giorni
dopo
aver
concluso
la
sua
ultima
opera:
Pulp.
Gregory
Corso,
invece
si
spegne
per
un
cancro
al
colon
il
18
gennaio
del
2001,
oggi
riposa,
per
espressa
volontà
nel
cimitero
acattolico
di
Testaccio
a
Roma,
in
compagnia
dei
suoi
maggiori
ispiratori:
John
Keats
e
Percy
Bysshe
Shelley.
Bukowski.
Corso.
Due
nomi,
due
colossi
oggi.
Duplici
storie,
duplici
vite
ieri.
Limpide
esistenze
Beat
venute
su
per
caso,
cresciute
per
mezzo
della
loro
innata
natura
e
non
per
soddisfare
una
scelta
artistica.
Probabilmente
una
buona
dose
di
fermezza
e
una
grande
quantità
di
convinzione
possono
supportare
la
coerenza,
ma
occorre
anche
una
spiccata
resistenza
agli
urti
e
molto
disinfettante
per
le
ferite.
Chi
mantiene
simile
patto,
rispondendo
tenacemente
alle
conseguenze
che
comporta,
merita
un
rispetto
del
tutto
particolare,
quello
cioè
di
chi
si
mostra
fedele
alla
propria
incorreggibile
natura.
Se
in
aggiunta
dovesse
a
poi
accadere
di
ritrovarsi
anche
scrittori
di
fama
internazionale,
l’effetto
assumerebbe
proporzioni
eclatanti.