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N. 107 - Novembre 2016 (CXXXVIII)

buio a budapest

sessantanni fa la rivolta repressa
di Gaetano Cellura

 

La statua bronzea di Stalin viene abbattuta da studenti e operai alle 9,37. Ben piantata nel marmo, è alta dodici metri. Il 23 ottobre del 1956 non è un giorno qualunque per Budapest, che sogna la libertà, la via magiara al socialismo.

 

È lunga l’estate di quell’anno. Il 28 giugno insorgono gli operai di Poznan, in Polonia. Il 25 luglio e l’8 agosto sono giornate molto tristi per l’Italia. Due giornate tragiche. L’Andrea Doria si scontra con la nave svedese Stockholm e affonda nell’Atlantico: quarantadue morti e centinaia di feriti. Passano quindici giorni e un corto circuito causa un incendio nella miniera di Marcinelle: 262 morti, la maggior parte emigrati italiani. Il 26 luglio, intanto, Nasser nazionalizza il Canale di Suez e dà inizio a una lunga – e insidiosa per la pace nel mondo – crisi internazionale.

 

Questa l’estate, ma l’autunno non è da meno. I carri armati sovietici invadono l’Ungheria del primo ministro “eretico” Imre Nagy. Si è in piena destalinizzazione ma nulla cambia. E non sono i provocatori borghesi infiltrati a provocare le rivolte, come la Pravda vuol far credere, ma gli errori del Partito (con la P maiuscola appunto), la crisi del regime, l’insoddisfazione degli operai.

 

Proprio questo scrive Giuseppe Di Vittorio sull’Unità della rivolta di Poznan prima che Togliatti cambi la versione dei fatti. E la stessa linea il segretario della Cgil mantiene sui fatti d’Ungheria. Una linea di sostegno agli insorti delle fabbriche e delle università, alla loro rivolta comunista e libertaria.

 

Mentre in Italia la sinistra si divide e gli intellettuali, da Roma a Milano e da Torino a Palermo, firmano sessant’anni fa appelli e manifesti contro l’invasione sovietica, nel paese occupato si contano i morti: mille ungheresi, cinquecento soldati russi, il centro di Budapest tra le macerie.

 

Dopo aver finto la ritirata e dato agli insorti l’illusione della vittoria, i sovietici ritornano con i loro carri armati. Imre Nagy ha appena formalizzato all’ambasciatore russo a Budapest la neutralità dell’Ungheria e la denuncia del Patto di Varsavia. L’ambasciatore è Yuri Andropov, che sarà uno degli ultimi segretari del PCUS della dissolta Unione Sovietica. In quei giorni Palmiro Togliatti esprime un giudizio sconcertante: “L’intervento sovietico è stato importante non solo per impedire il ritorno del fascismo in Ungheria ma anche per salvare la pace”.

 

Il mondo è distratto dalla crisi di Suez e dalle elezioni presidenziali americane quando Nagy legge al popolo l’ultimo comunicato: “Nelle prime ore del mattino truppe sovietiche hanno attaccato la capitale per rovesciare il legittimo governo democratico d’Ungheria”. Giudica inutile ogni resistenza e ringrazia i suoi collaboratori. Poi viene arrestato e, due anni dopo, giustiziato “in nome della classe operaia e di tutto il popolo lavoratore”.

 

Il primo appello del suo successore János Kádár, che guida un governo fantoccio di Mosca, è rivolto naturalmente all’Unione Sovietica: affinché aiuti il popolo ungherese “a schiacciare le forze bieche della reazione”. Per trentatré anni nessuno più muoverà Kádár da quella carica. Nella notte cupa dell’Ungheria fanno la stessa fine di Nagy, e nello stesso giorno (16 giugno 1958), il comandante militare della rivolta Pál Maléter e il giornalista Miklós Gimes.

 

La vicenda umana e politica di Imre Nagy, occhiali cerchiati e baffi sempre in ordine, richiama un romanzo e il suo protagonista vittima delle purghe staliniane. Il romanzo, che s’ispira alla fine fatta da Bucharin, è Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, scrittore nato proprio a Budapest nel 1905. Il suo protagonista, l’ex commissario del popolo Rubasciov, passa gli ultimi giorni di vita a misurare la propria prigione: “sei passi e mezzo fino alla porta [...] sei passi e mezzo fino alla finestra”. E a chiedersi, senza trovare risposta, perché moriva in realtà.

 

Aveva resistito al primo inquisitore ricordandogli l’età aurea cui lui della vecchia generazione di rivoluzionari, “spremuta fino all’ultima goccia”, appartiene. Guarda il caos che ne abbiamo fatto gli dice: uno stato di polizia che risolve con la tortura e la morte le divergenze d’opinione. Ma di fronte al secondo inquisitore, Gletkin, in cui è possibile identificare lo stesso Stalin, nel romanzo chiamato il N.1, Rubasciov cede sotto tortura e firma la confessione dei propri “delitti”. Delitti d’opinione e dunque controrivoluzionari.

 

Nel caso di Rubasciov sono in ballo i valori morali di una rivoluzione tradita. I valori della storia ridotti a semplice politica. Nel caso di Imre Nagy – arrestato, processato e condannato a morte – sono in ballo il destino d’illibertà del suo popolo e l’onore, come lui disse, della parola socialismo nella pianura del Danubio.



 

 

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