N. 69 - Settembre 2013
(C)
i Bruciaprofumi sferici a sospensione cardanica
analisi storica di un oggetto
di Daniele Ceccarelli
“Tre
cerchi
ascosi
all’occhio
[tuo]
girano
nella
pancia
d’un
globo,
quando
tu
lo
rotoli.
Ogni
cerchio
si
muove
in
orbita
sua
propria,
alla
quale
risponde
in
contrario
l’asse
d’un’altra.
Il
cerchio
igneo
ha
uno
scodellino
nel
quale
tu
vedi
il
fuoco
che
brucia
i
profumi,
correndo
dietro
un
coperchio,
su
tappeti
di
seta
o
d’altra
[roba]
senza
intaccarli,
esso
manda
un
fumo
che
s’innalza
da
spiragli,
con
[grate]
esalazioni
di
sandal
e
d’ambra.
Mai
non
vidi
fuoco
che
desse
la
propria
malvagità
in
pasto
al
nadd:
ed
ecco
che
ha
sua
sfera
in
terra,
nel
grembo
d’una
profumiera!
Assottiglia
con
la
sua
fiamma
le
sostanze
crasse,
onde
vengon
su
in
vapore
dilicato,
odorifero.
Or
questa
sera
io
sento
una
fragranza
che
somiglia
alla
lode
di
lui
e ne
ripete
gli
elogi
a
volta
a
volta...”
Il
poeta
arabo
Ibn
Hamdis
dedica
queste
rime
a
uno
di
quei
tanti
oggetti
caratteristici
della
sua
quotidianità,
oggetti
che,
pur
avendo
un
ruolo
marginale
e
non
decisivo
nella
storia,
ornavano
e
rifinivano
l’umana
esistenza:
il
bruciaprofumi
sferico.
Le
rime
trasmettono
nei
secoli
particolari
di
straordinaria
rilevanza:
l’intento
del
poeta
di
descrivere
con
particolari
minuziosi
la
fonte
della
sua
ispirazione
è
per
noi
prezioso,
in
quanto
permette
di
comprenderne
l’utilizzo,
la
struttura,
oltre
che
le
non
trascurabili
sensazioni
degli
astanti.
Ibn
Hamdis
scrive
tra
i
secoli
XI e
XII
in
Sicilia,
il
che
permette
di
avere
indizi
per
la
prima
comparsa
in
Europa
di
bruciaprofumi
sferico
confacente
alla
tipologia
che
qui
interessa:
due
valve,
orifizi
per
aerazione
e
sospensione
cardanica
interna
con
fornello
centrale.
è
interessante
notare
come
nel
componimento
sopra
citato
il
poeta
esordisca
nella
descrizione
dell’oggetto
dall’interno,
utilizzando
versi
scevri
di
metafore,
allegorie
o
altre
figure
retoriche
di
carattere
semantico.
Sembra
piuttosto
l’opera
di
un
poeta
artigiano,
che
si
compiaccia
di
rivelare
i
prodigi
della
tecnica
da
lui
serbati
o di
scoprire
il
segreto
celato
dietro
a un
congegno
finora
ignoto.
Non
vengono
lesinati
particolari
strutturali
o
funzionali
inerenti
alla
sospensione
cardanica:
i
tre
cerchi
interni
con
raccordi
sfasati,
il
piattello
centrale
ove
alloggia
il
combustibile,
la
capacità
di
quest’ultimo
di
mantenere
un
assetto
parallelo
al
terreno
pur
in
stato
di
movimento
rotatorio
del
corpo
esterno.
La
civiltà
islamica
potrebbe
aver
appreso
le
peculiarità
del
congegno
dagli
scritti
di
Filone
di
Bisanzio
(280-220
a.C.),
il
quale
ne
rende
note
le
caratteristiche
nel
trattato
Pneumatica,
giunto
fino
a
noi
in
una
versione
in
lingua
araba
risalente
al
IX
secolo;
di
contro
la
presenza
del
meccanismo
nel
trattato
di
Filone
di
Bisanzio
potrebbe
essere
frutto
di
un’interpolazione
degli
stessi
traduttori
arabi:
ad
avallare
tale
ipotesi,
interviene
l’assenza
dell’elemento
in
questione
in
una
manoscritto
latino,
anch’esso
versione
del
Pneumatica.
Per
rassicuranti
certezze,
secondo
Needham,
si
dovrebbe
piuttosto
volgere
lo
sguardo
ai
congegni
cinesi
noti
come
Xiang
Lu e
Shou
Lu,
escogitati
e
realizzati
dall’artigiano
meccanico
Ting
Huan
nel
180
d.C.
circa.
Dall’Oriente,
poi,
lampade
e
bruciaprofumi
con
all’interno
la
sospensione
‘cardanica’
avrebbero
raggiunto
l’Occidente
con
un
ritardo
di
8-9
secoli.
L’interesse
poliedrico
si
manifestò
comunque
nei
secoli
sotto
varie
forme,
poetiche,
scientifiche,
ma
anche
meramente
tecnologiche.
Una
rappresentazione
grafica
del
sistema
cardanico
si
trova
nella
Mappae
clavicula
del
IX
secolo,
mentre
Villard
de
Honnecourt
ne
fornisce
dettagli
per
l’applicazione
che
qui
interessa
nel
suo
celebre
taccuino
del
XIII
secolo:
[...]
All’interno
del
pomo
di
rame
va
posto
un
piccolo
recipiente
sospeso
per
mezzo
di
due
perni
opposti
in
maniera
tale
che
il
recipiente
per
il
fuoco
resti
sempre
orizzontale
perché
ciascuno
dei
cerchi
porta
i
perni
dell’altro.
Veniamo
dunque
a
colui
che,
a
sua
insaputa,
ne
detiene
la
paternità:
tale
dispositivo
prende
il
nome
da
Girolamo
Cardano,
matematico
e
medico
vissuto
tra
il
1501
e il
1576.
Pur
non
avendo
velleità
di
detenerne
l’ideale
invenzione,
chiaramente
precedente,il
nome
di
Cardano
è
stato
collegato
alla
omonima
sospensione,
avendone
egli
riportato
esempi
di
utilizzo
nella
sua
opera
De
subtilitate
in
un’epoca
in
cui
l’inventore
e
l’invenzione
potevano
finalmente
essere
pubblicamente
congiunti:
Simili
ratione
inventum
est,
ut
Caesaris
sedes
ita
disponeretur,
ut
quocumque
situ
constituatur,
ille
immobilis,
ac
commodi
dum
vehitur
sedeat.
Hoc
tractum
ex
armillarum
ratione:
cum
enim
circuli
tres
chalybei
constituentur,
polis
sursum
deorsum,
ante,
retro,
dextra
ac
sinistra
mobilibus,
cum
plures
non
possint
esse
situs,
necesse
est
ipsum
in
essedo
quomodocumque
agatur
quiescere
perpetuo.
Habet
hoc
aliquid
non
absimile
lucernis,
a
quorum
exemplo
ducta
est
ratio:
circumvolutae
enim
tametsi
patulae,
oleum
nequaqua-
effundunt.
Dai
troni
alle
lucerne,
dai
carri
fino
ai
bruciaprofumi:
il
cuore
di
queste
produzioni,
frutto
dell’intelletto
umano,
permane
sostanzialmente
lo
stesso,
variando
nella
dimensione
e
nella
conformazione
il
corpo
esterno
e,
conseguentemente,
l’applicazione
e
l’utilizzo.
I
maggiori
musei
d’Europa
custodiscono
esemplari
con
datazioni
che
vanno
dal
XIII
secolo
al
XVI
secolo,
quattro
secoli
in
cui
l’oggetto
venne
prodotto
invariabilmente
mantenendo
la
sua
struttura.
Ma
fu
lo
stesso
per
il
suo
utilizzo?
Il
binomio
funzione-forma,
insito
in
un
qualsivoglia
prodotto
tecnologico,
non
sempre
mantiene
quest’ordine
causa-effetto,
potendo,
in
alcuni
contesti,
invertirsi:
l’oggetto
è
il
veicolo,
il
recipiente
e la
concretizzazione
di
un’idea
(dalla
funzione
alla
forma),
ma
è
la
sua
natura
estetica
che
sulla
distanza,
sia
essa
spaziale
che
temporale,
predomina,
inducendo
colui
che
lo
rinviene
a
colmare
la
lacuna
del
binomio:
ciò
comporta
un’inevitabile
inversione
forma-funzione.
Semplificando:
davanti
a un
oggetto
creato
per
uno
scopo
che
non
si
conosce,
ci
si
interroga
sul
suo
utilizzo
e vi
si
assegna
una
funzionalità,
che
a
volte
può
non
coincidere
con
quella
originale,
per
cui
il
prodotto
è
stato
ideato
e
realizzato.
Il
lettore
ci
perdoni
l’audacia
linguistica,
ma,
concludendo,
si
potrebbe
descrivere
il
processo
come
passaggio
dalla
“forma
funzionale”
alla
“funzione
formale”.
L’atto
che
sancisce
il
possesso
e di
conseguenza
la
familiarità
con
la
novità
è
il
nominare:
è
indispensabile
far
rientrare
nell’orbita
del
conosciuto
ciò
che
fino
ad
allora
è
stato
sconosciuto.
Quando
il
neologismo
si
avverte
superfluo,
interviene
l’adattamento,
il
calco
e la
lingua
manifesta
il
potere
dell’analogia
e
dell’associazione.
La
sfera
bruciaprofumi,
all’apparenza,
non
era
molto
dissimile
dal
pomum
aureum,
sfera
utilizzata
per
funzioni
di
una
certa
rilevanza,
quale,
ad
esempio,
l’incoronazione
degli
imperatori
da
parte
delle
alte
autorità
ecclesiastiche.
Già
nel
XIII
secolo,
volendo
fornire
indicazioni
per
“fare
uno
scaldino
per
la
mani”,
Villard
de
Honnecourt
parla
espressamente
di
“una
specie
di
pomo
in
rame
composto
di
due
metà
che
si
incastrano”.
Inoltre
sembra
che
fosse
già
in
uso
nel
medesimo
secolo
un
pomum
calefactorium,
che,
mediante
riempimento
con
acqua
calda,
permettesse
di
riscaldare
le
mani
dell’officiante.
Fu
così
che,
tramite
la
mediazione
di
oggetti
similari
nelle
fattezze
e
negli
impieghi,
al
significato
dato
dal
riconoscimento
di
una
nuova
funzione
si
associò
il
significante
pomum.
Come
valenza
diacritica,
però,
la
notazione
negli
inventari
medievali
prevedeva
l’aggiunta
a
tale
termine
di
una
perifrasi
che
ne
specificasse
il
fine
a
cui
l’oggetto
era
destinato;
fu
così
che
si
diffuse
la
definizione
di
pomum
ad
califaciendum
manus.
Il
termine
ebbe
fortuna
e
per
l’inerzia
della
lingua
superò
l’epoca
medievale,
racchiuso
nel
lemma
pomander,
ovvero
“pomme
d’ambre”
(mela
d’ambra),
anche
quando
ormai
il
fuoco
non
sarà
più
necessario
per
diffondere
profumo.
L’ironia
della
sorte,
dunque,
assegnò
al
prodotto
il
nome
di
un
frutto,
come
quello
dell’albero
della
conoscenza
del
bene
e
del
male,
che
l’uomo
doveva
guardarsi
bene
dal
cogliere.
L’ingegno
umano
portò
a
governare
il
fuoco,
simbolo
della
conoscenza
e
della
stessa
tecnica,
e a
racchiuderlo
in
un
nuovo
frutto,
non
colto,
bensì
da
lui
stesso
creato.
Dalle
regioni
dell’Islam,
Siria,
Egitto,
Persia,
attraverso
Venezia,
esperta
mediatrice
culturale,
la
sfera
bruciaprofumi
giunge
in
Europa,
trovando
nuove
realtà
(vedi
esigenze),
e
adattandosi
a
esse.
Sia
le
tracce
nelle
fonti
documentarie
che
i
reperti
delineano
una
curva
di
frequenza
crescente
dal
XIII
secolo
in
poi,
testimoniando
una
maggior
concentrazione
tra
la
seconda
metà
del
XIV
secolo
e la
prima
metà
del
XV
secolo,
in
concomitanza,
peraltro,
con
un
abbassamento
repentino
delle
temperature
medie
a
partire
dal
1350,
inizio
di
un
periodo
che
i
climatologi
definiscono
“little
ice
age”.
La
domanda,
quindi,
di
strumenti
caloriferi
aumenta
e la
sfera
bruciaprofumi
ha
quel
valore
aggiunto
che
altri
manufatti
non
hanno:
è
preziosa,
è
ornata
e,
dunque,
è
esteticamente
suggestiva.
Essa
può,
quindi,
grazie
al
suo
potenziale
derivato
dalla
sinergia
di
vari
elementi,
soddisfare
le
velleità
di
prestigio
e di
ostentazione
dello
sfarzo
nel
mondo
nobiliare
e,
al
pari,
unire
l’utile
materiale
all’utile
spirituale
delle
realtà
ecclesiastiche,
integrandosi
perfettamente
nel
panorama
degli
oggetti
liturgici.
Come
in
un
corale
passaparola,
così,
complici
gli
artigiani,
le
sfere
dal
nord
Europa
giungono
nelle
maggiori
dimore
nobiliari
e
nel
patrimonium
Sancti
Petri,
dove
già
il
17
luglio
1436
risultano
aver
trovato
la
loro
collocazione
in
sacrestia
duo
poma
de
ere
deaurata
ad
calefaciendum
manus.
Tra
il
1454
e il
1455
un
nuovo
inventario
registra
lo
spostamento
di
una
delle
due
sfere:
duo
poma
erea
deaurata
ad
calefaciendum
[unum
est
in
sancto
petro].
Di
ciò
non
se
ne
ricorderà
colui
che,
trovandosi
a
dover
stilare
nel
1489
un
nuovo
inventario
della
sacrestia,
dei
mobili,
dei
beni
e
dei
libri
della
biblioteca,
censirà
solamente
un
pomum
ereum
deauratum
ad
calefitiendum
manus.
Al
momento
nessun’altra
traccia
è
pervenutaci
delle
suddette
due
sfere
e
dei
loro
spostamenti
fino
al
1938,
quando
Angelo
Lipinsky
si
interessò
ai
due
“curiosi
cimeli”
e
scrisse
su
di
essi
un
breve
articolo.
Lo
iato
temporale,
in
realtà,
e la
generica
descrizione
degli
inventari
non
ci
permettono
di
affermare
con
assoluta
certezza
che
si
tratti
degli
stessi
manufatti,
dato
che
i
reperti
custoditi
ad
oggi
nei
Musei
Vaticani,
come
si
vedrà
nella
successiva
parte
dello
scritto,
si
mostrano
alquanto
eterogenei.
Per
prudenza
scientifica,
dunque,
affermiamo
la
probabile,
ma
non
sicura,
correlazione
con
le
fonti
d’archivio.
Anche
per
ciò
che
concerne
l’origine
degli
oggetti
non
vi
sono
certezze.
Studi
inerenti
all’estetica
e
all’apparato
iconografico
da
parte
di
storici
dell’arte
potrebbero
apportare
un
prezioso
contributo
in
materia.
Sfera
maior
(lucerna
bruciaprofumi,
ottone
dorato
e
traforato,
diametro
ca.
12
cm,
XIII-XIV
secolo)
Il
reperto
maggiore
per
dimensioni
presenta
un
corpo
in
ottone
sferico
leggermente
compresso
alle
estremità,
in
corrispondenza
dell’innesto
di
due
anelli.
La
struttura
si
compone
di
due
valve
del
diametro
di
12
cm
circa,
dorate
e
traforate,
connesse
da
un
perno.
La
chiusura
è
assicurata
da
un
piccolo
gancio
con
chiodino
prospiciente
il
perno,
mentre
un
chiavistello
rotante
accessibile
dall’esterno,
bloccando
il
chiodino
interno
a
chiusura
avvenuta,
evita
aperture
accidentali.
Sulla
superficie
dorata
sono
presenti
dei
disegni
geometrici
di
varie
dimensioni
a
stelle
stilizzate
con
otto
punte
su
sfondo
puntellato.
La
sospensione
cardanica
alloggiata
all’interno
è
composta
da
tre
anelli
di
forma
tubolare,
ospitanti
un
piattello
con
puntale
centrale,
atto
a
fissare
eventuali
combustibili
solidi
o
candele
in
cera.
Il
piattello
presenta
un
piccolo
fermo
a
manico
sulla
parte
superiore
la
cui
funzione
non
appare
del
tutto
ovvia.
Ai
poli
della
sfera
sono
presenti
due
anelli.
L’oggetto
presenta
nella
parte
interna
della
valva
superiore
intense
tracce
di
combustione
e di
ossidazione,
mentre
nella
parte
esterna
indizi
di
usura
da
contatto
e da
manipolazione
sono
maggiormente
presenti
nella
valva
inferiore.
Molti
elementi
quali
l’alta
densità
dei
fori
che
garantiscono
la
presenza
di
comburente
per
la
combustione
e la
conseguente
circolazione
e
diffusione
del
profumo,
le
dimensioni
del
corpo,
la
presenza
di
elementi
che
interferiscono
sulla
sfericità
(e
che
quindi
disturbano
la
manipolabilità
come
il
perno,
il
giunto
di
chiusura,
la
chiavetta
di
sicurezza),
i
due
anelli,
il
puntale
interno
per
candele,
nonché
la
superstite
doratura
esterna
(indizio
di
moderata
manipolazione
diretta
e
persistente
dell’oggetto)
portano
a
dedurre
che
si
tratti
di
un
bruciaprofumi
illuminatorio,
piuttosto
che
di
uno
scaldamani.
Stranamente
negli
studi
precedenti
non
ci
si
è
soffermati
su
elementi
che
fugano
l’ipotesi
che
si
tratti
di
uno
scaldamani,
come,
soprattutto,
i
due
anelli,
uno
per
sospendere
l’oggetto,
l’altro,
probabilmente,
per
fungere
da
appiglio
a
suppellettili
secondarie
come
le
croci
pensili,
molto
diffuse
in
epoca
medievale.
Sfera
minor
(scaldamani
liturgico,
rame
dorato,
diametro
ca.
10
cm,
XIV
secolo)
Il
corpo
in
rame
è
costituito
da
due
valve
separate
di
circa
10
cm
di
diametro,
perfettamente
congiungibili
tramite
un
innesto
a
vite
ricavato
nel
diametro
della
sezione.
A
chiusura
avvenuta,
la
sfera
risulta
perfetta,
priva
di
indizi
che
permettano
di
intuire
la
struttura
in
due
emisferi.
All’interno
di
una
valva
trova
alloggiamento
la
sospensione
cardanica
a
tre
anelli
a
sezione
rettangolare,
ospitante
un
piccolo
piattello
semiconico,
probabilmente
per
contenere
brace
o
altri
combustibili
solidi,
ricoperti
poi
da
essenze
profumate.
Tali
fonti
di
calore,
infatti,
a
differenza
di
quelle
a
fiamma
libera,
porterebbero
a
una
temperatura
più
elevata
nella
zona
inferiore,
ovvero
nella
valva
con
la
sospensione
cardanica:
la
sfera
caricata
e in
funzione
può
esser
ruotata
in
ogni
angolazione,
ma
è
pur
vero
che
si
avranno
maggiori
probabilità
di
tenerla
in
una
posizione
vicina
a
quella
iniziale.
Infatti
la
parte
interna
dell’emisfero
inferiore
appare
più
brunita
e
presenta
tracce
polveriformi
condensate,
forse
di
residui
di
combustione.
La
superficie
esterna
del
corpo
ha
preservato
sporadiche
zone
di
doratura
per
ageminatura
residue
concentrate
negli
interstizi:
l’usura,
probabilmente,
ha
portato
a
una
graduale
asportazione
del
resto,
rendendo
visibile
il
corpo
in
rame.
Questo
reca
un
ricca
iconografia
raffigurante
all’interno
di
medaglie
il
Cristo,
la
Vergine
e
vari
santi
a
mezzo
busto,
inframezzati
da
trifogli
traforati.
L’oggetto
si
discosta
dalla
“koinè”
estetica
degli
altri
esemplari
diffusi
in
Europa
e
attualmente
conservati
nei
musei:
è
più
piccolo,
presenta
motivi
religiosi,
conserva
una
ridotta
doratura
superficiale,
ha
un
corpo
esterno
privo
di
elementi
che
possano
interferire
sulla
manipolabilità.
Tutto
ciò
porta
a
pensare
che
si
tratti
di
uno
scaldamani
liturgico
a
tutti
gli
effetti,
realizzato
appositamente
per
tale
scopo.
Riferimenti
bibliografici:
Amari
M.,
Biblioteca
arabo-sicula,
1880-1881,
pagg.
384,
385.
Sarton
G.,
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p.
271.
L’articolo
è
stato
ripreso
anche
in
Orlando
F.
S.
(a
cura
di),
Il
Tesoro
di
San
Pietro,
Rizzoli