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N. 25 - Gennaio 2010
(LVI)
brigantaggio pugliese
quel che non tutti ricordano
di Antonio Rizzi
La
Murgia,
l’entroterra
tarantino
e
brindisino,
la
Daunia:
nelle
Puglie
non
tutti
sono
memori
della
delicata
pagina
post-unitaria,
che
legò
il
passato
borbonico
al
futuro
sabaudo.
In
mezzo
le
mille
cronache
dei
briganti,
che
condensano
folclore,
mito
nostrano
e
tanta
viva
e
cruda
quotidianità.
È
lecito
oggi
rispolverare
un
lucido
revisionismo
storico
di
quella
storia
tramandataci
dai
vincitori?
Per
molta
gente,
le
vicende
dinamiche
dell’Unità
d’Italia
che
portarono
l’eroe
Garibaldi
ed i
suoi
prodi
seguaci
a
completare
la
fusione
della
penisola,
attraverso
la
spedizione
simbolo
delle
gesta
risorgimentali,
sono
lo
specchio
di
quello
che
è da
sempre
il
more
italico.
Una
compagine
non
invincibile,
che
pur
fra
stenti
e
patimenti,
riesce
nella
propria
impresa,
senza
tuttavia
trovare
un
avversario
propriamente
agguerrito
qual’era
l’esercito
borbonico
allo
sbando
dell’epoca.
I
fatti
che
portarono
gli
eroi
sabaudi
fino
a
Teano
li
sappiamo
tutti;
ma
desta
una
certa
impressione
rileggere
fra
gli
eventi
di
microstoria
locale
ed
annotare
centinaia
d’episodi
di
vera
e
propria
guerra
civile,
simbolo
di
un
cambiamento
tutt’altro
che
indolore
per
il
mezzogiorno.
Le
faide,
i
regolamenti
di
conti
e le
lotte
intestine
che
scissero
ogni
piccola
e
grande
municipalità,
all’indomani
del
1861,
non
fecero
altro
che
dilaniare
ulteriormente
i
già
fragili
equilibri
socio-economici
meridionali.
Divenne
così,
una
facile
propaganda
l’operazione
piemontese
di
tacciare
come
“brigantesca”,
qualsiasi
istanza
tesa
a
ripristinare
il
regime
conservatore
legittimista.
E la
Puglia,
al
pari
di
quanto
avvenne
in
Lucania,
Campania,
Calabria
e
Molise,
fu
insanguinata
da
una
lotta
civile,
tra
invasori
piemontesi
e
nostalgici
borbonici,
coi
primi
che
imponevano
la
dura
legge
della
coscrizione
coatta,
del
prelievo
fiscale
incontrollato
e
della
rivoluzione
sociale,
che
provocò
un
terremoto
in
un
meridione
narcotizzato
da
decenni
di
dominio
napoletano.
Questo
scontro
tra
visioni
di
vita
tanto
opposte,
che
trova
un
precedente
similare
nei
moti
repressi
nel
1799,
all’indomani
della
proclamazione
della
Repubblica
Napoletana,
subito
ridimensionata
dalle
forze
sanfediste,
vide
in
particolare
in
Puglia
e
Lucania
il
fiorire
di
formazioni
paramilitari
partigiane,
che
fecero
della
guerriglia
e
delle
imboscate
il
punto
di
forza
dei
cosiddetti
“briganti”.
Ma
parlare
di
generici
briganti
non
fornisce
forse
giustizia
alla
verve
di
alcune
personalità
di
questo
mondo
oscuro
ed
ambiguo,
destinate
a
restare
nella
memoria
collettiva
paesana,
per
il
calibro
delle
proprie
gesta.
È
accaduto
con
Carmine
Crocco
nel
Vulture
potentino,
come
anche
con
Ninco
Nanco,
Pizzichicchio
ed
il
Crapariello
nelle
province
di
Taranto
e
Matera,
oppure
con
il
Sergente
Romano
nelle
murge
baresi
e
brindisine.
Quest’ultimo,
nativo
di
Gioia
del
Colle,
è
forse
una
delle
figure
più
carismatiche,
emerse
nel
lungo
conflitto
tra
insorti
filoborbonici
ed
esercito
piemontese.
Reduce
dall’esperienza
vissuta
in
prima
linea
tra
le
fila
dell’esercito
borbonico,
il
Romano
mise
a
disposizione
degli
insorti
tutta
la
sua
sagacia
tattica
e
l’acume
militare,
maturato
a
contatto
con
quei
territori
dell’agro
murgiano
che
lo
videro
crescere.
Seminò
scompiglio
in
tutto
il
sud
est
barese
e
nelle
municipalità
dell’entroterra
talentino,
insieme
ad
un
gruppo
di
fedelissimi,
combattendo
strenuamente
fino
alla
morte
in
nome
del
suo
re.
Soldato,
dunque
prima
che
bandito:
eppure
la
repressione
piemontese
fu
feroce
e
siccome
in
ogni
guerra
sono
i
numeri
a
prevalere
spesso
sul
valore
dei
singoli,
al
Sergente
Romano
non
fu
concessa
alcuna
pietà.
Il
corpo
seviziato
fu
esposto
al
pubblico
ludibrio
e
gli
ideali
per
i
quali
condusse
la
sua
personale
guerra
colarono
a
picco
assieme
a
quell’agognata
restaurazione
del
potere
legittimista.
La
storia
scritta
dai
vincitori
parlò
solo
di
banditi,
feroci
briganti
e
criminali
senza
scrupolo,
che
compirono
ogni
scelleratezza
immaginabile,
per
soddisfare
i
propri
appetiti
e le
proprie
bramosie.
Le
voci
del
popolo
tramandateci
dai
nostri
nonni
parlano
invece
di
una
naturale
reazione
delle
masse
contadine
alle
nuove
regole
imposte
dall’invasore
piemontese,
che
per
primo
fece
ricorso
a
sistemi
violenti
e
repressivi
per
garantire
un
ordine
pubblico
a sé
congeniale.
Se
la
verità
è
nel
mezzo,
dobbiamo
dunque
dubitare
di
alcuni
contenuti
riportati
nelle
pagine
dei
nostri
libri
di
storia,
perché
non
si
può
sacrificare
in
nome
dell’ovattata
e
gloriosa
Unità
d’Italia,
il
pesante
prezzo
di
vite
umane,
costumi
ed
ideali
che
dilaniarono
il
Regno
delle
Due
Sicilie.
Vae
victis,
guai
ai
vinti...
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