N. 102 - Giugno 2016
(CXXXIII)
A
PROPOSITO
DI
BREXIT
analisi
di
una
scelta
di
Massimo
Manzo
Lo
storico
referendum
con
cui
il
23
giugno
2016
il
Regno
Unito
ha
deciso
di
abbandonare
l’Unione
Europea
ha
nei
giorni
scorsi
dominato
le
fonti
di
informazione
di
tutto
il
mondo.
Dalle
TV
ai
giornali,
da
internet
ai
social
network,
l’orgia
di
notizie,
spesso
superficiali
e
dirette
“alla
pancia”
più
che
al
cervello
del
pubblico,
ha
reso
praticamente
impossibile
un’analisi
razionale
sul
voto
e
sulle
sue
conseguenze
economiche,
politiche
e
storiche
a
medio
e
lungo
termine.
Cercheremo
dunque
di
chiarire
alcuni
punti
fermi
fornendo
una
sorta
di
“guida”,
utile
a
interpretare
gli
avvenimenti
futuri
da
una
prospettiva
diversa
da
quella
di
solito
proposta,
nella
ovvia
consapevolezza
di
navigare
in
un
terreno
incerto,
il
cui
epilogo
dipenderà
in
larga
parte
dai
comportamenti
degli
attori
in
gioco:
dalle
forze
politiche
britanniche
alle
istituzioni
europee.
Giovani
vs
anziani?
Partiamo
dalla
scomposizione
del
dato
elettorale,
uno
dei
primi
temi
presi
in
considerazione
all’indomani
del
voto.
La
narrazione
dei
mezzi
di
informazione
mainstream,
fondata
in
larga
parte
su
un
sondaggio
d’opinione
commissionato
da
Yougov
(lo
stesso
che
dava
la
vittoria
del
fronte
europeista
dopo
la
chiusura
delle
urne)
si è
incentrata
sullo
“scontro
generazionale”,
dipingendo
un
quadro
in
cui
i
giovani
si
sarebbero
schierati
in
massa
per
il “Remain”,
mentre
i
più
anziani
per
il “Leave”,
sic
et
sempliciter.
Ma
se è
vero
che
il
dato
generale
conferma
tale
tendenza,
scomponendo
le
percentuali
per
fasce
d’età
affiora
un
altro
dato,
spesso
trascurato,
eppure
dirompente:
l’astensionismo.
Da
ulteriore
rilevazione
effettuata
due
giorni
dopo
il
voto
da
Sky
News,
emerge
infatti
che
solo
il
36%
dei
giovani
tra
i 18
e i
24
anni
ha
votato,
con
una
percentuale
crescente
man
mano
che
si
va
avanti
con
l’età.
Nel
dettaglio,
tra
i 25
e i
34
anni
ha
preso
parte
al
referendum
il
58%,
tra
i 35
e i
44
il
72%,
tra
i 45
e i
54
il
75%,
tra
i 55
e i
64
l’81%
e
infine
tra
gli
ultrasessantacinquenni
ben
l’83%.
Insomma,
da
questa
angolatura
il
giudizio
è
ben
più
complesso,
e
poterebbe
a
una
riflessione
sul
perché
vi
sia
una
sostanziale
“apatia”
delle
generazioni
più
giovani,
e
sui
motivi
(economici,
sociali?)
di
un
così
forte
disinteresse
dei
millennials.
I
termini
della
discussione
si
rovescerebbero:
più
che
una
lotta
tra
anziani
“prevaricatori”
e
giovani
“idealisti”,
si
tratterebbe
di
un
confronto
tra
“vecchi
che
votano”
e
“giovani
che
si
astengono”.
L’altro
aspetto
riscontrabile,
in
linea
generale,
è la
differenza
di
reddito
tra
i
brexiters
e i
remainers.
Una
sorta
di
“lotta
di
classe”
in
cui
la
working
class
avrebbe
optato
per
il “Leave”,
mentre
i
“ricchi”
avrebbero
preferito
il “Remain”.
Anche
in
questo
caso,
la
valutazione
non
dovrebbe
essere
improntata
a
un’irrazionale
“elitismo”
moralistico,
ma
vertere
piuttosto
sulla
profonda
crisi
dei
rappresentanza
dei
partiti
di
sinistra,
scalzati
da
nuove
formazioni
di
destra
in
grado
di
intercettare
il
malcontento
popolare.
Apocalisse
economica?
Facciamo
ora
un
salto
sul
fronte
dell’economia,
la
parte
maggiormente
trattata
in
queste
ore
dai
media,
e
paradossalmente
la
meno
prevedibile
nel
quadro
complessivo
della
Brexit.
L’attenzione
si è
focalizzata
sulle
ripercussioni
finanziarie
del
voto,
paventando,
spesso
con
toni
apocalittici,
un
collasso
dei
mercati
e
una
recessione
con
conseguente
“contagio”
mondiale.
Un
sintomo
sarebbe
il
“crollo”
della
sterlina,
le
cui
quotazioni
sono
inevitabilmente
scese.
Depurati
dalla
pesante
dose
di
sensazionalismo,
i
dati
sembrano
essere
alquanto
diversi,
rientrando
nell’ambito
di
dinamiche
ampiamente
previste
dagli
esperti.
A
dare
un
primo
giudizio
al
riguardo
ci
ha
pensato
il
premio
Nobel
per
l’economia
Paul
Krugman
(da
anni
uno
degli
economisti
più
lucidi
nell’analizzare
la
crisi
dell’eurozona),
il
quale
ha
esaminato
le
oscillazioni
subite
dal
pound
nelle
ore
successive
al
voto
mettendole
però
in
relazione
al
dato
storico,
concludendo
che
la
svalutazione
è
“lontana
dai
livelli
visti
durante
la
recessione
nei
primi
anni
1970,
quando
la
moneta
è
scesa
di
un
terzo”
e
osservando
inoltre
che
“la
Gran
Bretagna
prende
in
prestito
la
propria
moneta
e
ciò
le
permette
di
evitare
una
crisi
di
bilancio
classico
a
causa
proprio
della
svalutazione
della
moneta”.
Il
nervosismo
delle
borse
sarebbe
“fisiologico”
e
non
avrebbe
nulla
a
che
vedere
con
un
nuovo
“martedì
nero”.
Tant’è
vero
che
a
pochi
giorni
dal
fatidico
referendum
si
sono
registrati
nel
mercato
i
segni
di
un
primo
rialzo.
Pur
prevedendo
nel
lungo
termine
una
contrazione
del
Pil
britannico
e un
calo
della
produttività,
l’economista
americano
sembra
essere
più
preoccupato
delle
ripercussioni
politiche
nel
resto
dei
paesi
dell’UE,
soprattutto
in
quelli
dell’eurozona,
ormai
da
tempo
caduti
in
una
spirale
recessiva
da
lui
definitiva
“stagnazione
secolare”,
la
quale
sarebbe
comunque
continuata
anche
nel
caso
di
vittoria
del
“Remain”
nel
Regno
Unito.
La
mancanza
di
riforme
economiche
e
politiche
radicali
all’interno
delle
istituzioni
europee
potrebbero
segnare
il
declino
del
progetto
di
integrazione
e il
rafforzamento
dei
movimenti
di
estrema
destra
nel
continente.
La
Brexit,
in
questo
senso,
sarebbe
solo
il
sintomo
di
una
disgregazione
già
in
atto.
.
Rapporto
sterlina
euro
negli
ultimi
5
anni
(fonte:
Bloomberg)
I
nodi
politici
Le
conseguenze
economiche
del
referendum
britannico
saranno
direttamente
collegate
alle
decisioni
politiche
prese
durante
le
trattative
che
porteranno
alla
definitiva
separazione
della
Gran
Bretagna
dall’Unione.
Il
processo
durerà
almeno
due
anni,
e
partirà
non
appena
il
Regno
Unito
notificherà
formalmente
l’uscita
dichiarando
di
avvalersi
dell’art.50
del
Trattato
di
Lisbona,
il
quale
prevede
la
possibilità
per
i
singoli
stati
di
staccarsi
dall’UE.
Nelle
ultime
ore,
data
l’instabilità
successiva
al
voto
(con
un
premier
dimissionario
e un
partito
conservatore
diviso
su
chi
possa
succedergli)
le
autorità
inglesi
sembrano
prendere
tempo,
preferendo
iniziare
le
negoziazioni
non
appena
le
acque
si
saranno
calmate.
Il
grande
sconfitto
è il
primo
ministro
David
Cameron,
che
ha
voluto
il
referendum
per
motivi
di
consenso
elettorale
(salvo
poi
pentirsene),
ma
sul
fronte
delle
opposizioni
le
cose
non
vanno
meglio.
Il
capo
dei
laburisti
Jeremy
Corbyn,
che
si è
trovato
a
portare
avanti
la
causa
del
Remain
pur
avendo
in
passato
sostenuto
posizioni
euroscettiche,
ha
infatti
perso
una
fetta
consistente
dell’elettorato
della
working
class,
schieratasi
dalla
parte
del
Leave,
e
fronteggia
oggi
una
furibonda
opposizione
interna
al
partito.
Non
bastasse,
il
primo
ministro
scozzese
Nicola
Sturgeon,
approfittando
del
fatto
che
la
Scozia
si
sia
espressa
a
favore
dell’Unione,
ha
preso
la
palla
al
balzo
spingendo
per
un
ulteriore
referendum
di
separazione
dall’UK,
identico
a
quello
già
svoltosi
nel
2014.
Oltremanica
si
ripropongono
antiche
frizioni,
in
grado
di
compromettere
la
stabilità
politica
e
territoriale
del
regno.
Sul
lato
opposto
della
barricata,
le
istituzioni
europee
si
trovano
davanti
due
alternative:
assecondare
un’uscita
“soft”,
concedendo
alla
Gran
Bretagna
uno
status
giuridico
simile
a
quello
di
paesi
come
la
Norvegia,
o
adottare
invece
un
atteggiamento
“punitivo”,
arrecando
il
maggior
danno
possibile
al
Regno
Unito
per
evitare
che
altri
stati
possano
seguirne
l’esempio.
Nel
primo
caso,
i
britannici
accederebbero,
come
appunto
la
Norvegia,
a
uno
Spazio
Economico
Comune,
usufruendo
di
norme
agevolate
in
merito
alla
circolazione
di
beni,
persone,
servizi
e
capitali
ma
non
facendo
più
parte
degli
organismi
politici
e
burocratici
dell’Unione.
In
altri
termini
starebbero
in
Europa
ma
fuori
dagli
ingranaggi
dell’Unione
Europea.
Un
compromesso
accettabile
per
tutti
e
non
eccessivamente
traumatico.
Nel
secondo
caso,
invece,
l’eventuale
ostruzionismo
di
Bruxelles
potrebbe
avere
conseguenze
economiche
controproducenti,
essendo
l’UK
importatore
netto
di
beni
dall’Unione
per
oltre
100
miliardi
all’anno.
Tradotto:
stati
come
la
Germania
subirebbero
un
grave
crollo
delle
esportazioni,
potenzialmente
dannoso
per
la
loro
economia.
È
per
questo
che
se
da
un
lato
le
dichiarazioni
del
presidente
della
Commissione
Jean
Claude
Junker
suonano
minacciose,
dall’altro
lato
l’arcigno
ministro
dell’economia
Wolfgang
Schäuble
sembra
propendere
per
una
“soluzione
norvegese”,
spingendo
per
un
futuro
partenariato
associato
tra
il
continente
e il
Regno
Unito.
E
mentre
Junker
vuole
accelerare
il
processo
di
uscita,
i
tedeschi
non
hanno
fretta,
tendendo
una
mano
al
di
là
della
Manica.
In
ogni
caso,
entrambe
le
ipotesi
sarebbero
perdenti
per
le
istituzioni
europee:
la
prima
potrebbe
favorire
il
cosiddetto
“effetto
domino”,
la
seconda
sarebbe
economicamente
svantaggiosa.
La
“terza
via”
invece,
in
questo
momento
sembra
più
frutto
della
fantasia
che
riscontrabile
nella
cronaca:
una
uscita
“soft”,
accompagnata
da
una
serie
di
riforme
strutturali
degli
organismi
dell’Unione
in
senso
democratico.
Qualche
esempio?
La
ridefinizione
del
ruolo
della
Banca
Centrale
Europea
e il
rafforzamento
del
Parlamento
(l’unico
al
mondo
a
non
poter
proporre
legislazione),
solo
per
citare
i
più
banali.
Sfruttando
lo
shock
della
Brexit
si
potrebbe
così
rilanciare
il
progetto
di
cooperazione
europea.
A
sentire
le
dichiarazioni
dei
principali
leader,
oltre
alla
consueta
retorica
della
“seria
riflessione
sull’Europa”,
non
c’è
però
nulla
che
faccia
presagire
una
tale
“rivoluzione”.
Almeno
per
ora.
Al
contrario,
la
maggiore
integrazione
sembra
essere
attuata
nel
segno
dell’austerity,
senza
mettere
in
discussione
la
democraticità
dei
centri
decisionali
dell’Unione.
Scelta
antistorica?
L'ultimo
tema
su
cui
vale
la
pena
soffermarsi
è la
portata
storica
della
Brexit.
Alcuni
hanno
infatti
definito
la
decisione
britannica
"un
passo
indietro",
ovvero
una
scelta
antistorica
rispetto
ai
rapporti
tra
l'isola
e il
continente
europeo.
È
davvero
così?
Per
rispondere
occorre
osservare
a
come
nel
tempo
la
Gran
Bretagna
si è
relazionata
politicamente
con
l’Europa.
Nel
corso
dei
secoli,
pur
mantenendo
fortissimi
legami
culturali,
l'Inghilterra
prima
e il
Regno
Unito
poi
hanno
sempre
portato
avanti
la
cosiddetta
"politica
dell'equilibrio"
consistente
nell'intervenire
nei
conflitti
europei
al
fine
di
evitare
che
una
delle
potenze
continentali
potesse
imporre
il
proprio
dominio
in
modo
incontrastato
sulle
altre.
Venendo
a
tempi
più
recenti,
la
tradizionale
propensione
all’autonomia
decisionale
dei
britannici
si è
manifestata
attraverso
una
sorta
di
“statuto
speciale”
dell’isola
rispetto
agli
altri
maggiori
partners
dell’Unione,
come
Francia,
Germania
e
Italia.
La
diffidenza
era
reciproca.
Non
è un
caso
che
la
richiesta
di
aderire
alla
nascente
Comunità
Europea
fosse
stata
per
anni
rigettata
dalla
Francia
di
De
Gaulle,
il
quale
vedeva
la
presenza
britannica
come
una
minaccia
al
suo
sogno
di
un’Europa
guidata
dall’asse
franco-tedesco.
L’adesione
avvenne
dopo
la
morte
del
presidente
francese,
a
seguito
di
un
referendum
popolare
nel
1975
(ironie
della
Storia).
All’epoca,
però,
il
contesto
era
molto
diverso
da
quello
odierno:
la
divisione
della
Germania
garantiva
un
certo
bilanciamento
tra
le
potenze
europee,
l’integrazione
era
ancora
lontana
(non
esisteva
il
tanto
contestato
euro)
e
l’allargamento
a
est
era
impensabile
nel
clima
della
guerra
fredda.
Di
fronte
a
eventi
come
la
centralizzazione
dei
poteri
decisionali
a
Bruxelles
e
Francoforte
(sede
della
BCE)
con
conseguente
erosione
delle
sovranità
nazionali,
la
crisi
dell’eurozona
e un
allargamento
sempre
più
veloce
nell’Europa
orientale,
il
Regno
Unito
sembra
dunque
avere
rigettato
l’idea
di
un
superstato
europeo.
Ciò
non
vuol
dire
che
il
voto
del
Leave
non
sia
stato
condizionato
da
fattori
emotivi
(come
la
paura
dell’immigrazione),
nel
corso
di
una
campagna
elettorale
in
cui
entrambe
le
parti
hanno
fatto
leva
sulle
paure
dell’elettorato.
Ma,
a
prescindere
dalle
sue
future
evoluzioni,
agli
occhi
dello
storico
la
Brexit
non
è
poi
così
scioccante,
guardando
a
secoli
di
complicate
relazioni
tra
le
due
sponde
della
Manica.
Lo
stesso
Churcill
affermava:
“ogni
volta
che
l’Inghilterra
dovrà
scegliere
tra
Europa
e
mare
aperto,
sceglierà
sempre
il
mare
aperto”.