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N. 25 - Gennaio 2010 (LVI)

BREVE TEORIA GENERALE DEL FASCISMO

Le esperienze di Italia e Germania
di Cristiano Zepponi

 

Lo studio del fascismo è stato considerevolmente tralasciato nel secondo dopoguerra a favore dell’altro movimento rivoluzionario novecentesco, il marxismo. I pochi studi effettuati hanno reso inoltre evidente l’impossibilità di affrontare un discorso scevro da opinioni soggettive, spesso utilizzato anzi per “combattere le battaglie politiche del momento” (G.L.Mosse).Basti pensare al clamore suscitato nell’Italia  della contestazione studentesca dalla monumentale biografia di Mussolini edita da Renzo De Felice (1929-1996), seguita nel ’75 da un altro testo fondamentale, “Intervista sul fascismo”; questo, in particolare, scatenò un putiferio, sintomatico dell’impossibilità di stimolare un obiettivo dibattito, ancora a trent’anni di distanza, sul fenomeno.

 

La mancanza di un programma di partito definito rende più difficile, nel caso del fascismo, sviluppare una teoria generale, la quale, quindi, non può (e non deve) essere altro che “un’ipotesi che concordi con la maggior parte dei fatti” . L’opera considerata di riferimento è “la nazionalizzazione delle masse” di Mosse, prima di questo tipo, che deve però essere integrata da studi specifici su alcuni singoli argomenti (ad es. “il culto del littorio” di Gentile).

 

Il fascismo, innanzitutto, fu, a tutti gli effetti, una rivoluzione, in quanto sostituì la classe dirigente con una nuova, che si impadronì del potere servendosi dei sistemi di comunicazione e controllo del XX secolo. Nonostante si notino alcune innegabili affinità con quella giacobina, essa si ritenne una terza forza tra capitalismo e marxismo, concetto estrapolato da alcuni ambienti socialisti francesi, tedeschi e boemi nell’’800. Si fece strada cosi’ il concetto di rivoluzione alternativa al marxismo, un ripiegare nella comunità nazionale, senza peraltro che si sviluppasse una precisa politica economica che caratterizzasse il movimento. Il concetto di terza forza acquisì particolare valore in Germania, dove era denso di un significato mistico e millenario, ed era convinzione generale che avrebbe permesso all’uomo di risolvere le contraddizioni insite nella vita moderna. In Italia, invece, particolare rilevanza ebbe l’idealismo tedesco di Hegel, mediato da Gentile.

 

Le rivoluzioni fasciste si fondarono su una solida base di religiosità popolare, di cui si sentiva il bisogno nel nostro paese fin dai tempi dell’unificazione (è il caso di Mazzini). I miti e i simboli del movimento andarono sovrapponendosi a quelli della “patria”, anch’essi rileggittimati e sviluppati. In questo modo adunate, feste, cerimonie, sagre e mostre assursero ad un ruolo di intermediazione tra popolo e capi, in sostituzione delle assemblee rappresentative, col frequente ricorso al sentimento irrazionale dell’uditorio (miti,leggende,fiabe,simbolismo,ritualità). Progressivamente, religione civile e religione fascista si sovrapposero (si pensi al ricordo dei martiri del partito), finendo poi per rivaleggiare direttamente con la Chiesa.

 

In genere, il fascismo fu un movimento giovanile; già alla fine del secolo precedente, e, ancor più massicciamente, all’inizio della grande guerra, si assistette alla ribellione dei giovani, spesso d’ambiente borghese e preparati dai movimenti nazionalisti alla rivolta. Il fascismo offri’ loro l’occasione di prolungare l’esperienza bellica in un raggruppamento nuovo, non ancora burocratizzato né compromesso dalle beghe politiche di quegli anni, i cui stessi capi erano relativamente giovani.

 

La guerra, altro motivo centrale, ascese proprio a simbolo della gioventù, e del suo sacrificio. Mentre le sinistre, cosmopolite e pacifiste, esitavano ad approcciarvisi, l’esperienza bellica aiutò in vari modi i fascismi:rendendo insensibili i soldati (con l’ausilio delle nuove forme di comunicazione, come la fotografia,che banalizzavano e sublimavano la morte di massa) e sviluppando il mito del caduto, usato assai frequentemente, sia in Italia che in Germania, per spronare i vivi. Rese inoltre la brutalità fascista più accettabile e fornì un’esperienza di vita comunitaria in opposizione all’individualismo capitalista, finalizzata, nelle intenzioni, a porre fine alla lotta di classe. Tutto ciò stimolava un attivismo, sempre riferito ad un capo che lo avrebbe diretto negli opportuni canali.

 

Nonostante evitando programmi di partito si tentasse di porre l’accento sul movimento senza limiti precisi, questi, a ben guardare, ci furono: nazionalismo, razzismo, pregiudizi morali di origine borghese furono dei punti di riferimento costanti.

 

La rivoluzione fascista, comunque, esercitò un richiamo interclassista molto forte, aperto ad ogni ambiente e partito, ad ogni ceto e classe, anche se innegabilmente aveva nella media borghesia la sua spina dorsale. Fu, sempre, un organismo saprofago, che cercò di appropriarsi in ogni modo di tutto ciò che pareva utile alla causa: fagocitò allora elementi di romanticismo, liberalismo e socialismo (Mussolini rimaneva un ex-socialista, ammiratore di Nietzsche; e le assemblee proletarie furono largamente copiate), darwinismo e tecnologia, fino ad appropriarsi di elementi cattolici. Questa azione di recupero aveva il suo collante nel mito patriottico, che fondeva il tutto in un coerente atteggiamento verso la vita:  quello che, in effetti, fu il fascismo.

 

Questo non avrebbe mai disconosciuto ciò a cui il popolo si era abituato, ma l’ avrebbe perseguito solo alle proprie condizioni: ne è un esempio l’individualismo, possibile solo quando ci si unisce sulla base di origini, comportamenti e scopi comuni (credere, obbedire, combattere), realizzazione di sé dietro la protezione della comunità.

 

Infine, si trattava, nella pratica, di un movimento maschile, che cosi’ si rappresentava e che perseguiva in tempo di pace il cameratismo del tempo di guerra, fornendo anche un preciso ideale virile di forza, giovinezza e bellezza, esattamente opposto alla rappresentazione fascista di socialisti e liberali, dipinti come vecchi e stanchi: ad una lotta di classe fu quindi sostituita una lotta tra generazioni. La natura della nuova razza era intimamente collegata alle sue fattezze esteriori; ma se per Mussolini il passato era un punto di partenza per il futuro, e “l’ homo novus” era inserito contemporaneamente nella tradizione italiana (mito della romanità) ed in un’esistenza superiore, libera da spazio e tempo, il tedesco nuovo impersonava esclusivamente i valori eterni della razza. Una differenza spiegabile forse con gli autori di riferimento dei dittatori: i grandi pensatori europei per il duce (Le Bon, Sorel, Pareto), oscuri settari (Von List, Schuler, Langbehn) per Hitler.

 

“Il razzismo costituisce la differenza principale tra Italia e Germania” (G.L.Mosse), assimilato nel nostro paese solo per dare nuovo vigore ad un fascismo in rapido invecchiamento mentre era sempre stato presente nell’area germanica e orientale, dove gli ebrei emigrarono in massa negli anni 1880/’90 (senza peraltro inserirsi compiutamente). Fu facile quindi contare sulle tradizioni razziste dell’area per dare al nemico di una certa visione del mondo l’impersonificazione, diretta e facilmente accessibile, della figura dell’ebreo.

 

Mussolini, al contrario, si sforzava di presentare come nemico della comunità avversari vaghi come liberalismo e marxismo.

 

Si è detto più volte che il fascismo mancava di idee politiche originali, e che era stata necessaria la fusione col nazionalismo per fornirgliene alcune. Ciò è, almeno in parte, sicuramente vero, ma non costituì un grosso svantaggio, in un’epoca di politica di massa.

 

L’elemento fondamentale del terrore, pur se non sminuito, deve essere sempre ricondotto e accompagnato da ciò che distingue i fascismi dalle dittature, il consenso, che fu innegabilmente molto esteso, in tutte le classi ( a parte quelle più colpite dalla violenza squadrista), anche se si dibatte, ancora oggi, sulla reale natura di tale approvazione: se fosse cioè intimamente radicata nelle popolazioni, e se si orientasse verso il partito o piuttosto verso gli uomini che guidarono questo movimento politico/culturale. De Felice sostenne che l’apice di questo consenso venne toccato in Italia negli anni ‘24/’34 (o ’36); le moderne scuole di lettura distinguono invece il “culto del duce” dalla fede nel partito, affermando che il primo avesse largamente la preminenza sulla seconda, di cui erano al contrario sovente denunciati abusi e manchevolezze.

 

Mentre in Germania resterà elevato anche di fronte alla sconfitta, specie se riferito alla figura di Hitler, in Italia il consenso assunse alcune prerogative particolari: “se si vedeva un Mussolini senza fascismo, non si riusciva neanche a immaginare un fascismo senza Mussolini” (Gentile).

 

Fu proprio questa fiducia nelle virtù taumaturgiche dell’uomo, ingenuamente diffusa, a far precipitare il consenso quando le sconfitte militari dimostreranno la fallibilità del Duce. Quella che ai contemporanei sembrava esclusivamente forza, si dimostrerà fonte di profonda debolezza.

 



 

 

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