SUL
LEGGERE E SCRIVERE COME FATTO
ESTETICO
LE CONVERSAZIONI RADIOFONICHE DI
BORGES
di Gaetano Cellura
«In casa, lei non troverà un solo
libro mio o un libro scritto su di
me». Così esordisce Jorge Luis
Borges. Felice di aver diffuso
l’amore per Stevenson, per Shaw, per
Chesterton, per Mark Twain, per
Emerson: «Questo è forse
l’essenziale di quella che è stata
chiamata la mia opera». Un’opera di
cui non parla e che gli riesce
facile dimenticare. E aggiunge
subito di non essere interessato né
al giudizio della critica né al
numero di copie vendute dei suoi
libri.
Jorge Luis Borges (1899-1986) ha da
poco compiuto 85 anni, e quasi se ne
vergogna, quando conversa alla
radio, di queste e di tante altre
cose, con il suo connazionale
Osvaldo Ferrrari. Dal 1955 il poeta
argentino è cieco, non può più
vedere il mondo dei sette colori. Ma
non ha perso la gioia, e dice di non
aver mai vissuto come una disgrazia
la sua cecità: perché gli rende
facile la solitudine, condizione
ideale per pensare, inventare
favole, “costruire” poesie.
Le conversazioni radiofoniche
diventano poi un libro intervista,
intitolato appunto Conversazioni.
Borges parla dei temi a lui più
cari: i sogni, la memoria, il
labirinto, il linguaggio (molto
povero se lo si confronta con la
complessità delle cose); e del tema
degli specchi, nei quali si sdoppia
il nostro io.
Parla naturalmente di letteratura,
di libri e del leggere e dello
scrivere, fatti “spontanei” tutt’e
due, ma di diversa felicità. Non
solo la scrittura: anche la lettura
è atto creativo. Un libro, riposto
in uno scaffale, è una cosa morta
finché nessuno lo apre, finché
nessuno lo legge. Ed è durante la
lettura del libro preso dallo
scaffale che si verifica il nuovo
fatto estetico, una vita nuova nasce
o rinasce: «Quello che è morto
risuscita, e risuscita sotto una
forma che non è necessariamente
quella presa quando il tema s’è
presentato all’autore».
Tutto quanto ci accade – di bello o
di brutto – ha per Borges un valore
estetico. Il mondo stesso esiste per
approdare a un libro: come aveva
detto (prosaicamente) Mallarmé; e
prima di lui (poeticamente) Omero,
per il quale gli dèi ordivano guerre
e sventure e le mandavano sulla
terra affinché gli uomini potessero
cantarle. La stessa storia
universale è un libro, un unico
libro che, come pensava Carlyle,
siamo incessantemente obbligati a
leggere e a scrivere.
Idea terribile: noi stessi siamo in
quel libro, lettere di un libro che
scriviamo e leggiamo. Perché, per
quanto modesti, siamo “parte di
quella vasta criptografia che si
chiama storia universale”. Lo
scrittore implica il lettore, e
viceversa. E l’uno e l’altro,
soprattutto se limitiamo il discorso
alla Sacra Scrittura, sono opera di
Dio.
Parla anche degli argentini, Borges:
“Europei in esilio”. E di sé: del
suo disinteresse per la politica e
di una vita passata a leggere e
rileggere Schopenhauer. Parla della
sua capacità di pensare non per
mezzo di ragionamenti, ma di miti,
sogni, invenzioni. E poi di Platone
e di Aristotele, di Kipling e di
Yeats. Del Castello e del Processo
di Kafka dice che fanno parte della
memoria dell’umanità.
Parla di Macedonio Fernàndez, cui
non interessava pubblicare i propri
scritti, avere dei lettori: scriveva
per aiutarsi a pensare. Anche Emily
Dickinson e John Donne, “uno dei
massimi poeti d’Inghilterra”, erano
dello stesso avviso, di Donne
circolavano versi e sermoni
manoscritti, e poche pubblicazioni.
Oggi invece si pensa che tutto
quanto resta inedito sia irreale.
Non mancano nei dialoghi radiofonici
con Ferrari il nostro paese e la
nostra letteratura. Non manca
l’ammirazione di Borges per Virgilio
e per Dante; per Roma, vista come
prolungamento della Grecia; e per il
Mezzogiorno d’Italia, che vuol dire
Vico, “la sua teoria dei cicli della
storia”; vuol dire Croce, la “sua
stupenda Estetica”; vuol dire
Marino, “il più gran poeta barocco,
che fu maestro di Gòngora”. Il suo
amato Gòngora. Il poeta che fece del
sogno una rappresentazione
drammatica e di noi tutti, quando
dormiamo e sogniamo, dei
drammaturghi: «Il sogno, grande
autore di commedie,/nel suo teatro
sul vento levato/ombre suole vestir
di bell’aspetto».
Definisce poi l’Eneide squisita
epopea. E si chiede infine cosa si
può ancora scrivere dopo la Divina
Commedia, un libro che contiene
tutto. Meravigliandosi degli
italiani che hanno avuto il coraggio
di scrivere dopo Dante. E così, con
il suono di queste parole, ci si
avvia alla fine del libro.
Felici, come Borges all’inizio della
conversazione, spegniamo la radio
immaginaria che non abbiamo
ascoltato. Con l’assoluta certezza
che i ricordi di quest’uomo che fu
poeta, narratore, critico, esteta,
fine letterato riguardano più la
letteratura che la vita. Sono più i
ricordi di ciò che ha letto che di
ciò che ha vissuto. Sono il libro
grande di cui noi siamo le lettere,
una sfilza di segni sulle pagine
bianche. La storia universale cui
apparteniamo.