N. 141 - Settembre 2019
(CLXXII)
il brasile e bolsonaro
due
"b"
incompatibili
di
Gian
Marco
Boellisi
Tra
tutti
i
governi
globali
facenti
parte
della
nuova
ondata
politica
“protezionista”,
l’esecutivo
di
Jair
Bolsonaro
merita
un
capitolo
a
parte.
Uomo
spregiudicato
e
dai
dubbi
principi
morali,
Bolsonaro,
al
pari
di
altri
capi
di
Stato
aventi
residenza
qualche
migliaio
di
kilometri
a
nord
di Brasilia,
ha
dimostrato
da
un
anno
a
questa
parte
quanto
sia
in
grado
di
ribaltare
la
proiezione
geopolitica
di
un’intera
nazione
e di
mettere
in
dubbio
quello
che
dovrebbe
essere
uno
dei
principi
cardine
di
questo
meraviglioso
paese:
la
tutela
ambientale
dell’immensa
Foresta
Amazzonica.
Tuttavia,
come
vedremo
di
seguito,
il
pensiero
politico
del
presidente
è
molto
più
revisionista
e
più
estremo
di
quanto
si
possa
pensare.
Ma
andiamo
con
ordine.
Uomo
di
estrazione
militare,
Bolsonaro
non
ha
mai
nascosto
la
sua
idea
di
Brasile.
Profondamente
religioso
e
nostalgico
della
dittatura
militare
brasiliana,
sotto
la
quale
tra
l’altro
ha
avuto
la
formazione
da
artigliere,
il
presidente
ha
incentrato
la
sua
campagna
presidenziale
del
2018
su
una
serie
di
argomenti
appartenenti
all’oratoria
dell’ultra
destra.
Dal
disprezzo
verso
gli
omosessuali
al
suo
essere
favorevole
per
il
porto
d’armi
tra
la
popolazione,
dalla
volontà
di
tagliare
l’Amazzonia
per
farne
“il
motore
economico
del
Brasile”
all’esplicito
razzismo
verso
minoranze
religiose
ed
etniche,
Bolsonaro
è
stato
chiamato
in
svariate
occasioni
con
l’appellativo
di
“Trump
Brasiliano”
e
paragonato
al
presidente
filippino
Rodrigo
Duterte.
Sia
Bolsonaro
che
Duterte
non
solo
hanno
preso
e
riutilizzato
in
chiave
nazionale
la
retorica
del
loro
omologo
statunitense
Donald
Trump,
ma
hanno
anche
estremizzato
molti
aspetti
che
lo
stesso
Trump
in
un
paese
come
gli
Stati
Uniti
non
si
potrebbe
permettere
di
fare.
Nonostante
questo
problema
sia
stato
percepito
come
lontano
per
molto
tempo
da
noi
tutti,
negli
ultimi
mesi
il
mondo
ha
potuto
toccare
con
mano
veramente
cosa
vuol
dire
avere
un
uomo
come
Bolsonaro
al
potere
in
Brasile.
Non
a
caso
definita
il
polmone
verde
del
pianeta,
la
Foresta
Amazzonica
risulta
essere
un
oceano
di
biodiversità,
non
solo
per
quanto
riguarda
la
flora
ma
anche
per
un’infinità
di
specie
animali
che
vi
dimorano
da
tempo
immemore.
Fattore
di
cui
i
più
non
tengono
conto,
l’Amazzonia
risulta
essere
uno
dei
pochi
regolatori
climatici
del
nostro
pianeta,
al
pari
della
Corrente
del
Golfo
o di
El
Nino.
L’area
verde
si
estende
per
circa
5,5
milioni
di
kilometri
quadrati
e
trattiene
(o
tratteneva)
circa
il
10%
della
CO2
globale.
Grazie
alle
politiche
distruttive
del
presidente,
questo
immenso
tesoro
è
stato
ferito
ripetutamente
negli
ultimi
mesi,
fino
ad
arrivare
alle
terrificanti
immagini
che
tutti
abbiamo
potuto
vedere
nel
telegiornale
della
sera
e
che
difficilmente
si
cancelleranno
dalla
nostra
memoria.
Secondo
alcune
statistiche,
i
roghi
dolosi
nell’ultimo
anno
sono
aumentati
del
15%
e
l’INPE,
l’ente
nazionale
brasiliano
per
la
ricerca
nello
spazio,
ha
affermato
che
gli
incendi
sono
cresciuti
dell’82%
rispetto
allo
stesso
periodo
dell’anno
scorso,
passando
da
40.000
a
73.000
in
appena
otto
mesi.
Visti
questi
numeri,
difficilmente
si
potrebbe
definire
quanto
sta
accadendo
diversamente
da
crimine
contro
l’umanità.
La
deforestazione
è
largamente
supportata
dai
grandi
fazendeiros,
ovvero
i
proprietari
terrieri
attivi
nell’industria
agroalimentare
brasiliana,
i
quali
sono
da
sempre
stati
finanziatori
e
supporter
del
presidente
Bolsonaro.
Insieme
a
loro
si
schierano
una
larga
parte
degli
industriali
brasiliani,
varie
compagnie
in
cerca
di
nuove
miniere
d’oro
e
parte
dell’amministrazione
pubblica:
tutte
categorie
che
vedono
nei
terreni
occupati
dalla
foresta
un’enorme
opportunità
per
allargare
i
propri
profitti
e
che
hanno
riscoperto
una
nuova
forza
da
quando
Bolsonaro
si è
insediato
a
Brasilia.
Molti
di
questi
strati
sociali
si
vedono
rappresentati
dal
ministro
dell’Agricoltura
Tereza
Cristina,
grande
sostenitrice
delle
spregiudicate
politiche
ambientali
del
presidente.
Non
è
ancora
stata
trovata
nessuna
prova,
ma
si è
sospettato
in
più
occasioni
che
tra
i
sostenitori
di
Bolsonaro
vi
siano
coloro
i
quali
hanno
appiccato
gli
incendi
nell’ultimo
anno
e
continuino
a
farlo
tuttora.
In
generale
il
presidente
sta
in
un
certo
modo
continuando
la
linea
politica
azzardata
dal
suo
predecessore,
Michel
Temer,
il
quale
nell’agosto
2017
aveva
tentato,
fortunatamente
senza
successo,
di
abolire
la
riserva
amazzonica
di
Renca,
istituita
nel
1984
al
confine
tra
gli
Stati
federali
di
Amapa
e
Para
per
un’area
totale
di
46.000
chilometri
quadrati.
Tuttavia
Bolsonaro
si
fa
carico
di
un’ulteriore
colpa
molto
grave.
Infatti
le
sue
politiche
distruttive
colpiscono
in
maniera
irreparabile
anche
gli
indios
e
tutte
le
popolazioni
che
usano
l’Amazzonia
come
casa
da
prima
che
Cabral
sbarcasse
sulle
coste
del
Brasile
nel
1500.
Al
danno
tuttavia
Bolsonaro
ha
anche
aggiunto
la
beffa.
È a
dir
poco
scandalosa
infatti
la
nomina
della
FUNAI,
l’agenzia
governativa
per
la
tutela
degli
indios,
di
uno
dei
più
grandi
imprenditori
e
proprietari
terrieri
brasiliani,
Marcelo
Xavier
da
Silva.
Questa
scelta
in
parte
è
stata
dovuta
anche
alle
dinamiche
interne
brasiliane.
Non
è un
segreto
infatti
che
i
consensi
di
Bolsonaro
siano
in
calo
e
che
egli
debba
necessariamente
coccolare
tutti
gli
esponenti
dell’agrobusiness
se
vuole
sperare
di
rimanere
a
galla.
Il
presidente
però
dimentica
spesso
e
volentieri
che
ciò
che
guadagna
in
casa
come
consensi
e
supporto,
lo
perde
all’estero
dal
punto
di
vista
di
credibilità
e
potere
di
manovra
politico.
La
perdita
della
Foresta
Amazzonica
tuttavia
non
riguarda
solamente
il
Brasile.
Infatti
anche
Perù,
Bolivia
e
Colombia
sono
state
interessate
sempre
più
dallo
stesso
fenomeno
negli
ultimi
mesi,
e
ciò
è in
controtendenza
rispetto
all’ultimo
decennio.
Infatti
negli
anni
precedenti
al
2018
i
paesi
sudamericani
prendevano
esempio
dal
Brasile
e
dalle
sue
politiche
ambientaliste,
il
quale
era
riuscito
ad
abbattere
il
rate
di
deforestazione
dell’80%
dal
2004
al
2012.
Il
fenomeno
si è
invertito
con
l’ascesa
politica
del
presidente,
il
quale
ritiene
che
la
deforestazione
non
sia
altro
che
un
mito
frutto
delle
ONG
e
del
loro
complotto
marxista.
Abbandonate
il
Brasile
queste
pratiche,
anche
gli
altri
stati
sudamericani
hanno
optato
per
una
minore
attenzione
verso
le
politiche
ambientali.
Questo
ci
mostra
quanto
il
Brasile
sia
un
vero
e
proprio
punto
di
riferimento
per
il
continente
intero.
Analizzando
la
questione
più
a
fondo,
si
può
notare
tuttavia
che
il
problema
della
deforestazione
non
dipende
solamente
dalle
dinamiche
interne
brasiliane.
Sembrerebbe
strano
ma
la
cosiddetta
“guerra
dei
dazi”
o
guerra
commerciali
tra
Stati
Uniti
e
Cina
ha
avuto
e
sta
avendo
tuttora
un
ruolo
non
indifferente.
Facendo
un
riassunto
delle
puntate
precedenti,
giusto
un
anno
fa
gli
Stati
Uniti
imponevano
dazi
d’ingresso
fino
al
25%
su
250
miliardi
di
beni
made
in
Cina,
la
quale
rispondeva
a
tono
imponendo
a
sua
volta
analoghe
tariffe
su
110
miliardi
di
prodotti
statunitensi,
tra
i
quali
i
semi
di
soia.
Nonostante
possano
apparire
come
tutto
fuorché
beni
strategici,
i
semi
di
soia
sono
la
chiave
per
comprendere
il
problema
brasiliano.
Il
70%
della
soia
coltivata
sulla
superficie
del
nostro
pianeta
si
trova
nel
continente
Americano
ed
essa
è
utilizzata
per
creare
mangimi
destinati
agli
allevamenti
di
bovini,
ovini
e
suini.
La
Cina,
proprio
per
l’enorme
domanda
interna
di
carne
dovuta
alla
sempre
crescente
popolazione,
importa
il
60%
dei
semi
di
soia
commercializzati
in
tutto
il
mondo
e
fino
a
poco
tempo
fa
lo
faceva
rivolgendosi
in
primis
agli
Stati
Uniti.
Questa
linea
direttrice
tuttavia
con
la
guerra
commerciale
non
è
più
praticabile.
Già
l’anno
scorso
il
75%
delle
importazioni
cinesi
di
soia
proveniva
dal
Brasile.
Pechino,
non
avendo
più
a
disposizione
(per
il
momento)
Washington
come
partner
privilegiato,
ha
deciso
quindi
di
affidarsi
alle
enormi
distese
di
suolo
brasiliano.
A
seguito
della
guerra
commerciale,
Johnny
Chi,
ovvero
il
presidente
della
società
cinese
di
commodities
agricole
Cofco
International,
ha
annunciato
che
il
piano
è di
far
aumentare
la
quantità
di
soia
brasiliana
importata
del
5%
annuo.
Questo
può
essere
un
problema
per
Brasilia,
nonostante
al
momento
sia
visto
come
un’opportunità.
Infatti
la
domanda
di
soia
da
parte
della
Cina
sono
enormi
ed è
molto
probabile
che
il
Brasile
non
riesca
a
soddisfare
tale
domanda.
Tuttavia
gli
imprenditori
brasiliani
non
sembra
ci
stiano
pensando
molto
e
pur
di
non
perdere
questa
opportunità,
stanno
incentivando
un
disboscamento
criminale
dell’Amazzonia.
Infatti
per
produrre
più
soia
sono
necessari
più
terreni,
e in
Brasile
la
necessità
di
più
terreni
per
l’agricoltura
intensiva
si
può
tradurre
solamente
con
una
deforestazione
altrettanto
intensiva.
Le
soluzioni
per
arginare
il
problema
potrebbero
essere
molteplici,
tutte
di
difficile
attuazione.
La
prima
e
anche
quella
più
impattante
sarebbe
la
fine
della
guerra
commerciale
tra
Cina
e
Stati
Uniti,
la
quale
tuttavia
non
è un
evento
programmabile
né
tantomeno
a
breve
termine.
Non
è un
segreto
infatti
che
Washington
stia
usando
questo
pretesto
per
colpire
l’economia
cinese
in
modo
da
rallentarne
l’ascesa
sullo
scacchiere
globale.
Un’altra
soluzione
potrebbe
essere
la
diversificazione
da
parte
di
Pechino
dei
fornitori
di
soia.
Questo
processo
è
probabilmente
già
in
atto,
tuttavia
nessun
paese
ha a
disposizione
le
enormi
distese
che
ha
il
Brasile
all’interno
dei
propri
confini.
Infine
si
potrebbe
anche
attuare
una
pressione
internazionale
congiunta
nei
confronti
del
Brasile
per
attuare
una
serie
di
politiche
ambientali
a
difesa
dell’Amazzonia.
Aspettare
che
Bolsonaro
si
muova
in
questa
direzione
di
sua
sponte
non
ha
il
benché
minimo
senso.
Vi è
stato
un
breve
cenno
di
questa
pressione
diplomatica
nell’ultimo
G7
tuttavia
decaduto
quasi
subito.
La
questione,
come
tante
altre
in
passato,
probabilmente
finirà
nel
dimenticatoio,
vedendo
l’Occidente
i
problemi
brasiliani
come
lontani
e
non
attinenti
alla
propria
agenda
politica.
Emblematico
è
stato
il
caso
proprio
durante
l’ultimo
G7
di
come
Bolsonaro
in
prima
istanza
abbia
rifiutato
i 20
milioni
di
euro
offertigli
per
proteggere
l’Amazzonia
(in
virtù
anche
del
battibecco
con
il
presidente
Macron),
mentre
in
un
secondo
momento
il
portavoce
del
presidente
Bolsonaro,
Otavio
Rego
Barros,
ha
affermato
che
il
Brasile
è
pronto
a
ricevere
aiuto
finanziario
da
paesi
terzi,
a
condizione
che
i
suddetti
fondi
siano
sotto
controllo
del
“popolo
brasiliano”.
Retorica
da
bar
direbbero
alcuni,
la
quale
ha
mostrato
per
l’ennesima
volta
la
vera
natura
del
presidente
Bolsonaro
al
mondo.
Nonostante
ciò,
i
piani
del
presidente
per
il
suo
paese
vanno
anche
oltre
la
mera
irrisione
dell’ambiente.
Non
è un
segreto
infatti
che
il
Brasile
stia
attuando
un
ampio
programma
di
riarmo
nell’ottica
di
proiettare
la
propria
potenza
nel
contesto
internazionale.
È
notizia
del
10
luglio
il
test
del
Mansup,
un
nuovo
missile
antinave
di
superficie
lanciato
dalla
fregata
Independência
completamente
prodotto
in
Brasile.
Un
altro
aspetto
è il
programma
nucleare
brasiliano.
Bolsonaro
infatti
vorrebbe
dotare
la
propria
nazione
del
primo
sottomarino
nucleare
del
paese,
completamente
prodotto
dentro
i
propri
confini
nazionali.
Prima
di
percorrere
questa
strada
tuttavia
il
Brasile
dovrebbe
dotarsi
di
armi
nucleari,
cosa
che
al
momento
non
ha
ed è
difficile
che
abbia
nel
breve-medio
termine.
Tutte
queste
misure
sono
volte
ad
accaparrarsi
il
consenso
dei
militari,
dai
quali
il
presidente
attinge
la
maggior
parte
della
sua
base
di
consensi.
Basti
pensare
che
7
dei
22
membri
dell’attuale
amministrazione
vengono
dalle
forze
armate
e
inoltre
il
vice
presidente
Hamilton
Mourao
è un
ex
generale.
Nonostante
questa
relazione
stretta
con
l’esercito,
Bolsonaro
non
è
immune
da
attriti
e
scontento
con
i
militari.
Un
esempio
fra
tutti
è il
fatto
che
3
ministri
siano
stati
licenziati
dallo
stesso
presidente
in
appena
6
mesi.
Questo
anche
a
causa
del
fatto
che
alcune
delle
politiche
di
Bolsonaro
non
sono
gradite
ai
generali,
prima
fra
tutte
l’abbandono
del
multilateralismo
brasiliano.
Invero
non
è
andato
giù
il
fatto
che
agli
occhi
di
numerose
nazioni
il
Brasile
non
sia
più
una
sorta
di
guida
dei
paesi
in
via
di
sviluppo
ma
stia
per
diventare
un’enclave
degli
Stati
Uniti
d’America
in
America
Latina.
Non
è un
segreto
infatti
che
Bolsonaro
abbia
aperto
alla
possibilità
di
ospitare
truppe
statunitensi
sul
proprio
suolo
in
chiave
anti-venezuelana
(leggere
anti-russa).
Quest’abbandono
di
neutralità
in
politica
internazionale
si
paga,
e a
caro
prezzo
anche.
E i
generali
lo
sanno.
In
conclusione,
il
Brasile
al
momento
si
trova
guidato
da
un
presidente
del
tutto
inadatto
rispetto
all’importanza
del
compito
che
è
chiamato
a
ricoprire.
Concentrato
più
ad
accontentare
il
proprio
elettorato
che
a
fare
il
bene
del
paese,
Bolsonaro
sta
portando
lentamente
una
grande
e
meravigliosa
nazione
come
il
Brasile
sull’orlo
del
baratro.
Incurante
di
quali
possano
essere
i
veri
bisogni
di
uno
dei
paesi
più
popolosi
e
più
poveri
al
mondo
e
soprattutto
ignaro
di
come
risolverli,
cerca
di
perseguire
un
prestigio
internazionale
che
non
otterrà
mai
se
non
risolverà
prima
gli
svariati
problemi
che
affliggono
l’anima
profonda
del
Brasile
da
almeno
30
anni
a
questa
parte.
Nonostante
ciò,
la
comunità
internazionale
deve
attivarsi
all’unisono
per
impedire
che
le
politiche
scellerate
dell’attuale
governo
riescano
a
distruggere
l’Amazzonia,
ovvero
uno
dei
più
grandi
tesori
che
il
nostro
pianeta
ha
ancora
a
disposizione.