N. 107 - Novembre 2016
(CXXXVIII)
CINQUANT’ANNI
DI
PANTERE
NERE
Breve
storia
del
Black
panther
party
di
Filippo
Petrocelli
Oakland
negli
anni
Sessanta
non
gode
di
buona
fama.
Qualcuno
le
ha
cucito
addosso
il
vestito
di
città
violenta,
dove
è
molto
diffusa
la
microcriminalità
e le
tensioni
razziali
montano
senza
sosta.
È
una
città
che
ha
vissuto
il
suo
boom
economico
fra
le
due
guerre
e
che
all’inizio
degli
anni
Cinquanta
già
appare
in
grande
difficoltà.
Quell’età
dell’oro
rimane
un
felice
ricordo
per
la
maggioranza
della
popolazione,
che
ora
affoga
nella
povertà
e
nelle
privazioni.
La
chiusura
delle
industrie
e la
fine
di
molti
posti
di
lavoro
sono
una
realtà
diffusa
nel
dopoguerra
che
“arrugginisce”
la
pace
sociale
e
favorisce
una
profonda
pauperizzazione
soprattutto
della
comunità
afroamericana.
Sono
passati
undici
anni
da
quando
Rosa
Parks
rifiuta
di
cedere
il
suo
posto
sull’autobus
a un
bianco
a
Montgomery,
in
Alabama.
Sono
passati
due
anni
da
quando
Martin
Luther
King
è
diventato
il
simbolo
della
lotta
non-violenta
contro
la
segregazione,
incarnando
le
speranze
di
riscossa
degli
afroamericani.
Ma è
appena
trascorso
un
anno
da
quando
Malcolm
X
viene
ucciso
a
New
York.
Eppure,
nei
ghetti
di
Oakland
i
“diritti
civili”
sono
ancora
un
miraggio,
così
come
la
non-violenza
appare
un
feticcio
buono
per
la
middle
class
o
per
il
chierichetto
della
parrocchia.
Qui
a
Est
Oakland,
West
Oakland
e
Nord
Oakland
si
sconta
una
doppia
colpa:
quella
di
essere
poveri
e
nigger
(termine
dispregiativo
usato
dai
bianchi
per
indicare
gli
afroamericani),
e
soprattutto
gli
apparati
dello
Stato
non
si
sforzano
di
distinguere
un
criminale
da
una
persona
di
colore.
Così,
in
questo
humus,
ci
si
fa
largo
a
pugni
e
calci,
senza
chiedere
permesso
e
senza
elemosinare
nulla,
perché
qui
l’unica
cosa
che
lo
Stato
offre
è
repressione
e
violenza.
Per
le
strade
della
città
proliferano
bande
e
gang,
come
primordiali
organizzazioni
di
contropotere,
che
tentano
di
amministrare
la
vita
di
tutti
i
giorni.
E
spesso
sono
i
“giochi
di
mano”,
a
porre
fine
a
diatribe
di
ogni
genere.
Comunque,
è in
quell’ottobre
del
1966
che
prende
forma
e
germoglia
il
Black
panther
party
(Bpp),
come
strumento
di
autorganizzazione
della
comunità
afroamericana
contro
la
violenza
dello
Stato.
Questo
perché
nelle
zone
più
povere
di
Oakland
la
polizia
svolge
una
funzione
curiosa:
intimidisce
e
umilia
la
comunità
nera,
arrivando
a
comportarsi
quasi
come
una
forza
d’occupazione
straniera,
perché
considera
fondamentalmente
gli
afroamericani
come
una
minaccia.
A
fondare
il
Bpp
sono
due
amici,
due
ex-compagni
di
scuola,
Huey
P.
Newton
e
Bobby
Seale,
nell’ottobre
del
1966.
La
divisa
del
partito
è un
basco
nero
e
una
giacca
di
pelle
che
diventano
col
tempo
vere
e
proprie
cifre
del
movimento
che
riesce
a
esprimere
anche
una
certa
estetica.
Proprio
nelle
parole
di
Seale,
che
diventa
il
presidente
del
partito
mentre
Newton
è il
ministro
della
difesa
e il
leader
principale,
troviamo
spiegata
l’unicità
di
quest’esperienza
politica:
“È
probabile
che
Marx
e
Lenin
si
rivolterebbero
nella
tomba
se
potessero
vedere
come
i
sottoproletari
afroamericani
stanno
mettendo
insieme
l’ideologia
del
Bpp.
Sia
Marx
che
Lenin
erano
soliti
dire
che
il
sottoproletariato
non
avrebbe
fatto
per
niente
la
rivoluzione”.
Il
Bpp
introduce
quindi
una
profonda
novità
a
livello
politico
e
nella
lotta
per
l’emancipazione:
il
partito
non
è
solo
un’organizzazione
antirazzista
che
si
batte
per
la
fine
delle
discriminazioni
e
per
i
diritti
civili
ma
legge
le
discriminazione
razziali
con
la
lente
del
marxismo,
intrecciando
appunto
la
questione
dello
sfruttamento
con
quello
della
“razza”.
L’obiettivo
è
incanalare
l’istintiva
rivolta
“proletaria”
dei
neri
in
qualcosa
di
organizzato
ed
efficiente.
In
qualcosa
capace
di
colpire
e
danneggiare
lo
stato
delle
cose
presenti.
In
maniera
tutt’altro
che
velata
si
sostituisce
il
totem
della
non-violenza
con
quello
dell’autodifesa,
tant’è
che
il
nome
esteso
dell’organizzazione
diviene,
al
momento
della
fondazione,
Black
panther
party
for
self-defence.
E
proprio
l’autodifesa
diventa
il
primo
obiettivo
del
Bpp:
così
iniziano
i
pattugliamenti
armati
dei
ghetti
rigonfi
di
sottoproletariato
e
povertà,
conosciuti
con
il
nome
di
patrolling,
per
difendere
gli
abitanti
dalla
brutalità
poliziesca.
Ma
le
Pantere
si
differenziano
anche
per
un
altro
fattore:
a
differenza
dei
cosiddetti
“nazionalisti
culturali”
afroamericani,
il
Bpp
distingue
fra
bianchi
razzisti
e
non,
così
come
distingue
fra
neri
“ricchi”
e
“poveri”.
Alla
questione
razziale
si
somma
dunque
la
nozione
di
sfruttamento.
Per
essere
più
precisi
si
possono
usare
proprio
le
parole
di
Huey
P.
Newton:
“(…)
Se
un
commerciante
nero
fa
prezzi
uguali
a
quelli
del
commerciante
bianco
sfruttatore,
o
più
alti
ancora,
allora
anche
lui
non
è
nient’altro
che
uno
sfruttatore”.
Insomma,
oltre
la
questione
della
razza
compare
la
lotta
di
classe,
è
questo
il
“segreto”
del
partito
che
diventa
l’avanguardia
di
un
movimento
sociale
e di
protesta
contro
la
guerra
in
Vietnam
e le
discriminazioni,
incarnando
l’anima
più
politica
della
contestazione.
Insomma,
i
“fratelli”
guidati
da
Newton
e
Seale
passano
da
essere
un
piccolo
gruppo
locale
a un
gruppo
di
riferimento
nazionale
e
poi
mondiale.
Iniziano
a
proliferare
diversi
sezioni
in
molte
altre
città
e la
ramificazione
diventa
capillare.
Newton
e
Seale
producono
anche
il
documento
centrale
della
storia
del
Bpp,
il
cosiddetto
Programma
dei
dieci
punti.
Questo
è un
programma
politico
ma
anche
un
manifesto
e
vuole
rappresentare
le
aspirazioni
e il
background
delle
Pantere.
Ha
l’obiettivo
di
creare
una
coscienza
politica
ma
non
usa
linguaggi
aulici
né
astrazioni
eccessive,
dimostrandosi,
in
un
certo
senso,
comprensibile
per
le
masse
e
capace
di
parlare
non
solo
di
rivoluzione
ma
anche
di
abitazioni
decenti,
istruzione
e
piena
occupazione.
Un
altro
punto
di
svolta
per
il
partito
arriva
nel
1967,
a
circa
un
anno
dalla
fondazione,
quando
diventa
membro
Eldridge
Cleaver,
dopo
essere
uscito
di
prigione.
Clever
diventa
ministro
dell’informazione
e
portavoce
del
movimento,
impegnandosi
soprattutto
sul
versante
culturale
e
ampliando
i
confini
del
partito
che
a
quel
punto
ha
già
una
solida
struttura
e
perfino
delle
alleanze
politiche.
Ma
la
“fortuna”
del
Bpp
inizia
ad
attirare
anche
attenzioni
sgradite:
quelle
della
polizia
ma
soprattutto
del
Fbi,
che
decide
di
monitorare
gli
attivisti
fino
a
infiltrare
l’organizzazione
e
inserirla
nel
programma
di
controspionaggio
Cointelpro,
una
struttura
attiva
fin
dal
’56
e
orientata
a
depotenziare
e
criminalizzare
le
lotte
per
i
diritti
civili.
Così
comincia
un
periodo
di
dura
repressione
in
cui
molti
membri
del
Bpp
entrano
ed
escono
dal
carcere,
e la
pressione
poliziesca
sul
movimento
è
continua.
Il
4
dicembre
1969,
uno
dei
leader
del
partito
in
Illinois,
Fred
Hampton,
viene
praticamente
giustiziato
da
membri
del
Dipartimento
di
polizia
di
Chicago,
mentre
due
anni
dopo
George
Jackson
viene
ucciso
nel
penitenziario
di
San
Quentin
da
un
secondino
dopo
essere
riuscito
a
far
uscire
dal
carcere
un
suo
pamphlet.
Ma
sono
decine
i
militanti
uccisi.
Ed è
per
questo
impegno
in
prima
linea
che
il
partito
diventa,
appunto,
avanguardia.
Sempre
Seale
ricorda:
“Noi
siamo
l’avanguardia
non
perché
vogliamo
esserlo,
ma
perché
questo
ruolo
ci è
stato
dato
dalla
morte
sanguinosa
dei
nostri
militanti,
e
perché
in
questo
momento
quasi
cento
di
noi
sono
prigionieri
politici”.
Il
Bpp
quindi
non
si
sottrae
alle
lotta,
anzi,
rimane
in
prima
linea
pagando
un
prezzo
altissimo
in
termini
sia
di
morti
sia
di
reclusi.
Ma
la
repressione,
gli
arresti,
le
esecuzioni
e
“l’esilio”
di
diversi
dirigenti
minano
la
stabilità
del
partito,
che
inizia
a
essere
attraversato
da
tensioni
interne
che
sfociano
in
una
serie
di
scissioni.
Formalmente
il
partito
conclude
la
sua
parabola
nel
1982.
Newton
viene
assassinato
nel
1989
e
con
lui
se
ne
va
il
pilastro
e
l’ideatore
del
Bpp.
A
oggi,
movimenti
come
Black
Live
Matters
segnalano
che
la
frattura
“razziale”
all’interno
del
paese
è
ancora
viva
e
suppura.
Così
come
appaiono
quotidianamente
notizie
di
abusi
di
potere
della
polizia
contro
la
comunità
nera,
nonostante
due
mandati
presidenziali
di
un
presidente
afroamericano.
Ecco
perché
le
Pantere,
nonostante
i
loro
cinquant’anni,
graffiano
ancora.