Innanzitutto per l’aspetto puramente
sportivo: Bill Russell è, a oggi, il
giocatore più vincente nella storia
dello sport americano, capace di
conquistare due titoli universitari
NCAA, un oro olimpico, nel 1956 a
Melbourne, da capitano della
rappresentativa statunitense, e
undici campionati NBA, dei quali ben
otto consecutivi e cinque da MVP,
cioè miglior giocatore, del
campionato. Un record, questo,
praticamente impossibile da
eguagliare.
Trattare di Russell legando il suo
nome esclusivamente al mondo del
basket, però, rappresenterebbe una
terribile ingiustizia, dato che egli
stesso ha più volte dichiarato di
voler essere ricordato non per le
vittorie sul campo, ma per la lotta
sostenuta a favore dei diritti
civili: è in tale ambito che egli si
è battuto con maggior foga e
convinzione, ancor più che sui campi
in parquet.
In uno sport che ancora non aveva
conosciuto le parole, l’immagine e
la signorile, elegante abnegazione
alla causa di Kareem Abdul-Jabbar,
privo dei social, dei video di
protesta e della presenza scenica,
interna ed esterna al palazzetto, di
un Lebron James che mai ha fatto
mancare il proprio, rilevante
supporto, in un mondo ancora ignaro
del fatto che, il 19 marzo 1966, una
squadra composta da soli sette
giocatori afroamericani avrebbe
vinto il campionato NCAA, in quella
che oggi, noi fortunati posteri,
abbiamo il privilegio di ricordare
come la partita, forse non solo di
basket, più importante di sempre;
prima di tutto questo, Bill Russell
è stato un precursore nella lotta di
un terribile male, quello del
razzismo, del quale egli fu vittima
per tutta la vita.
Approdato in NBA come terza scelta
al draft del 1956, evento annuale
tramite il quale le franchigie
scelgono nuovi giocatori,
solitamente provenienti dai college
universitari, dopo essere stato
fortemente voluto dall’allenatore
dei Boston Celtics, Red Auerbach,
personaggio già attivo nei processi
di inclusione degli atleti neri nel
mondo della pallacanestro e
destinato a diventare, anche lui,
uno dei coach prima, e dirigenti
poi, più vincenti di sempre,
Russell, unico giocatore nero della
squadra, si trovò sin da subito
costretto a subire l’ondata di
manifesto odio razzista della città.
Tale sentimento di ostilità non andò
a scemare nel corso dell’anno, ma
addirittura crebbe nel tempo,
nonostante la vittoria, al termine
della stagione, del campionato:
anche nel periodo delle partite dei
playoff era materia quotidiana
imbattersi in aggressioni verbali
nei suoi confronti o, addirittura,
al lancio di mattoni e altri oggetti
verso la sua figura.
A quell’epoca, infatti, l’NBA non
suscitava, come oggi, un interesse
così capillare e diffuso, né
comportava quei festeggiamenti e
riconoscimenti che, invece, noi
consideriamo scontati. Russell si
estraniò quanto più possibile dalla
gente di Boston, evitando la
tifoseria e iniziando a nutrire per
la città e la sua popolazione una
crescente rabbia: si rifiutò
continuamente di firmare autografi,
gesto che gli valse addirittura
un’indagine personale dell’FBI per
odio razziale nei confronti della
popolazione bianca, di festeggiare
le vittorie al palazzetto e di
prendere parte a eventi pubblici
organizzati dalla società.
La sua resistenza passiva, però, non
si limitò a questo: nel 1961, lui e
altri quattro giocatori neri dei
Celtics, assieme a due avversari,
decisero di boicottare una partita
d’esibizione che si sarebbe tenuta a
Lexington, nel Kentucky, poiché il
bar e il ristorante dell’albergo si
rifiutarono di servirli; tale
decisione ebbe un grande seguito
mediatico ed è rimasta un caso unico
nella storia, fino al 2020 e alla
decisione dei Milwaukee Bucks di non
scendere in campo per la prima
partita dei playoff in sostegno al
movimento Black Lives Matter.
Non si trattava certo della prima
volta in cui Russell, così come
altri giocatori afroamericani, si
trovava ad affrontare una situazione
simile: già nel 1958, nel corso di
un torneo di post season al quale
presero parte i migliori giocatori
del campionato, un hotel della North
Carolina si rifiutò di concedere
camere ai giocatori neri,
accompagnando la decisione a
numerosi insulti a sfondo razziale.
Stavolta, però, Russell aveva una
voce diversa e iniziò a farla
sentire, arrivando più volte a
minacciare di abbandonare il mondo
del basket se la condizione degli
atleti neri non fosse cambiata.
Nel 1963 prese parte alla celebre
marcia per il lavoro e la libertà,
organizzata da Martin Luther King a
Washington, trovandosi in prima fila
al momento del famoso discorso
culminato nel “I have a dream”; si
racconta, inoltre, che lo stesso
reverendo King avesse invitato
Russell a salire sul palco assieme a
lui, ma che quest’ultimo avesse
deciso di declinare l’offerta, non
reputandosi ancora degno di un
simile riconoscimento.
Nel 1967 Bill Russell fu tra coloro
che decisero di sottoscrivere una
lettera in favore di Muhammad Ali,
difendendo e appoggiando la sua
volontà di rifiutare la leva
militare in Vietnam. Nel 1966,
intanto, era diventato il primo
allenatore nero nella storia della
NBA, sostituendo Red Auerbach, col
ruolo di allenatore-giocatore sulla
panchina dei Celtics; tale nomina, e
i successivi successi, lo porteranno
ad essere inserito, nel 2021, nella
Hall of fame degli allenatori NBA.
Nonostante gli ultimi due campionati
vinti in tale veste, nel 1967 e nel
1968, l’atteggiamento ostile e
profondamente razzista della gente
di Boston non andò cambiando, anzi
si inasprì: il culmine venne
raggiunto quando un gruppo di
vandali fece irruzione nella sua
abitazione privata a Reading, nel
Massacchussets, ricoprendo le mura
con frasi razziste, deturpando
alcuni trofei e defecando sul suo
letto.
Al momento dell’addio ai Celtics,
Russell non chiede alcuna cerimonia
d’onore: quando, nel 1972, la maglia
numero 6 venne ritirata da una
società, nella figura di Auerbach ma
non solo, comunque a lui amica e
riconoscente, Russell non si
presentò alla celebrazione; allo
stesso modo, nel 1975, quando venne
inserito nella Hall of fame dei
migliori giocatori NBA, chiese e
ottenne una premiazione privata, in
un palazzetto quasi completamente
vuoto. Su sua stessa ammissione,
negli anni successivi al suo ritiro
da allenatore, dopo alcuni risultati
non positivi fuori Boston, Russell
intraprese la carriera di
commentatore tecnico delle partite,
dopodiché si ritirò a vita privata,
cercando di evitare qualsiasi
apparizione pubblica.
Nel corso degli anni ‘90, però, il
suo nome iniziò ad essere sempre più
al centro dell’attenzione mediatica.
I semi da lui gettati nel corso
della sua carriera, infatti, avevano
germogliato e il mondo, anche se ben
lungi dall’essere perfetto, era
cambiato: i giocatori afroamericani
nell’NBA avevano iniziato ad essere
ormai la regolarità, anzi la punta
di diamante del movimento sportivo,
e la loro condizione, rispetto a
trent’anni prima, era radicalmente
cambiata. Il suo nome, le sue gesta,
non erano state dimenticate.
Dopo numerose interviste,
compartecipazioni alla stesura di
libri sui diritti civili e
addirittura un documentario HBO, nel
1999, al momento di cambiare la
propria sede per le partite
casalinghe, trasferendo le stesse al
TD Garden di Boston, la dirigenza
dei Celtics decise di proporre a
Russell di ripetere (in realtà mai
avvenuta) la cerimonia del 1972.
Lui, seppur pieno di timori, forse
anche spaventato all’idea di tornare
in quella città, un tempo così
ostile e razzista, alla fine decise
comunque di accettare.
Il 6 maggio dello stesso anno, al
termine di una cerimonia alla quale
presero parte anche ex giocatori del
calibro di Wilt Chamberlain, Larry
Bird e Kareem Abdul-Jabbar, un
palazzetto stracolmo di tifosi
tributò un lunghissimo applauso a un
commosso Bill Russell, incapace di
trattenere l’emozione e le lacrime.
La stessa commozione che provò nel
febbraio 2009, quando il commissario
della NBA David Stern decise di
intitolargli il premio di MVP delle
finali NBA, che da allora porta il
suo nome, nel novembre 2013, quando
una sua statua in bronzo venne
posizionata davanti al municipio di
Boston come ringraziamento per tutto
ciò che aveva fatto per la città, e,
infine, il 15 febbraio 2015, quando
l’allora presidente degli Stati
Uniti, Barack Obama, gli conferì la
Presidential Medal of Freedom, la
più alta onorificenza civile
statunitense.
Negli anni successivi Russell è
stato più volte ambasciatore NBA nel
mondo, pronto a portare una voce là
dove ce ne fosse bisogno, sempre in
difesa dei diritti civili e contro
le atrocità di un mondo ingiusto:
nel 2017, ad esempio, mostrò il suo
aperto sostegno alla protesta nata
in NFL contro gli abusi della
polizia americana, pubblicando su
Twitter una foto che le ritraeva in
ginocchio, e nel 2020 si è schierato
a fianco dei Bucks e della loro
decisione, già accennata poco sopra,
di boicottare una partita NBA.
In un’intervista di pochi anni fa,
rilasciata a ESPN, si rivolse ai
manifestanti della NFL, ma anche
direttamente a ogni uomo che si
batte per i diritti civili,
pronunciando una frase semplice, ma,
allo stesso tempo, potentissima: «Dite
loro che non sono soli». Non
come lo era stato lui, cinquant’anni
prima, come lo erano stati gli altri
come lui, a combattere battaglie
gigantesche, nel tentativo di
cambiare il mondo.
William Felton Russell, detto Bill,
si è spento lo scorso 31 luglio
2022, all’età di 88 anni. Sono stati
tantissimi i messaggi di cordoglio e
dolore che hanno attraversato
l’etere mondiale, in quei giorni,
dalle parole di Steph Curry e Lebron
James, fino agli attestati di stima
e riconoscenza di ex campioni del
calibro di Magic Johnson e Michael
Jordan: tutti giocatori che, se non
fosse stato per lui e le sue
battaglie, probabilmente non
avrebbero mai potuto neppure entrare
in un palazzetto di basket.
Chiunque abbia mai ricevuto anche
soltanto l’eco di quello che egli è
stato, del simbolo e dell’uomo, è
rimasto colpito, sconvolto dalla
notizia della sua morte. Perché
anche se il mondo dove viviamo
continua a essere imperfetto, anche
se la stessa Boston resta una città
nella quale, spesso, si verificano
episodi razzisti, è grazie a persone
del genere, a individui che hanno
lottato tutta la vita per cambiare
qualcosa, che forse, oggi, possiamo
dire di vivere in un mondo anche
solo parzialmente migliore.
Bill Russell è stato un uomo capace,
realmente, di cambiare la storia. Il
suo lascito, il risultato delle sue
azioni e del suo coraggio, non
morirà mai.