[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

176 / AGOSTO 2022 (CCVII)


storia & sport

A PROPOSITO DI BILL RUSSELL
storia di un campione inimitabile

di Lorenzo Bruni

 

Scrivere di Bill Russell, della sua vita e del simbolo che egli è stato, non riuscirà mai a rendere del tutto giustizia alla carriera e all’esistenza extra cestistica di quello che è considerato uno dei più grandi campioni di ogni tempo.

 

Innanzitutto per l’aspetto puramente sportivo: Bill Russell è, a oggi, il giocatore più vincente nella storia dello sport americano, capace di conquistare due titoli universitari NCAA, un oro olimpico, nel 1956 a Melbourne, da capitano della rappresentativa statunitense, e undici campionati NBA, dei quali ben otto consecutivi e cinque da MVP, cioè miglior giocatore, del campionato. Un record, questo, praticamente impossibile da eguagliare.
 
Trattare di Russell legando il suo nome esclusivamente al mondo del basket, però, rappresenterebbe una terribile ingiustizia, dato che egli stesso ha più volte dichiarato di voler essere ricordato non per le vittorie sul campo, ma per la lotta sostenuta a favore dei diritti civili: è in tale ambito che egli si è battuto con maggior foga e convinzione, ancor più che sui campi in parquet.
 
In uno sport che ancora non aveva conosciuto le parole, l’immagine e la signorile, elegante abnegazione alla causa di Kareem Abdul-Jabbar, privo dei social, dei video di protesta e della presenza scenica, interna ed esterna al palazzetto, di un Lebron James che mai ha fatto mancare il proprio, rilevante supporto, in un mondo ancora ignaro del fatto che, il 19 marzo 1966, una squadra composta da soli sette giocatori afroamericani avrebbe vinto il campionato NCAA, in quella che oggi, noi fortunati posteri, abbiamo il privilegio di ricordare come la partita, forse non solo di basket, più importante di sempre; prima di tutto questo, Bill Russell è stato un precursore nella lotta di un terribile male, quello del razzismo, del quale egli fu vittima per tutta la vita.
 
Approdato in NBA come terza scelta al draft del 1956, evento annuale tramite il quale le franchigie scelgono nuovi giocatori, solitamente provenienti dai college universitari, dopo essere stato fortemente voluto dall’allenatore dei Boston Celtics, Red Auerbach, personaggio già attivo nei processi di inclusione degli atleti neri nel mondo della pallacanestro e destinato a diventare, anche lui, uno dei coach prima, e dirigenti poi, più vincenti di sempre, Russell, unico giocatore nero della squadra, si trovò sin da subito costretto a subire l’ondata di manifesto odio razzista della città.
 
Tale sentimento di ostilità non andò a scemare nel corso dell’anno, ma addirittura crebbe nel tempo, nonostante la vittoria, al termine della stagione, del campionato: anche nel periodo delle partite dei playoff era materia quotidiana imbattersi in aggressioni verbali nei suoi confronti o, addirittura, al lancio di mattoni e altri oggetti verso la sua figura.
 
A quell’epoca, infatti, l’NBA non suscitava, come oggi, un interesse così capillare e diffuso, né comportava quei festeggiamenti e riconoscimenti che, invece, noi consideriamo scontati. Russell si estraniò quanto più possibile dalla gente di Boston, evitando la tifoseria e iniziando a nutrire per la città e la sua popolazione una crescente rabbia: si rifiutò continuamente di firmare autografi, gesto che gli valse addirittura un’indagine personale dell’FBI per odio razziale nei confronti della popolazione bianca, di festeggiare le vittorie al palazzetto e di prendere parte a eventi pubblici organizzati dalla società.


La sua resistenza passiva, però, non si limitò a questo: nel 1961, lui e altri quattro giocatori neri dei Celtics, assieme a due avversari, decisero di boicottare una partita d’esibizione che si sarebbe tenuta a Lexington, nel Kentucky, poiché il bar e il ristorante dell’albergo si rifiutarono di servirli; tale decisione ebbe un grande seguito mediatico ed è rimasta un caso unico nella storia, fino al 2020 e alla decisione dei Milwaukee Bucks di non scendere in campo per la prima partita dei playoff in sostegno al movimento Black Lives Matter.
 
Non si trattava certo della prima volta in cui Russell, così come altri giocatori afroamericani, si trovava ad affrontare una situazione simile: già nel 1958, nel corso di un torneo di post season al quale presero parte i migliori giocatori del campionato, un hotel della North Carolina si rifiutò di concedere camere ai giocatori neri, accompagnando la decisione a numerosi insulti a sfondo razziale. Stavolta, però, Russell aveva una voce diversa e iniziò a farla sentire, arrivando più volte a minacciare di abbandonare il mondo del basket se la condizione degli atleti neri non fosse cambiata.
 
Nel 1963 prese parte alla celebre marcia per il lavoro e la libertà, organizzata da Martin Luther King a Washington, trovandosi in prima fila al momento del famoso discorso culminato nel “I have a dream”; si racconta, inoltre, che lo stesso reverendo King avesse invitato Russell a salire sul palco assieme a lui, ma che quest’ultimo avesse deciso di declinare l’offerta, non reputandosi ancora degno di un simile riconoscimento.
 
Nel 1967 Bill Russell fu tra coloro che decisero di sottoscrivere una lettera in favore di Muhammad Ali, difendendo e appoggiando la sua volontà di rifiutare la leva militare in Vietnam. Nel 1966, intanto, era diventato il primo allenatore nero nella storia della NBA, sostituendo Red Auerbach, col ruolo di allenatore-giocatore sulla panchina dei Celtics; tale nomina, e i successivi successi, lo porteranno ad essere inserito, nel 2021, nella Hall of fame degli allenatori NBA.
 
Nonostante gli ultimi due campionati vinti in tale veste, nel 1967 e nel 1968, l’atteggiamento ostile e profondamente razzista della gente di Boston non andò cambiando, anzi si inasprì: il culmine venne raggiunto quando un gruppo di vandali fece irruzione nella sua abitazione privata a Reading, nel Massacchussets, ricoprendo le mura con frasi razziste, deturpando alcuni trofei e defecando sul suo letto.
 
Al momento dell’addio ai Celtics, Russell non chiede alcuna cerimonia d’onore: quando, nel 1972, la maglia numero 6 venne ritirata da una società, nella figura di Auerbach ma non solo, comunque a lui amica e riconoscente, Russell non si presentò alla celebrazione; allo stesso modo, nel 1975, quando venne inserito nella Hall of fame dei migliori giocatori NBA, chiese e ottenne una premiazione privata, in un palazzetto quasi completamente vuoto. Su sua stessa ammissione, negli anni successivi al suo ritiro da allenatore, dopo alcuni risultati non positivi fuori Boston, Russell intraprese la carriera di commentatore tecnico delle partite, dopodiché si ritirò a vita privata, cercando di evitare qualsiasi apparizione pubblica.
 
Nel corso degli anni ‘90, però, il suo nome iniziò ad essere sempre più al centro dell’attenzione mediatica. I semi da lui gettati nel corso della sua carriera, infatti, avevano germogliato e il mondo, anche se ben lungi dall’essere perfetto, era cambiato: i giocatori afroamericani nell’NBA avevano iniziato ad essere ormai la regolarità, anzi la punta di diamante del movimento sportivo, e la loro condizione, rispetto a trent’anni prima, era radicalmente cambiata. Il suo nome, le sue gesta, non erano state dimenticate.
 
Dopo numerose interviste, compartecipazioni alla stesura di libri sui diritti civili e addirittura un documentario HBO, nel 1999, al momento di cambiare la propria sede per le partite casalinghe, trasferendo le stesse al TD Garden di Boston, la dirigenza dei Celtics decise di proporre a Russell di ripetere (in realtà mai avvenuta) la cerimonia del 1972. Lui, seppur pieno di timori, forse anche spaventato all’idea di tornare in quella città, un tempo così ostile e razzista, alla fine decise comunque di accettare.
 
Il 6 maggio dello stesso anno, al termine di una cerimonia alla quale presero parte anche ex giocatori del calibro di Wilt Chamberlain, Larry Bird e Kareem Abdul-Jabbar, un palazzetto stracolmo di tifosi tributò un lunghissimo applauso a un commosso Bill Russell, incapace di trattenere l’emozione e le lacrime. La stessa commozione che provò nel febbraio 2009, quando il commissario della NBA David Stern decise di intitolargli il premio di MVP delle finali NBA, che da allora porta il suo nome, nel novembre 2013, quando una sua statua in bronzo venne posizionata davanti al municipio di Boston come ringraziamento per tutto ciò che aveva fatto per la città, e, infine, il 15 febbraio 2015, quando l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, gli conferì la Presidential Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile statunitense.
 
Negli anni successivi Russell è stato più volte ambasciatore NBA nel mondo, pronto a portare una voce là dove ce ne fosse bisogno, sempre in difesa dei diritti civili e contro le atrocità di un mondo ingiusto: nel 2017, ad esempio, mostrò il suo aperto sostegno alla protesta nata in NFL contro gli abusi della polizia americana, pubblicando su Twitter una foto che le ritraeva in ginocchio, e nel 2020 si è schierato a fianco dei Bucks e della loro decisione, già accennata poco sopra, di boicottare una partita NBA.
 
In un’intervista di pochi anni fa, rilasciata a ESPN, si rivolse ai manifestanti della NFL, ma anche direttamente a ogni uomo che si batte per i diritti civili, pronunciando una frase semplice, ma, allo stesso tempo, potentissima: «Dite loro che non sono soli». Non come lo era stato lui, cinquant’anni prima, come lo erano stati gli altri come lui, a combattere battaglie gigantesche, nel tentativo di cambiare il mondo.
 
William Felton Russell, detto Bill, si è spento lo scorso 31 luglio 2022, all’età di 88 anni. Sono stati tantissimi i messaggi di cordoglio e dolore che hanno attraversato l’etere mondiale, in quei giorni, dalle parole di Steph Curry e Lebron James, fino agli attestati di stima e riconoscenza di ex campioni del calibro di Magic Johnson e Michael Jordan: tutti giocatori che, se non fosse stato per lui e le sue battaglie, probabilmente non avrebbero mai potuto neppure entrare in un palazzetto di basket.
 
Chiunque abbia mai ricevuto anche soltanto l’eco di quello che egli è stato, del simbolo e dell’uomo, è rimasto colpito, sconvolto dalla notizia della sua morte. Perché anche se il mondo dove viviamo continua a essere imperfetto, anche se la stessa Boston resta una città nella quale, spesso, si verificano episodi razzisti, è grazie a persone del genere, a individui che hanno lottato tutta la vita per cambiare qualcosa, che forse, oggi, possiamo dire di vivere in un mondo anche solo parzialmente migliore.
 
Bill Russell è stato un uomo capace, realmente, di cambiare la storia. Il suo lascito, il risultato delle sue azioni e del suo coraggio, non morirà mai.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]