N. 70 - Ottobre 2013
(CI)
Sull’ali dorate della musica italiana
Verdi nel bicentenario della nascita
di Monica Sanfilippo
Compositore
tra
i
più
rinomati
della
storia
della
lirica,
Giuseppe
Verdi
godeva
di
fama
internazionale
già
a
metà
Ottocento:
oggi,
come
allora,
è
tra
gli
autori
di
teatro
musicale
più
rappresentato
in
assoluto.
Joseph
Fortunin
François,
questo
il
suo
nome
all’anagrafe,
nacque
a Le
Roncole,
frazione
di
Busseto,
il
10
ottobre 1813,
all’epoca
in
cui
il
ducato
di
Parma
apparteneva
all’Impero
francese
di
Napoleone.
La
sua
umile
estrazione
sociale
–
oste
e
agricoltore
il
padre
Carlo,
filatrice
la
madre
Luigia
–
non
costituì
un
limite
allo
sviluppo
di
un
talento
che
emergeva
innato
fin
dalla
più
tenera
età,
semmai
fu
lo
zoccolo
duro
che
alimentò
la
fiamma
della
passione
creativa.
Oltre
alla
vocazione
artistica,
il
giovane
Verdi
deve
la
sua
fortuna
all’abilità
di
mentori
perspicaci
e
generosi,
come
l’organista
della
chiesa
delle
Roncole,
Pietro
Baistrocchi,
che
lo
indirizzò
presto
allo
studio
di
questo
strumento,
e
Antonio
Barezzi,
direttore
della
locale
società
filarmonica
e
suo
futuro
suocero,
che
lo
accolse
in
casa
come
un
figlio,
comprò
per
lui
libri
e
partiture,
sovvenzionò
gli
studi
e i
soggiorni
a
Milano.
Fu
così
che
Verdi,
senza
ripudiare
la
vita
di
campagna,
alla
quale
rimase
legato
per
la
semplicità
dello
spirito,
fu
attento
studioso,
creativo
e,
per
molti
versi,
sperimentatore
inesauribile
fino
alla
fine.
Nel
1901,
quando
si
spense
nella
sua
amata
Milano,
aveva
attraversato
una
fetta
significativa
di
storia
italiana,
contribuendo,
con
la
sua
intensa
produzione
musicale,
a
determinare
il
processo
culturale
di
formazione
del
nostro
Risorgimento.
Possiamo
riconoscere
alle
composizioni
verdiane
pari
dignità
rispetto
alla
letteratura
manzoniana.
L’esigenza
di
costruire
un’Italia,
“una
d’arme,
di
lingua,
d’altare,
di
memorie,
di
sangue
e di
cor”
(Marzo
1821),
arrivò
all’opinione
pubblica
in
forma
di
mito
prima
ancora
che
con
un
dibattito
di
carattere
politico-istituzionale;
d’altro
canto,
la
pressione
restauratrice,
determinava
per
altre
vie
l’organizzazione
delle
proteste:
tra
queste,
il
melodramma.
Se
il
romanzo
si
poneva
in
un
orizzonte
dal
target
borghese,
la
melodia
arrivava
direttamente
alle
coscienze
popolari.
Grazie
al
Nabucco (1842),
I
Lombardi
alla
prima
crociata (1843)
e
La
battaglia
di
Legnano (1849),
in
un
clima
di
fermento
e
ricco
pullulare
di
inni,
canti,
marce
e
canzoni
alla
libertà,
Verdi
diventò
presto
il
musicista
della
patria.
Del
resto
Giuseppe
Mazzini,
nella
sua
Filosofia
della
musica,
designava
il
melodramma
come
l’unico
genere
in
grado
di
sostenere
la
funzione
civilizzatrice
nazionale,
e
nell’“Ignoto
numini”
–
che
“forse
in
qualche
angolo
del
nostro
terreno
s’agita,
mentre
io
scrivo,
sotto
l’ispirazione,
e
ravvolge
dentro
sé
il
segreto
di
un’epoca
musicale”
– il
“genio”
nascente
della
storia
della
musica
italiana.
Il
successo
arrise
a
Verdi
dopo
la
prima
del
Nabucco,
nonostante
sul
piano
affettivo
la
vita
era
stata
avara
fino
a
quel
momento.
Trasferitosi
a
Milano
nel
1832,
aveva
tentato
invano
di
entrare
in
Conservatorio,
istituto
che
oggi,
ironia
della
sorte,
porta
il
suo
nome;
poi
si
era
verificato
l’insuccesso
di
alcune
composizioni;
infine
la
grave
perdita
dei
due
figlioletti,
Virginia
Maria
e
Icilio
Romano,
e
poi
della
moglie
Margherita
Barezzi
nell’arco
di
pochi
anni,
dal
1838
al
’40.
Caduto
nello
sconforto,
Verdi
perde
la
verve
compositiva;
fu
il
libretto
di
Solera
a
risvegliarne
l’impulso.
Il
Nabucco,
andato
in
scena
per
la
prima
volta
alla
Scala
di
Milano
nel
1842,
e
rappresentato
ben
64
volte
nello
stesso
anno,
inaugurò
la
svolta
dell’autore
verso
il
successo
duraturo.
L’operazione
drammaturgica
e di
valorizzazione
della
scrittura
corale
del
melodramma,
seppure
nell’impianto
belcantistico
ed
essenziale,
è
ben
riuscita,
come
ben
strutturata
è la
tematica
della
lotta
di
un
popolo
contro
il
suo
tiranno,
gli
Ebrei
che
invocano
la
patria.
La
congiuntura
di
questi
elementi
contribuì
con
ogni
probabilità,
e
con
una
velocità
senza
precedenti,
alla
nascita
del
mito
del
compositore
italiano,
tant’è
che
“Va,
pensiero”,
fischiettato
nelle
strade,
cantato
nei
caffè,
fu
per
gli
italiani
dell’epoca
inno
patriottico.
Anche
il
nome
del
compositore,
applaudito
con
scritte
sui
muri,
come
“W
Verdi”,
è
acronimo
di
“Viva
Vittorio
Emanuele
Re
d’Italia”.
La
“trilogia
popolare”
–
Rigoletto
(Venezia,
1851),
La
Traviata
(Venezia,
1853),
Il
Trovatore
(Roma,
1853)
–
consacra
definitivamente
Verdi
alla
ribalta
dei
palcoscenici,
in
Italia
e
oltralpe:
è
all’Opera
di
Parigi
con
Les
Vepres
Siciliennes
(1855)
e il
Don
Carlo
(1867);
è al
teatro
imperiale
di
San
Pietroburgo
con
la
Forza
del
destino
(1862);
con
l’Aida
(1871)
è al
Cairo,
opera
commissionatagli
per
l’inaugurazione
del
canale
di
Suez
dal
kedivè
d’Egitto.
Verdi,
di
fatto,
è il
musicista
più
noto
del
suo
tempo.
Con
il
passare
degli
anni
la
sua
produzione
si
fa
più
rada,
ma
non
per
questo
meno
intensa;
è,
semmai,
pronta
a
portare
a
compimento
gli
elementi
in
nuce
delle
partiture
precedenti,
a
prestare
attenzione
alle
dinamiche
europee
di
rinnovamento,
a
sperimentare
temi
più
sofferti
e
meditati.
Se
il
richiamo
alla
vita
rustica
della
campagna
è
forte
– si
era
ritirato
nella
Villa
di
Sant’Agata
in
provincia
di
Piacenza
con
la
soprano
Giuseppina
Strepponi,
interprete
della
prima
del
Nabucco
–
appena
può
ritorna
al
palcoscenico
e lo
fa
con
opere
di
grossa
portata.
L’Otello
(1887)
è
tra
queste,
la
summa
della
sua
esperienza
e il
superamento
degli
stereotipi
del
“vecchio”
melodramma.
Dalle
fatiche
letterarie
di
Arrigo
Boito,
scapigliato
polemico
e
intransigente,
uscirà
anche
l’ultima
opera
del
maestro,
il
Falstaff,
dall’eccezionale
venatura
comica,
inusuale
per
le
corde
dell’autore,
e
dalla
sorprendente
vitalità
artistica,
punto
di
riferimento
per
i
giovani
operisti
italiani.
Quando
il
maestro
si
spegnerà
nel
1901,
i
funerali
si
svolgeranno
nella
semplicità
e
nel
silenzio
come
egli
ha
lasciato
scritto
nel
suo
testamento.
Probabilmente
perché
a
tale
sobrietà
risponde
l’eternità
del
suo
messaggio:
i
temi
delle
opere,
le
arie,
i
duetti,
i
preludi,
le
cabalette,
riecheggiano
nell’attualità
della
cultura
operistica
come
nell’immaginario
sonoro
di
esperti
del
lirismo
e
negli
appassionati
del
bel
canto,
costituendo
il
made
in
Italy
della
musica
nel
mondo.
Riferimenti
bibliografici:
C.
Casini, Verdi,
Rusconi,
Milano
1981
M.
De
Angelis
(a
cura
di), Giuseppe
Mazzini.
Filosofia
della
musica,
Guaraldi,
Rimini-Firenze
1977
M.
Mila, La
giovinezza
di
Verdi,
Eri,
Torino
1974
M.
Mila, L’arte
di
Verdi,
Einaudi,
Torino
1980
G.
Rausa, Introduzione
a
Verdi,
Mondadori,
Milano
2001