N. 84 - Dicembre 2014
(CXV)
ricordando bhopal
La memoria di un disastro
di Filippo Petrocelli
Un
banale
malfunzionamento
all’origine
di
una
perdita
d’acqua,
una
reazione
chimica
devastante,
una
tragedia.
Si
potrebbe
spiegare
così
il
disastro
di
Bhopal,
avvenuto
nella
notte
fra
il 2
e il
3
dicembre
1984
in
una
fabbrica
della
Union
Carbide
nell’India
centrale.
Ma
sarebbe
troppo
facile
e
riduttivo
attribuire
la
colpa
al
“fato
canaglia”:
una
nube
tossica
fuoriuscita
da
uno
stabilimento
di
pesticidi
che
investe
uno
slumb,
uccide
sul
colpo
2.500
persone
per
poi
mieterne
un
totale
di
circa
15.000,
non
può
essere
considerata
solo
uno
sfortunato
accadimento.
È
una
storia
dai
contorni
torbidi
dove
persino
i
morti
sono
incerti
e si
intrecciano
politici
spregiudicati,
loschi
interessi
locali
e
multinazionali
assetate
di
profitto,
con
il
patrocinato
silente
del
governo
indiano
che
non
ha
mai
permesso
di
fare
piena
luce
sull’accaduto
e
troppo
spesso
ha
provato
a
minimizzare.
Liquidare
tutta
la
vicenda
come
una
tragica
fatalità
è
stata
la
strada
più
semplice,
non
solo
per
evitare
uno
scandalo
che
avrebbe
travolto
la
società
indiana,
evidenziando
il
rapporto
degenerato
fra
governo
e
multinazionali,
ma
soprattutto
per
non
allarmare
gli
investitori
stranieri,
così
intenti
a
credere
nell’Indian
dream.
Assenza
delle
più
elementari
norme
di
sicurezza,
impianti
vecchi
e
tutt’altro
che
manutenuti
sono
invece
le
reali
cause
di
questo
disastro,
al
punto
da
diventare
una
sorta
di
“pistola
fumante”
in
grado
di
inchiodare
i
responsabili
alle
loro
colpe,
troppo
concentrati
a
massimizzare
il
profitto
per
garantire
persino
la
sicurezza
dell’impianto.
Eppure
a
trent’anni
da
quel
disastro,
a
pagare
non
è
stato
nessuno,
nonostante
fossero
evidenti
le
responsabilità
dei
vertici
della
Union
Carbide:
né
il
CEO
dell’impresa
Warren
Anderson,
né
altri
pezzi
grossi
del
colosso
della
chimica
americano.
Solo
pene
irrisorie
a
quadri
intermedi
–
per
la
maggior
parte
dei
casi
poco
più
che
semplici
multe
e
lievi
sanzioni
pecuniarie
–
che
non
solo
non
rendono
giustizia
alle
vittime,
ma
offendono
anche
il
comune
senso
di
giustizia.
Persino
i
risarcimenti
–
dopo
un
lungo
iter-processuale
che
ha
ripreso
slancio
solo
di
recente
–
sono
finiti
in
massima
parte
dispersi
nei
gangli
della
burocrazia
del
paese
o si
sono
risolti
in
una
cifra
simbolica,
al
punto
da
ricevere
le
attenzioni
della
magistratura
indiana.
Uno
dei
maggiori
disastri
industriali
della
storia
insomma
è
rimasto
senza
colpevoli:
restano
e
sono
invece
evidenti
gli
strascichi
di
quella
tragedia
di
trent’anni
fa
che
continuano
a
martoriare
questo
lembo
di
subcontinente
indiano.
Aria
avvelenata,
terreni
inquinati
e
falde
acquifere
infiltrate
hanno
fatto
del
sito
di
Bhopal
uno
dei
luoghi
più
inquinati
e
pericolosi
del
mondo
tanto
che
i
bambini
nascono
malformi
ancora
oggi,
mentre
i
casi
di
cancro
e
leucemia
sono
nettamente
più
alti
rispetto
alla
media
mondiale.
Tutto
questo
non
basta:
la
fabbrica
non
ha
subito
alcun
intervento
di
bonifica
e
paradossalmente
continua
a
sversare
i
suoi
veleni
nell’aria
e
nel
sottosuolo.
Alla
morte
nel
sonno
di
migliaia
di
persone
segue
ancora
oggi
un
ambiente
compromesso
irrimediabilmente.
Oltre
il
danno
insomma
anche
la
beffa
di
quel
disastro
disumano.