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N. 40 - Aprile 2011 (LXXI)

Benjamin Constant

sulLa libertà
di Roberto Rota & Giovanni Piglialarmi

 

Lo scrittore e politico Benjamin Constant è sicuramente uno dei padri del pensiero liberale moderno. Erede della tradizione illuministica settecentesca ebbe il merito di traghettare le idee liberali, nate a cavallo tra il ‘600 e il ‘700, tra le tormentate acque della Rivoluzione francese e dell’esperienza napoleonica.

 

Traghettatore ma anche riformatore poiché quegli eventi, che modificarono radicalmente la situazione politico-istituzionale francese, imponevano la necessità di ripensare e di riformulare l’eredità politica del ‘700 e, quindi, anche il pensiero liberale.

Il suo lascito è molto vasto, e spazia dalla letteratura alle riflessioni costituzionali, ma, probabilmente, una delle sue opere più famose è il discorso su La libertà degli Antichi paragonata a quella dei Moderni pronunciato all’ Athénée Royal nel 1819.

La riflessione su questi due tipi di libertà è fondamentale per comprendere il Terrore che ha macchiato con il sangue della sua violenza il processo rivoluzionario. Proprio il tentativo, da parte dei giacobini, di applicare quella libertà che era propria dei popoli antichi alla realtà dei moderni è stata la causa di tante sofferenze. Ad ogni modo, a differenza degli scrittori realisti e controrivoluzionari, Constant ammira gli ideali della rivoluzione (quella dell’89 non quella del ‘93) e per questo non condanna tout court i giacobini.

I loro intenti erano stati nobili, e il fatto che essi si fossero ispirati agli antichi non è assurdo, proprio tra queste genti possiamo osservare grandi esempi di virtù. Ciò che Robespierre e i suoi non avevano compreso è che “non possiamo più godere della libertà degli antichi […] la libertà che ci è propria, deve essere fatta del godimento pacifico dell’indipendenza privata […] la confusione di queste due specie di libertà è stata fra di noi, in epoche sin troppo celebri della nostra rivoluzione, la causa di molti mali”. Quindi se le intenzioni dei giacobini erano lodevoli, poiché essi s’ispiravano a quell’illustre modello di virtù che erano gli antichi, non si erano resi conto che il passare dei secoli aveva cambiato i popoli. La libertà dei moderni era ben altra cosa.

Cominciamo, quindi, con il delineare i due tipi di libertà, rifacendoci alle stesse parole di Constant: “Chiedetevi innanzitutto, signori, cosa un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d’America, intendano al giorno d’oggi con la parola libertà. È per ognuno il diritto di essere sottoposto soltanto alle leggi, di non poter essere arrestato […] né messo a morte […] per effetto della volontà arbitraria di uno o più individui. È per ognuno il diritto di dire la propria opinione […] di disporre della sua proprietà […] il diritto di riunirsi con altri individui, sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il culto preferito […] Paragonate adesso questa libertà a quella degli antichi. Essa consisteva nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, varie parti della sovranità tutta intera, nel deliberare sulla piazza pubblica della guerra e della pace […] nell’esaminare i conti, gli atti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire davanti a tutto un popolo, nel metterli sotto accusa […] nello stesso tempo ammettevano, come compatibile con tale libertà, l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme […] la facoltà di scegliere il proprio culto […] sarebbe parsa agli antichi un crimine e un sacrilegio […] le leggi regolano i costumi […] l’individuo, sovrano pressoché abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati”.

Si vengono, quindi, a delineare due concetti addirittura antitetici di libertà: “il fine degli antichi era la suddivisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo ciò che chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza nei godimenti privati; e chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questi godimenti”.

Se, per gli antichi, la libertà risiedeva nella diretta partecipazione politica e per i moderni nell’indipendenza privata (anche e soprattutto rispetto al potere politico) ne deriva che i primi trascuravano i diritti e le libertà personali mentre i secondi i diritti e le garanzie assicurate dalla partecipazione politica.

L’uomo antico è, per Constant, profondamente diverso da quello moderno e ciò è dovuto al cammino della storia che non solo cambia le istituzioni, ma disvela altresì la razionalità umana. Secondo il pensatore francese la storia è guidata dalle idee e avanza di pari passo con il disvelamento di tali idee o principi. Esse diventano auto evidenti grazie al dibattito culturale e all’azione degli intellettuali.

Tali principi, che si disvelano nella storia, altro non sono che quelli della dottrina giusnaturalistico-liberale ovvero i diritti individuali di libertà. Per questo, osservando il cammino dell’uomo, esso avanza verso l’eguaglianza (ma, si badi bene, nei diritti non nelle ricchezze ). Ogni istituzione è durevole soltanto se si trova in accordo con le idee del suo tempo, altrimenti le rivoluzioni intervengono per cambiare i poteri. Quindi, le rivoluzioni sono sia il sintomo del disaccordo tra le istituzioni e le idee sia la cura che può portare ad un nuovo equilibrio.

Può succedere, però, che le rivoluzioni si spingano ben al di là del semplice equilibrio e che creino istituzioni troppo “avanzate” rispetto alle idee dominanti. Questo è stato il caso francese dove l’insurrezione popolare ha rovesciato le vecchie istituzioni (che si basavano sulle idee superate di ereditarietà, privilegio e assolutismo) e ne ha create delle nuove che in parte rispondevano ai principi del tempo (eguaglianza nei diritti e libertà) e in parte se ne discostavano (il principio dell’eguaglianza delle ricchezze e l’attacco alla proprietà).

Quando una rivoluzione va oltre il suo compito riequilibratorie, fa nascere la reazione che invece di ristabilire la normalità riporta al primordiale squilibrio (il privilegio ereditario). Questa era stata la dinamica della rivoluzione francese.

Partendo da queste riflessioni sulla filosofia della storia era facile vedere l’errore dei rivoluzionari: essi attaccarono tutte quelle libertà individuali (soprattutto la proprietà) tanto care ai moderni per cercare di istituire una libertà che, come quella degli antichi, si basasse sull’eguaglianza privata e sulla diretta partecipazione politica.

Tutto ciò era, però, contro l’indole di un popolo profondamente mutato rispetto al passato, “il potere sociale ledeva in ogni senso l’indipendenza individuale senza eliminarne il bisogno ”. Vediamo, quindi, quali erano le differenze tra l’età moderna e quella antica.

La prima riguardava il concetto di partecipazione politica. Gli stati antichi, come quelli greci o Roma repubblicana erano poco estesi e quindi era possibile per i cittadini partecipare direttamente alla politica nelle pubbliche assemblee. Tale partecipazione era un vivo piacere per il cittadino anzi era uno degli scopi della sua vita.

Nei grandi stati moderni tale partecipazione diretta è solo un’illusione, in quanto la politica è soprattutto fatta dai rappresentanti quindi da essa si ricava, necessariamente, un piacere meno vivo. I moderni hanno moltiplicato le occasioni e i mezzi per essere appagati e quindi tale felicità non deriva dalla partecipazione politica ma dai godimenti privati.

Possiamo aggiungere che il potere sociale, nell’antichità, era un potere assoluto ma poteva essere sopportato perché, effettivamente, il singolo cittadino partecipava ed era parte del potere. Per il moderno sopportare un’autorità tanto invasiva sarebbe impossibile, tanto è misera e illusoria la sua partecipazione all’autorità.

La seconda differenza risiede nell’indole bellicosa, tipica dell’età antica dedita soprattutto alla guerra, e nell’indole pacifica tipica dei moderni, dediti soprattutto al commercio. Gli antichi vivevano in piccoli stati e quindi la guerra era una necessità, se non per conquistare, almeno per difendersi. I popoli erano divisi e ostili tra di loro, i costumi profondamente differenti.

La modernità, invece, inclina alla pace, all’operosità e alla tranquillità. Infondo, dice Constant, la guerra e il commercio hanno la stessa natura, entrambe sono strumento per raggiungere qualcosa che si desidera. Solo che l’una è l’evoluzione razionale dell’altra: la guerra è l’impulso, il commercio è il calcolo razionale. L’esperienza dimostra all’uomo che la guerra, in fin dei conti, risulta sempre dannosa e potenzialmente distruttiva, essa è sempre più dispendiosa rispetto a quello che può dare. Il commercio è una via più “gentile” per ottenere ciò che si vuole.

Ma se la guerra richiedeva poteri forti centralizzati e l’assoggettamento dell’individuo alle necessità della nazione minacciata, il commercio ama l’indipendenza dalle costrizioni statali, gli affari privati e la libertà. Così come in politica, anche nelle attività economiche i moderni inclineranno verso gli interessi privati rispetto a quelli comunitari. Inoltre se i popoli antichi erano divisi, grazie ai lumi i moderni sono sempre più simili e tutti aspirano alla pace.

La riflessione sull’economia è molto accurata in un autore che sicuramente s’ispira al liberalismo classico di Adam Smith. Secondo Constant l’epoca moderna è caratterizzata da tutta una serie di attività economiche che grazie al commercio, e quindi alla volatilità degli affari, sono difficilmente controllabili da parte dello stato.

L’individuo sempre più indipendente, nei suoi affari, dallo stato, esercita grazie al credito un potere sulla politica. Gli stati hanno sempre più bisogno di denaro e grazie al sistema del debito pubblico, sono schiavi del credito e quindi delle attività dei privati. Questo ribaltamento della sfera socio-economica che domina su quella politico-istituzionale rappresenta per Constant un fattore di libertà.

Terza differenza è sicuramente la presenza della schiavitù. I popoli antichi vivevano del lavoro degli schiavi e quindi potevano dedicare il loro tempo alla politica, inoltre proprio per il fatto che alcuni uomini non erano liberi tali popoli erano caratterizzati da una grande spietatezza. I moderni hanno sicuramente costumi più umani e devono necessariamente lavorare, sottraendo tempo all’attività politica. Nell’antichità “quanto più tempo e forze l’uomo dedicava all’esercizio dei diritti politici, tanto più si credeva libero; nella specie di libertà di cui siamo capaci, la libertà ci sarà tanto più preziosa, quanto più tempo l’esercizio dei diritti politici ci lascerà per gli interessi privati. Di qui viene, Signori, la necessità del sistema rappresentativo. ”

Quarta ed ultima differenza è di tipo psicologico e morale, ed è riscontrabile nella diversa sensibilità che contraddistingue gli antichi e i moderni. Osservando la filosofia e la poesia vediamo che i popoli del passato erano caratterizzati da grandi vivacità, entusiasmi e immaginazione: essi erano nella giovinezza della vita morale. I moderni sono più riflessivi e nelle loro opere si osservano continuamente: essi sono nella maturità morale. Gli uomini contemporanei sono più malinconici, si commuovono più facilmente e sono più attenti ai rapporti privati. Per questo l’uomo moderno è sempre in dubbio, è diviso tra fede e ragione, tra istinto e razionalità. Tale scissione è il frutto inevitabile della civilizzazione.

Tutte queste differenze hanno portato ad una concezione diversa della libertà e sarebbe una forzatura costringere i moderni ad abbandonare ciò che per loro è un piacere (le libertà private) per imporgli ciò che non lo è più (il dedicarsi completamente all’attività politica). La libertà per gli antichi “era tutto ciò che assicurava i cittadini la più grande parte nell’esercizio del potere sociale”, per i moderni invece “è tutto ciò che garantisce l’indipendenza dei cittadini dal potere”.

Confondere le due concezioni sarebbe una violenza inutile e premessa di grandi vizi e corruzioni.

Si vengono a delineare due concetti della libertà che saranno ripresi anche in seguito, si pensi a Isaiah Berlin nell’opera Two Concepts of Liberty (1958). Una libertà negativa (quella dei moderni) intesa come indipendenza, e una libertà positiva (quella degli antichi) intesa come partecipazione. Il primo tipo di libertà faceva capo alla non interferenza dello stato nella sfera privata e al godimento dei diritti civili, il secondo concetto si riferiva alla libertà politica, all’autodeterminazione e alla capacità dell’uomo di guidare il proprio destino.

Tale dicotomia, estremizzata da Berlin, non deve essere considerata assoluta in Constant. Poiché non siamo più capaci della libertà degli antichi, questo non vuol dire che dobbiamo dedicarci esclusivamente agli interessi privati. I due concetti di libertà possono, almeno parzialmente, conciliarsi.

Riferendosi al dispotismo napoleonico, che vuole assoggettare il popolo ad un privatismo fatto di egoismo e materialismo, dimentico dei diritti politici, Constant dirà: “dalle differenze che ci distinguono dall’antichità, io traggo conseguenze completamente opposte. Non è affatto la garanzia che va indebolita, è il godimento che va esteso. Non è affatto alla libertà politica che voglio rinunciare; è la libertà civile che rivendico […] noi abbiamo ancora gli stessi diritti di cui fummo in possesso da sempre, gli eterni diritti a dare il consenso alle leggi […] ma i governanti hanno nuovi doveri, i progressi della civiltà […] impongono all’autorità un maggiore rispetto per le abitudini, gli affetti, l’indipendenza degli individui”.

Se è vero che le libertà civili (quelle individuali, quali il pensiero, la religione, le garanzie giudiziarie) sono il fine, lo scopo verso cui si dirige l’umanità, le garanzie e i mezzi per assicurare tali diritti universali sono dati dalle libertà politiche. Nessuno dei nostri diritti sarebbe al sicuro se il cittadino non fosse in grado di influire sul potere grazie al suo voto e alla sua partecipazione. Le due libertà si riconciliano, ben sapendo, però, che l’animo liberale di Constant lo porterà sempre a preferire le libertà individuali.

Nonostante ciò egli conclude il suo discorso del 1819 con un appello quasi democratico, sostenendo che il destino dell’uomo non è fatto solo dei godimenti privati, ma anche di quella partecipazione agli affari pubblici che soddisfa la sua brama di perfezionamento e di partecipazione.

“D’altronde, Signori, è proprio vero che la felicità, di qualsiasi tipo essa sia, costituisca l’unico fine della specie umana? In tal caso, il nostro cammino sarebbe davvero ristretto e la nostra destinazione ben poco elevata. Non c’è uno solo tra noi che, a voler abbassarsi, restringerebbe le sue facoltà morali, svilire i suoi desideri, sconfessare l’attività, la gloria, le emozioni generose e profonde, non potrebbe abbruttirsi ad essere felice. No, Signori, chiamo a testimoniare la parte migliore della nostra natura, quella nobile inquietudine che ci perseguita e ci tormenta, la brama di ampliare i nostri lumi e di sviluppare le nostre facoltà; non è alla sola felicità è al perfezionamento che il nostro destino ci chiama; e la libertà politica è il mezzo più possente e il più energico di perfezionamento […] Lungi dunque, Signori, dal rinunciare ad alcuna delle due libertà di cui vi ho parlato, occorre, come ho dimostrato, imparare a combinarle tra loro. Le istituzioni […] devono compiere i destini della specie umana […] l’opera del legislatore non è ancora completa quando si sia limitato a rendere il popolo tranquillo. Persino nel caso in cui il popolo sia contento, rimane ancora molto da fare. Bisogna che le istituzioni completino l’educazione morale dei cittadini”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, a cura di G. Paoletti, con un Profilo del liberalismo di P.P. Portinaro, Torino, Einaudi, 2005.

B. Constant, Lo spirito di conquista e l’usurpazione nei loro rapporti con la civiltà europea, Macerata, Editore Liberilibri, 2008.

S. De Luca, Alle origini del liberalismo contemporaneo. Il pensiero di Benjamin Constant tra il Termidoro e l’Impero, Cosenza, Marco editore, 2003.



 

 

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