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N. 86 - Febbraio 2015 (CXVII)

Beniamino di Tudela
un viaggiatore “moderno” nel XII secolo

di Andrea Zito

 

Il viaggio è sempre stata un’aspirazione insita nell’animo umano. Il “νόστος” (in greco “viaggio”) di ascendenza omerica non è solo da intendere come perseguimento di una meta geografica, ma soprattutto come aspirazione all’appagamento di una nobile curiosità.

 

Quella stessa curiosità, appunto, che portò alla rovina l’Ulisse dantesco, condannato (Inferno, canto XXVI) alla dannazione eterna per aver osato voler conoscere ciò che all’uomo è precluso. Ma viaggiare, dicevamo, ha segnato la storia dell’uomo in ogni epoca. Durante il Medioevo, gli itinerari più noti non potevano che essere quelli religiosi: i pellegrinaggi verso Roma seguendo la via Francigena naturalmente, oppure quelli verso la Terra Santa, o il celeberrimo Cammino di Santiago de Compostela, attraverso il nord della Spagna.

 

E proprio dalla Spagna ci giunge la memoria di uno dei più grandi viaggiatori terrestri dell’Europa del Medioevo. Accanto a colleghi più famosi (pensiamo Marco Polo, che tra l’altro visse un secolo dopo), è doveroso menzionare lo spagnolo Beniamino di Tudela, Nato a Tudela (Regno di Navarra) nel 1130, Beniamino era esponente di spicco della comunità ebraica della città, dove ricopriva la funzione di rabbino. Molto probabilmente era anche dedito ai commerci, attività in cui le comunità giudaiche del tempo eccellevano in tutta Europa. In ogni caso, la data che segnò l’inizio dei suoi viaggi è il 1165, come riferisce lui stesso nel suo diario di viaggio, redatto in ebraico e giunto fino a noi col titolo di “I viaggi di Beniamino”.

 

Da Tudela a Saragozza, l’itinerario proseguì negli anni successivi non solo attraverso la Spagna, ma toccando anche la Francia meridionale, l’intera Penisola italiana da Genova fino a Otranto, sbarcando poi in Grecia e proseguendo in Turchia (allora parti dell’Impero bizantino), in Libano e Palestina, in Persia, poi in Egitto e nord Africa, facendo ritorno in Spagna nel 1173. Una peregrinazione durata ben 8 anni, che abbracciò praticamente tutta l’Europa meridionale e il Medio Oriente, di cui ha lasciato interessanti descrizioni all’interno della sua testimonianza scritta.

 

Ciò che spinse questo avventuroso rabbino a intraprendere un itinerario così lungo, rischioso ma affascinante fu senza dubbio una profonda sete di conoscenza, il desiderio di giungere a contatto con culture differenti, visitare luoghi diversi. Ma si è portati a credere che ad animare lo spirito di Beniamino siano state anche motivazioni pratiche: per esempio, l’esigenza di coltivare ed espandere i suoi commerci, oppure quella di fornire una “guida turistica” per tutti coloro (tantissimi all’epoca) che, ebrei e non, volessero spingersi fino alla Terra Santa per motivi religiosi; a tal proposito, infatti, Beniamino non manca di descrivere, per ogni città visitata, oltre a palazzi, monumenti, climi e paesaggi, anche la comunità ebraica ivi residente, menzionandone il numero dei componenti, le attività praticate e i personaggi di maggiore spicco amministrativo e sociale, fornendo così importanti informazioni per quegli ebrei di che, come lui, volessero trovare ospitalità in un luogo sicuro, in qualunque angolo del Sud Europa si trovassero o, perché no, volessero trovare rifugio in caso di persecuzioni antisemite.

 

Non dimentichiamo, infatti, che proprio a partire dal XII sec. le “cacciate” degli ebrei dagli Stati Europei iniziarono a intensificarsi, fino a raggiungere la massima concentrazione tra il XV e il XVI sec. (Spagna 1492, Regno di Napoli 1541 ecc.). La ricchezza descrittiva di natura geografico-antropologica e l’attendibilità dei suoi resoconti hanno fatto la fortuna dell’opera di Beniamino: il fatto di essere stato testimone diretto, di aver visto coi propri occhi, di aver udito con le proprie orecchie realtà così eterogenee spingendosi da un capo all’altro del mondo fino ad allora conosciuto (ribadiamo che Marco Polo avrebbe condotto la sua impresa un secolo dopo) contribuisce a farne un personaggio cosmopolita del XII sec., tra una lingua e l’altra (era ampiamente poliglotta), tra deserti e montagne, tra mari e fiumi, tra vassalli ed emiri, sinagoghe, cattedrali e moschee.

 

Si calcola avesse visitato più di 300 centri urbani, e tra questi le città più importanti del tempo: Barcellona, Marsiglia, Genova, Roma, Napoli, Salonicco, Costantinopoli, Gerusalemme, Damasco, Baghdad, Il Cairo, Alessandria d’Egitto.

 

Di Roma, in particolare, egli descrive la comunità ebraica locale, composta da 200 anime, probabilmente da intendersi come 200 “capifamiglia”, ciascuno dei quali con consorte e prole, molto rispettata e di cui molti esponenti ricoprivano importanti uffici al soglio di papa Alessandro III. Ma si sofferma anche a descrivere, con una certa precisione, le vestigia dell’antico Impero che all’epoca nonostante le devastazioni subite e l’inesistente coscienza archeologica potevano ammirarsi, segni di un glorioso passato.

 

Un resoconto, il suo, che rappresentò un best seller della letteratura di viaggio: basti pensare dall’ebraico, in cui venne redatto, fu tradotto in latino (la lingua franca del Medioevo) e poi, con la nascita degli Stati moderni, anche nelle principali altre lingue europee, ed ebbe particolare diffusione, non a caso, nel XVI sec, in concomitanza con l’espandersi degli itinerari commerciali e in generale delle esplorazioni nel mondo. Una delle traduzioni più recenti ben corredata da mappe e indicazioni geografiche, è in inglese, e risale al 1907.

 

Un viaggiatore “moderno”, Beniamino di Tudela, che vedeva in una cultura, in una lingua, in una religione diversa motivo di confronto e di arricchimento, non di scontro e intolleranza. Un esempio, oggi più che mai, da tener presente.



 

 

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