Sui benefici (globali) del non
mangiar carne
E SE DIVENTASSIMO TUTTI VEGAN?
di Simone
Valtieri
“Spero che tutti assieme riusciremo
a unirci davvero per portare dei
cambiamenti. È bello votare, ma a
volte dobbiamo prenderci le nostre
responsabilità e fare dei sacrifici
nelle nostre stesse vite”. A
pronunciare tali parole è stato il
pluripremiato attore Joaquin Phoenix
in occasione degli ultimi Golden
Globe, manifestazione che si svolge
durante una sfarzosa cena di gala
accompagnata quest’anno da un menù
rigorosamente vegano. Ma serve
davvero eliminare la carne dalla
nostra alimentazione per risolvere i
problemi ambientali che affliggono
l’epoca in cui viviamo, come
suggerito da molti scienziati e
dalla giovane paladina ambientalista
Greta Thunberg? E cosa accadrebbe se
tutti gli abitanti del pianeta
intraprendessero una dieta
vegetariana?
Limiti naturali
In primo luogo è bene precisare che
non tutti potrebbero seguire
un’alimentazione “verde”, sia per
motivi di salute – poiché
impossibilitati ad assimilare fibre
vegetali – sia per questioni di
habitat e sussistenza. Alcuni popoli
(un centinaio di milioni di
individui tra cui eschimesi,
beduini, berberi e mongoli, per
citare i più noti) non hanno infatti
accesso a risorse “vegetali”,
vivendo in aree prevalentemente
aride o ghiacciate. In passato si è
anche provato a riconvertire
all’agricoltura alcune zone
estremamente inospitali, come la
vastissima striscia del Sahel
(3.000.000 di km quadrati tra
l’equatore e il deserto del Sahara),
ma senza successo e con pesanti
conseguenze per le economie locali,
basate sulla pastorizia. Al netto di
tali eccezioni, gli altri 7,4
miliardi di terrestri potrebbero
facilmente intraprendere la scelta
vegetariana, ma non in modo
uniforme. Se nel mondo occidentale
non ci sarebbero grosse
controindicazioni, in quanto
l’impianto economico assorbirebbe la
rivoluzione verde entro il 2050
(stando a uno studio dell’Università
di Oxford), i problemi arriverebbero
per chi abita nel resto del pianeta,
soprattutto in aree sovraffollate e
non in grado di sostenere con i soli
vegetali il fabbisogno della
popolazione. Il nodo sta nel
rimpiazzare un prodotto come la
carne (fonte di proteine facilmente
reperibile e meno subordinata ai
cambiamenti climatici) con legumi,
cereali e verdure, circostanza che
comporterebbe peraltro un aumento
dei terreni coltivati. Dei 5
miliardi di ettari potenzialmente
coltivabili sulla Terra, infatti,
circa 3,4 miliardi (il 68%) è oggi
utilizzato per l’allevamento, e di
questi solo 4/5 sarebbero
convertibili a terreno agricolo per
sfamare persone e animali. A conti
fatti, si potrebbero dedicare alla
coltivazione 4,3 miliardi di ettari.
Ma sarebbero sufficienti a produrre
la quantità di proteine proveniente
oggi dagli allevamenti?
Dalla bistecca ai burger di soia
Se ipotizziamo di coltivare ogni
terreno con la soia la risposta è
sì, e ne basterebbero anche meno.
Quanto ai costi, il mantenimento di
una mucca oscilla tra i 500 e i 900
euro annui (un esemplare da latte
beve 200 litri d’acqua al giorno,
ossia all’incirca 73.000 litri
l’anno), considerando tra l’altro
che solo il 42% del corpo del bovino
è commestibile, per una media di 50
kg di proteine e 25 kg di grassi. In
termini di kcal proteiche, una mucca
ne fornisce circa 200.000, e visto
che la normativa europea prevede si
possano allevare due esemplari per
ogni ettaro, il risultato è di
400.000 kcal per ettaro. Per quanto
riguarda la soia, invece, laddove è
possibile coltivarla, un ettaro
richiede una spesa che si aggira sui
1.400 euro l’anno con una resa di
circa 3.600 kg di prodotto finale.
Considerando che in un kg di soia ci
sono 130 grammi di proteine, pari a
520 kcal proteiche complessive, alla
fine dell’anno ne risulteranno 1,87
milioni: circa il 468% in più
rispetto alla carne, a fronte di una
spesa maggiorata solo del 65%.
Peraltro, oggi nel mondo si produce
carne in quantità nettamente
superiore poiché gli standard etici
non sono presenti ovunque o non
vengono rispettati, con conseguente
ricorso a un numero ingente di
allevamenti intensivi, responsabili
secondo Greenpeace di circa il 15%
delle emissioni globali di PM
(particolato). L’unica vulnerabilità
in tale meccanismo è che le
monocolture, a lungo andare,
depauperano il terreno diminuendone
la biodiversità, ed è necessario
ruotare le coltivazioni per
mantenerlo fertile. Per cui, dopo
alcuni raccolti, occorrerebbe
variare la nostra fonte di proteine
seminando piante diverse.
Mutamenti economici
Se invece decidessimo di mantenere
gli allevamenti e convertirli al
consumo dei derivati, i problemi
riguarderebbero la quantità di latte
prodotto, inferiore a quello attuale
dacché buona parte sarebbe destinata
alla nutrizione dei vitelli non più
macellati. Di contro, ci sarebbe
sicuramente un incremento del prezzo
di latticini e formaggi, che
diventerebbero quasi un bene di
lusso, nonché la difficoltà nel
“ricollocare” 3,5 miliardi di
ruminanti (tale è la popolazione
globale) in natura, dove molti
esemplari non sopravvivrebbero per
l’incapacità di procurarsi cibo,
soprattutto nelle stagioni più
fredde, o perché predati da altri
animali (e un discorso analogo
andrebbe fatto per i 10 miliardi di
“polli” al fine di mantenere la
produzione delle uova). Un altro
problema, nel caso di una repentina
svolta vegetariana, sarebbe di
natura economica. Se tutti
diventassimo vegetariani, nel mondo
occorrerebbe infatti ricollocare
circa 38 milioni di pescatori e 570
milioni di allevatori
nell’agricoltura o in altri settori.
Ma – dal punto di vista della salute
– ci guadagneremo tutti, visto che
andremmo incontro a una concreta
riduzione delle morti per cancro e
per malattie cardiovascolari, dovute
a un eccessivo consumo di carne
rossa, globalmente quantificabile
tra il 6% e il 10% (5-8 milioni di
vite salvate ogni anno). E questo
con un risparmio di circa il 2-3%
del prodotto interno lordo globale
in termini di minori spese
sanitarie.
Dieta salutare
Un passo decisivo, nell’analisi di
una rivoluzione vegetariana o
addirittura vegana, è comprendere se
sia adatta a tutti dal punto di
vista biologico, e la buona notizia
è che, almeno nel primo caso, non
esistono difficoltà insormontabili,
mentre nel secondo serve qualche
accorgimento. Per il resto le
problematiche sarebbero risolvibili:
«L’aumento di fibra alimentare che
una dieta vegetariana porta con sé
ha un impatto rilevante in primis
sulla flora intestinale, ma anche
sulla sensazione di fame e sazietà,
e contrariamente a quanto si possa
pensare, se l’alimentazione
vegetariana continuasse ad apportare
tutti i nutrienti necessari
all’organismo, i cambiamenti a
livello fisiologico sarebbero
minimi», spiega Francesca Scazzina,
Professoressa di Fisiologia
all’Università di Parma. Nel
dettaglio, considerando che la
quantità adeguata di proteine è di
0,9 grammi per Kg di peso corporeo,
un uomo di 80 kg necessita di circa
72 grammi di proteine al giorno, più
un 10% dovuto alla minore
digeribilità delle proteine
vegetali, per un totale di circa 79
grammi, che si possono facilmente
assumere anche mangiando pasta,
legumi, latte, uova e yogurt. «Molte
proteine vegetali possono integrarsi
perfettamente tra loro garantendo un
adeguato apporto di tutti gli
amminoacidi, e nel contesto di una
dieta vegetariana equilibrata non si
riscontrano carenze rilevanti di
nutrienti», prosegue l’esperta. «Al
limite, può essere utile integrare
gli acidi grassi omega-3 con
l’introduzione delle alghe
nell’alimentazione». Diverso sarebbe
il discorso per quanto riguarda una
dieta vegana, cioè priva di prodotti
come latte, formaggi e uova. “In tal
caso sarebbero necessari diversi
accorgimenti», aggiunge la
Professoressa. «Servono infatti
Omega 3, ma anche fonti affidabili
di vitamina B12, calcio, ferro e
zinco, reperibili in verdure con un
basso contenuto di ossalati e fitati,
bevande vegetali fortificate, frutta
oleosa, semi e acque minerali ricche
di calcio. L’assenza di tali
elementi potrebbe comportare carenze
nutrizionali soprattutto in bambini,
anziani, e nelle donne in gravidanza
e allattamento».
Un ambiente migliore
Non si hanno infine dubbi circa i
benefici che un mondo totalmente
vegetariano porterebbe all’ambiente
visto che le emissioni di gas serra
si ridurrebbero di un terzo.
Attualmente – secondo i dati
dell’ONU – il 14% dell’anidride
carbonica prodotta sul pianeta
deriva dalla filiera delle carni e
il 10% dall’agricoltura. Marco
Springmann, ricercatore
dell’Università di Oxford, ha
calcolato che se tutti smettessimo
di mangiare “ciccia”, entro il 2050
le emissioni dovute alla produzione
di cibo crollerebbero del 60%,
arrivando addirittura al 70% se la
nostra dieta fosse totalmente
vegana. Rispetto ai gas serra
globalmente prodotti sarebbe ancora
poca cosa, visto che resterebbe un
76% complessivo generato dalla
produzione di energia (35%),
dall’Industria (21%), dai trasporti
(14%) e dalle costruzioni (6%), ma
in un mondo sensibilizzato al
problema, la svolta vegetariana
sarebbe probabilmente accompagnata
da altre scelte coerenti in ognuno
di questi settori. Certo, qualcosa
perderemmo con una decisione tanto
radicale e rivoluzionaria: il cibo
di origine animale è legato
all’identità culturale di molti
popoli tramite innumerevoli
tradizioni e piatti tipici, nonché
festività religiose o addirittura ai
riti di passaggio, soprattutto nelle
popolazioni indigene di Sud America,
Africa, Asia e Oceania. I ristoranti
sarebbero infine costretti a
reinventarsi, da chi fa hamburger a
chi serve sushi. A ogni modo, un
mondo come quello immaginato da
Greta e Joaquin, ma anche da Paul
McCartney e Lewis Hamilton, solo per
citare altre celebrità attive per la
causa, è molto più facile da
raggiungere di quanto si pensi. Sul
lato alimentare, per esempio,
basterebbe un consumo più etico
della carne (una o due volte a
settimana al massimo) per abbattere
il numero di allevamenti e colture
intensive, e ridurre notevolmente le
emissioni globali (nel solo Regno
Unito, secondo un recente studio,
crollerebbero del 17%). In sostanza,
se da domani tutti mangiassimo un
po’ meno carne, il mondo di
dopodomani ne trarrebbe sicuramente
beneficio.