RICORDANDO BENEDETTO CROCE
I CHIAROSCURI DI UN PENSATORE
di Gaetano Cellura
Dopo Vico, la filosofia parve morta
in Italia; e se non proprio morta,
certamente inaridita. Se ne poteva
attribuire la causa alla lealtà
degli italiani alla Chiesa e alla
teologia cattolica, a cui anche
Benedetto Croce fu educato finché
gli interessi filosofici ne presero
arditamente il posto.
Scriverà nell’Estetica, nella
“sua stupenda Estetica” per dirla
con Borges, che la filosofia toglie
alla religione ogni ragione di
esistere perché la considera “un
fenomeno, un fatto storico
transitorio, una condizione psichica
superabile”. E voterà contro il
Concordato sia nel 1929 che
all’Assemblea Costituente.
Piero Gobetti, il quale non
sopravvisse alle bastonate dei
fascisti, poté prendere in esame i
primi trent’anni dell’attività
culturale di Croce. E scrisse su
Rivoluzione liberale che l’autore
dell’Estetica “dopo gli
infelici tentativi del Risorgimento,
è stato il più perfetto tipo europeo
espresso dalla nostra cultura”.
Amante in pari misura della poesia,
della filosofia e della storia;
critico letterario e prosatore di
elevata statura; antidannunziano
infaticabile, Croce – di cui a
novembre 2022 ricorre il
settantesimo anniversario della
morte – è personaggio assai noto e
venerato (dalla gioventù italiana in
specie) per raccontarne qui l’intera
vita, valutarne l’intera opera e
anche l’impegno politico. Brevemente
si può dire che fu senatore e
Ministro della Pubblica Istruzione;
contrario alla prima guerra mondiale
nella quale vedeva il suicidio dello
spirito europeo; oppositore del
fascismo dopo averlo nei primi tempi
indulgentemente sostenuto;
favorevole alla monarchia
ritenendola, da liberale
conservatore, il principale
baluardo, dopo l’8 Settembre,
all’avanzata del comunismo in
Italia.
A Pompei incontrò Maria Josè di
Savoia. E in quel luogo lontano da
ogni sospetto e da ogni clamore
parlarono dell’Italia e del
fascismo. Poi la principessa gli
chiese cosa pensavano gli italiani
della monarchia. Croce rispose che
lo spirito monarchico non era
spento, ma che per farlo divampare
occorreva un gesto risoluto: le
dimissioni di Vittorio Emanuele III.
Con la caduta del fascismo la sua
casa di Napoli divenne “casa aperta”
(come la chiamerà suo genero: lo
scrittore Gustaw Herling): aperta
agli ufficiali americani, ai
funzionari dello Stato e ai
corrispondenti di guerra che gli
chiedevano lumi sulla difficile
situazione italiana. E c’era chi lo
vedeva come primo Presidente del
Consiglio della nuova Italia.
Era stata la lettura della Storia
d’Europa nel secolo decimonono,
pubblicata dal suocero nel 1932, a
educare Herling alla crociana
“religione della libertà”.
“Religione” atea. Libertà come
ideale morale, senza Dio. Libro
prontamente messo all’Indice dalla
Chiesa.
All’Università di Roma, tanti anni
prima, Croce aveva conosciuto il
professore Antonio Labriola che
provò ad avviarlo allo studio del
materialismo marxista. Ma pur
apprezzando questa teoria, Benedetto
si tenne lontano dal riconoscerla
come una filosofia adulta. Poiché
per lui non esisteva altra filosofia
che quella dello spirito, dello
studio dell’universo astratto e del
“concetto puro” come pensiero da
applicare a ogni realtà. Questo vuol
dire che ogni idea doveva essere
ideologica il più possibile e che la
teoria doveva prevalere sulla
pratica negli aspetti della vita.
Una filosofia per Will Durant,
autore dell’opera Gli eroi del
pensiero, più propensa a
confutare che a conchiudere. E
chiara “come una notte senza
stelle”.
Giudizio negativamente uguale a
quello di Gaetano Salvemini. Che
confessa, con dolore ma senza
vergogna, di non aver capito nulla
della filosofia di Croce. E di
ritenerne astratto l’ideale di
libertà, esistito soltanto nella sua
mente.
Il filosofo napoletano, napoletano
d’elezione essendo nato a
Pescasseroli, fu talmente
influenzato dal primato
dell’estetica da vedere la storia
come un’opera d’arte. Ridusse la
distanza tra il liberalismo e la
democrazia, che in un primo momento
riteneva inconciliabili, ma così
facendo lo separò dal liberismo
economico. Il che portò il suo
pensiero politico su posizioni
ambigue.
La sua più importante opera politica
è Etica e politica. In cui
contesta sì l’idea dello Stato etico
di Gentile (con cui nel 1903 aveva
dato vita alla rivista La Critica):
ma resta persuaso che la “mera
politica” non può non essere elevata
all’etica. In sostanza, per quel che
se ne capisce, no allo Stato etico
ma pure a uno Stato privo di etica.
Perché si ridurrebbe nel pensiero di
Croce a uno Stato senza un suo
valore e significato di cultura, a
semplice cura dei rapporti sociali,
a sola “sintesi di forza e consenso,
di autorità e libertà”.
Definì la Destra Storica che risanò
le finanze del giovane Regno
d’Italia un’aristocrazia spirituale
di uomini integri e leali.
Completamente opposto e quasi senza
appello invece il suo giudizio su
Crispi. Il cui periodo di governo
ritenne “disastroso, una battuta
d’arresto nel normale sviluppo in
senso liberale del paese” (da Storia
d’Italia 1861-1969 di Denis Mack
Smith).
Tra le critiche che gli vengono
mosse, oltre a quelle (già dette)
d’una certa oscurità riguardo al
pensiero filosofico, una è riferita
al suo lusinghiero giudizio politico
su Giolitti. Come altri liberali che
insieme a lui collaborarono con lo
statista piemontese, Croce scambiò
il benessere personale con quello
del paese. Sull’orlo invece della
rivoluzione sociale.
La seconda critica sa proprio di
vera accusa. A Croce non viene
perdonato di non aver fatto valere
la propria autorità culturale e
morale per ostacolare l’ascesa del
fascismo al potere. Sbagliò a
ritenerlo, ancora a distanza di
tempo e dopo la sua caduta, “uno
smarrimento di coscienza, una
depressione civile e un’ubriacatura
prodotta dalla guerra”. Per lui il
fascismo era un fenomeno venuto da
fuori e dal Nord sceso nel sud
Italia, senza un programma politico
e dunque destinato a esaurirsi in
poco tempo. Solo dopo l’omicidio di
Matteotti si rese finalmente conto
dei suoi errori di valutazione
politica.
Nel 1938 si oppose alle Leggi
razziali. Ma aveva prima suscitato
scandalo presso gli antifascisti il
suo gesto di donare alla patria la
medaglietta di senatore per la
“Giornata della fede” durante la
guerra d’Etiopia.
Croce non ricoprì alcuna carica
accademica. La sua influenza nel
mondo della cultura fu tuttavia
enorme. Alcuni lo consideravano un
papa laico; altri un re-filosofo
senza corona. Per Emilio Cecchi, con
l’Estetica di Croce inizia
quel nuovo cammino che farà
ritrovare alla cultura italiana i
suoi “legami vitali con De Sanctis e
con Vico”.
Negli ultimi tempi si vedeva don
Benedetto uscire di casa, con il
bastoncino, per recarsi spesso nelle
librerie antiquarie. Era molto
amato. E quando morì quasi tutta
Napoli partecipò al suo funerale.
Dieci anni prima, ed era tempo di
guerra, risvegliatosi dopo la
mezzanotte, il filosofo si chiedeva
«Perché non possiamo non dirci
“cristiani”», che diventerà il
titolo di un suo breve scritto nei
Taccuini di lavoro. E si pensò che
la sensibilità cattolica della
moglie avesse a un certo punto
influito su di lui, facendogli
riconsiderare le agnostiche
convinzioni.
Ma il termine “cristiani” posto tra
virgolette e soprattutto la risposta
di Croce fugano ogni dubbio. Non
possiamo non dirci cristiani perché
sostanzialmente il Cristianesimo è
la più grande rivoluzione nella
storia dell’umanità. Nulla nelle
epoche storiche regge il confronto
con la sua vittoria, non solo
spirituale. Nulla per Croce aveva la
capacità, all’infuori dei principi
cristiani, di contrastare il
neopaganesimo nazista e l’ateismo
comunista.