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arte


N. 105 - Settembre 2016 (CXXXVI)

«Fu una bellissima invenzione»
Sulle origini della pittura a olio

di Federica Campanelli

 

La tecnica di pittura a olio, affermatasi e perfezionata dapprima in ambiente fiammingo nel XV secolo, poi diffusa con successo in tutta Europa – non senza il contributo italiano di Antonello da Messina –, è tra le più apprezzate tecniche pittoriche della storia dell’arte. Deve la sua definizione al particolare legante impiegato, ossia l’olio siccativo, un olio di origine vegetale – principalmente di semi di lino, di noce e di papavero – in grado di formare, in tempi più o meno lunghi, un film sottile, semitrasparente e dal carattere elastico, grazie al processo di polimerizzazione innescato dall’esposizione all’ossigeno contenuto nell’aria.

 

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Jan e Hubert van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico,

particolare con Adamo, 1424-32, olio su tavola. Gand, cattedrale di San Bavone.

 

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Jan van Eyck, Ritratto di uomo con turbante rosso, 1433,

olio su tavola. Londra, National Gallery.

 

 

Antonello da Messina, Ritratto d’ignoto marinaio, 1465 -76 ca.,

olio su tavola. Cefalù (Palermo), Museo Mandralisca.

 

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Antonello da Messina, Annunciata di Palermo, 1476,

olio su tavola. Palermo, Palazzo Abatellis.

 

Nelle sue Vite (1550), Giorgio Vasari promuove con giustificato fervore la “nuova” tecnica pittorica: lui, che è anche artista fecondo, bene intuisce i vantaggi che la pittura a olio è in grado di apportare all’opera d’arte, specie in termini di vivacità e varietà cromatica, sfumato e contrasto chiaroscurale:

 

«Fu una bellissima invenzione e una gran comodità all’arte della pittura il trovare il colorito a olio […] Questa maniera di colorire accende più i colori, né altro bisogna che diligenza e amore, perché l’olio in sé si reca il colorito più morbido, più dolce e dilicato e di unione e di sfumata maniera più facile che li altri […] i colori si mescolano e si uniscono l’uno con l’altro più facilmente; et insomma li artefici danno in questo modo bellissima grazia e vivacità e gagliardezza alle figure loro, talmente che spesso ci fanno parere di rilievo le loro figure e che ell’eschino dalla tavola […]».

 

La possibilità di utilizzare l’olio come legante pittorico è, in realtà, abbastanza nota fin dai primi secoli del Basso Medioevo. Esiste, infatti, una trattazione dell’argomento nell’antico testo del monaco Teofilo Diversarum Artium schedula (XII secolo), ricettario redatto in tre volumi dedicato alle principali discipline artistiche: pittura, lavorazione del vetro e oreficeria. Tuttavia, i lunghi tempi di essiccamento tipici degli oli vegetali adoperabili in pittura rappresentano, in un primo momento della storia, una condizione percepita come sfavorevole dagli artisti. Ecco perché l’olio, inteso come medium puro, non ha immediatamente un buon riscontro, venendo piuttosto utilizzato nelle imprimiture o come additivo nelle vernici e nelle tempere.

 

La pittura a olio è, invece, frutto di secoli di sperimentazione e di una graduale semplificazione delle varie ricette messe a punto dai pittori nel corso del tempo; essa, di fatto, rappresenta l’evoluzione delle tempere, nella fattispecie, delle tempere “grasse”, ancora di largo uso nel Quattrocento. Adoperata essenzialmente su supporto ligneo, la tempera grassa si distingue per la presenza di leganti pittorici a base di complesse emulsioni oleo-resinose, in cui l’elemento principale rimane, comunque, l’uovo (intero o solo tuorlo).

 

Nel corso del tardo Rinascimento, ciò che un tempo si configurava come un inconveniente si tramuta, all’opposto, in un enorme vantaggio: diversamente dal buon fresco, dalla pittura a calce e dalle tradizionali tempere, specie le “magre” (cioè quelle che prevedono leganti quali caseina, gomme e colle vegetali o animali), caratterizzati da rapidi o rapidissimi tempi di presa, la pittura a olio, in virtù delle sue caratteristiche chimico-fisiche, consente una maggiore e prolungata lavorabilità della materia, così da poter sfumare efficientemente le tinte, ottenere ombre più profonde e chiari più brillanti e conferire maggiore plasticità alle figure riprodotte. Non solo, date le peculiarità ottiche, i colori a olio si prestano molto bene alla stesura per velature sovrapposte, espediente che permette di virare la tonalità delle stesure cromatiche.

 

Adottata, tra gli altri, da Leonardo da Vinci (che era solito dipingere, per spirito di sperimentazione, con una tecnica mista di tempera e olio), gli effetti della velatura sono da lui descritti nell’opera dal titolo Trattato della pittura, pubblicata postuma intorno al 1550:

 

«Quando un colore trasparente è sopra un altro colore variato da quello, si compone un colore misto diverso da ciascuno dei semplici che lo compongono […] E così il paonazzo dato sopra l’azzurro si fa viola; e quando l’azzurro sarà dato sopra il giallo egli si fa verde: ed il croco sopra il bianco si fa giallo, ed il chiaro e lo scuro saranno eccellenti […]».

 

Il passaggio definitivo all’olio come medium prediletto è accompagnato da un’altra innovazione tecnica che ha dell’epocale, in questo caso concernente il supporto del dipinto: il progressivo abbandono della tavola in favore della tela montata su telaio. Ecco nascere il fortunato binomio “olio su tela” a cui tanto siamo abituati. Oltretutto, la flessibilità della tela è una caratteristica che ben si sposa con l’elasticità della pellicola pittorica trattata con medium oleoso.

 

L’introduzione della tela per i dipinti mobili – se si esclude la pittura su stoffa (vessilli, gonfaloni, stendardi, ecc.) – è da ricondurre ai fiamminghi, ma la sua diffusione in Italia, verificatasi tra Quattro e Cinquecento, passa per l’ambiente veneziano. Qui, il nuovo supporto tessile rappresenta la migliore risposta alle specifiche esigenze dettate dalle condizioni microclimatiche locali, dove tassi di elevata umidità di certo non potevano garantire un’idonea conservazione per le opere realizzate su supporto ligneo o murario; al contrario, la tela, non senza specifici (ma semplici) trattamenti, può garantire maggiore durabilità.

 

È per tal motivo che proprio a Venezia è nata la tradizione dei maestosi teleri, dipinti eseguiti a olio o a tempera oleo-resinosa su supporti tessili – principalmente di lino – montati su telai di enormi dimensioni, atti a surrogare le grandi superfici affrescate. È una soluzione semplice e versatile, basti pensare alla possibilità di ricavare il formato più idoneo al contesto, nonché la facilità con cui questo tipo di opera può essere rimossa e traslata, basta smontare il supporto dal telaio.

 

Magistrale esempio di questa tradizione è il ciclo di nove teleri sulle Storie di Sant’Orsola eseguito tra il 1490 e il 1495 da Vittore Carpaccio, tra i maggiori esponenti del Rinascimento veneziano, per l’omonima confraternita con sede a Venezia.

 

 

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Vittore Carpaccio, Apoteosi di Sant’Orsola e delle sue compagne,

secondo episodio del ciclo Storie di Sant’Orsola, 1491, tempera su tela

(dimensione del telero 481x336 cm). Venezia, Gallerie dell’Accademia.

 

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Vittore Carpaccio, Arrivo degli ambasciatori inglesi alla corte del re di Bretagna

settimo episodio del ciclo Storie di Sant’Orsola, 1495 ca.,

olio su tela (dimensione del telero 275×589 cm). Venezia, Gallerie dell’Accademia.



 

 

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