N. 136 - Aprile 2019
(CLXVII)
SULLA BREVE VITA DEL SETTIMANALE
SATIRICO
ANTIFASCISTA IL
BECCO
GIALLO
LE
GIRAVOLTE
POLITICHE
DELL’INESAURIBILE
ALBERTO
GIANNINI
-
PARTE
II
di
Francesco
Cappellani
Le
leggi
sulla
stampa
promulgate
dal
fascismo
e
codificate
nelle
“Disposizioni
sulla
stampa
periodica”
della
legge
del
31
dicembre
1925,
sono
il
naturale
sbocco
della
dittatura
che
Mussolini
intende
imporre
per
depotenziare
lo
stato
democratico.
Dopo
l’assassinio
del
sacerdote
don
Giovanni
Minzoni
nel
1923,
le
aggressioni
ad
Amendola
e
Piero
Gobetti
e
soprattutto
l’uccisione
di
Giacomo
Matteotti
il
10
giugno
1924,
a
seguito
del
suo
violento
discorso
alla
Camera
del
30
maggio
dove,
dopo
avere
tuonato
contro
ogni
illegalità
e
sopraffazione,
aveva
detto
«Mai
tanto,
come
nell’anno
fascista,
l’arbitrio
si è
sostituito
alla
legge,
lo
Stato
asservito
alla
fazione,
e
divisa
la
nazione
in
due
ordini,
dominatori
e
sudditi»,
si
alzano
fortissime
le
proteste
dei
giornali
antifascisti.
Il
Becco
Giallo
pubblica
una
vignetta
che
rappresenta
un
Mussolini
animalesco,
seduto
a
gambe
larghe
e
occhi
sgranati
su
una
bara
col
nome
“Matteotti”,
immagine
molto
più
incisiva
e
convincente
nella
sua
feroce
brutalità
di
un
qualsiasi
commento
sui
mandanti
e le
ragioni
del
delitto.
Il
Duce
domina
a
fatica
la
situazione
supportato
dai
suoi
scherani,
come
il
fascista
Ermanno
Amicucci,
segretario
generale
del
sindacato
fascista
dei
giornalisti
che
scrive:
«le
forze
dell'antifascismo
impegnavano
la
suprema
battaglia
contro
Mussolini,
prendendo
a
pretesto
l'uccisione
del
deputato
socialista
Matteotti:
e fu
soprattutto
una
battaglia
di
stampa,
una
vasta,
imponente,
accanita
battaglia
giornalistica,
in
cui
il
livore,
l'odio,
il
rancore,
l'impotenza
del
vecchio
mondo
ormai
condannato
a
sparire
tentarono
di
seppellire
la
Rivoluzione
sotto
una
valanga
di
carta
stampata
(…)
li
avvenimenti
decidevano
alfine
il
governo
fascista
a
rompere
gli
indugi
e a
risolvere
legalmente
la
situazione
resa
insostenibile
dalla
vergognosa
condotta
dei
giornali
di
opposizione.
La
giusta,
doverosa,
santissima
reazione
comincia
con
il
R.
Decreto
Legge
(…)».
La
“santissima
reazione”
produce
le
leggi
“fascistissime”
per
abolire
i
sindacati
e i
partiti,
la
creazione
della
polizia
politica
segreta
(OVRA)
e
del
Tribunale
Speciale,
il
confino
o il
carcere
per
gli
oppositori,
viene
eliminata
ogni
possibilità
di
dissenso
ponendo
le
basi
per
l’inizio
di
una
dittatura
intesa
a
convincere
gli
italiani
della
bontà
del
regime
e
delle
doti
eccezionali
del
Duce,
che
va
osannato
sempre
e
comunque.
Chiaramente
non
c’è
più
spazio
per
i
giornali
d’opposizione
democratica
e,
grazie
anche
a
una
certa
acquiescenza
delle
classi
operaie
e
imprenditoriali,
negli
anni
successivi
la
presa
di
potere
del
fascismo
diviene
definitiva
e
inattaccabile.
Il
10
ottobre
1928
Mussolini
si
rivolge
ai
direttori
delle
varie
testate
giornalistiche
sopravvissute
alla
censura
fascista
dicendo:
«Questa
importante
riunione
dei
giornalisti
del
Regime
avviene
soltanto
alla
fine
dell’anno
sesto.
Voi
vi
rendete
conto
che
non
poteva
avvenire
prima,
perché
solo
dal
gennaio
1925,
e
più
specificatamente
in
questi
ultimi
due
anni,
è
stato
affrontato
e
risolto
quasi
completamente
il
problema
della
stampa
fascista.
In
un
regime
totalitario
(…)
la
stampa
è un
elemento
di
questo
regime,
una
forza
al
servizio
di
questo
regime.
(…)
Ecco
perché
tutta
la
stampa
italiana
è
fascista
(…).
La
stampa
più
libera
del
mondo
intero
è la
stampa
fascista
(...).
Il
giornalismo
italiano
è
libero,
perché
serve
soltanto
una
causa
ed
un
Regime
(...)».
E il
già
citato
Amicucci
replica
affermando
«(…)
solo
nell’Italia
fascista
la
stampa
antepone
recisamente
agli
individui
ed
ai
gruppi
il
Paese
e
serve
unicamente
il
Regime
che
si
identifica
con
lo
Stato
e la
Nazione».
Giannini
non
si
arrende,
nel
1926
fonda
un
altro
giornale,
L’attaccabottoni,
che
viene
chiuso
per
censura
dopo
pochi
numeri
e il
direttore
condannato
a
cinque
anni
di
confino.
Riesce
a
evadere
e
raggiunge
la
Francia
rifugiandosi
a
Parigi
dove
si
aggrega
con
i
tanti
fuoriusciti
italiani,
tra
cui
i
fratelli
Rosselli,
Filippo
Turati,
Claudio
Treves,
Bruno
Buozzi,
Pietro
Nenni,
Giuseppe
Saragat
e
molti
altri,
tra
cui
gli
ex-direttori
dei
giornali
antifascisti
soppressi
come
Cianca
e
Schiavetti.
Nell’agosto
del
1927
Giannini
fonda,
o
meglio
rifonda
in
Francia
Il
Becco
Giallo
avendo
come
condirettore
Alberto
Cianca,
grazie
anche
all’aiuto
finanziario
di
10.000
franchi
da
parte
di
Turati.
Nel
primo
numero,
in
un
aggressivo
editoriale
intitolato
“Ripresa”
spiega
che
“Il
fascismo
ha
paura
della
verità
e
del
controllo.
Esso
ha
bisogno
di
nascondere
i
suoi
errori
e i
suoi
delitti,
per
sfuggire
alle
sanzioni
dell’opinione
pubblica
e
della
legge.
Per
questo
ha
soppresso
violentemente
la
stampa.
Il
popolo
italiano
non
conosce
più
che
la
menzogna
ufficiale:
esso
è
separato
da
se
stesso
e
dal
mondo
(…).
Il
fascismo
si
illude
di
soffocare
la
verità
sotto
il
peso
delle
sue
leggi
faziose,
del
suo
mostruoso
congegno
di
polizia
e
della
milizia
armata,
negli
esili,
nelle
carceri,
nei
domicili
coatti”.
Attraverso
mille
difficoltà
il
nuovo
Becco
Giallo
arriva
anche
in
Italia
spedito
in
buste
anonime
o
con
finte
intestature
commerciali
e
contribuirà
efficacemente
alla
propaganda
clandestina
in
Italia.
Oltre
all’attività
di
giornalista
in
quegli
anni
Giannini
svolge
anche
inchieste
intese
a
smascherare
elementi
infiltrati
tra
i
fuorusciti
responsabili
di
doppiogiochismo
contro
il
fronte
antifascista.
Dopo
due
anni
Il
Becco
Giallo
è
costretto
a
chiudere
per
problemi
finanziari
malgrado
l’aiuto
economico
che
nel
1930
gli
viene
dato
da
“Giustizia
e
Libertà”,
il
movimento
antifascista
creato
da
Carlo
Rosselli
nell’ottobre
del
1929,
che
si
riconosce
nelle
linea
politica
del
giornale
almeno
sulla
lotta
per
abbattere
il
fascismo,
anche
se
non
ne
sarebbe
diventato
l’organo
ufficiale.
Ma i
dissensi
crescenti
tra
Rosselli,
in
pratica
il
solo
finanziatore
del
giornale,
e
Giannini
sia
a
livello
redazionale
che
politico
portano
rapidamente
alla
cessazione
delle
pubblicazioni
il
primo
agosto
1931.
In
realtà
Giannini,
da
un
lato
–
come
scriverà
nel
suo
libro
di
memorie
pubblicate
nel
1934
–
aveva
constatato
che
tra
i
fuorusciti
vi
erano
dei
profondi
dissidi
dovuti
alle
diverse
visioni
politiche
che
andavano
dal
socialismo
Turatiano,
al
socialismo
liberale
non
marxista
di
Rosselli
derivato
dal
laburismo
inglese,
alle
istanze
dei
repubblicani,
dall’altro
stava
probabilmente
già
maturando
un
diverso
atteggiamento
nei
confronti
del
fascismo
“tentato
dal
realismo
di
un
ribaltamento
delle
posizioni
ideologiche
da
cui
sino
ad
allora
gli
era
derivata
un’esistenza
talmente
grama”.
Gaetano
Salvemini,
parlando
del
gruppo
dei
fuoriusciti
a
Parigi,
ricorda
che
«Alberto
Giannini
era
il
più
faceto
della
compagnia,
finché
non
passò,
nel
1934,
dalla
sera
alla
mattina,
armi
e
bagagli,
nel
campo
dei
fascisti,
il
più
svergognato
caso
di
voltafaccia
che
io
abbia
mai
visto
».
Giudizio
implacabile
e
severo,
ma
occorre
anche
pensare
alla
situazione
familiare
di
Giannini
che,
chiuso
il
suo
giornale,
si
trova
senza
un
soldo
con
moglie
e
tre
figli
da
mantenere
a
cui
si
era
aggiunta
la
vecchia
madre
e
due
sorelle
che,
ridotte
in
miseria
a
Roma,
lo
avevano
raggiunto
in
Francia.
Nel
1931
collabora
con
“La
Libertà”
di
Claudio
Treves,
ma
lo
stipendio
è
insufficiente,
poi,
nel
1933,
conosce
il
banchiere
Lorenzo
Lorenzi
che
lo
sollecita
a
finire
il
libro
autobiografico
di
memorie
che
andava
scrivendo
e
che
esce
infatti
nel
1934
grazie
all’aiuto
finanziario
del
Lorenzi.
In
quelle
pagine
scarica
tutta
la
sua
frustrazione
per
le
tante
sconfitte
che
riteneva
in
buona
fede
di
non
meritare
e
spiega
anche
“sbandierata
con
sorpresa,
rancore,
aggressività,
una
metamorfosi
politica
culminante
in
un
voluto
distacco
dall’antitesi
fascismo-antifascismo”,
cioè,
in
termini
più
immediati,
un
cambio
di
casacca
in
forza
del
quale
non
risparmia
neanche
i
suoi
compagni
di
lotta
che
per
tanti
anni
gli
erano
stati
accanto
guidati
dallo
stesso
ideale
di
democrazia.
Sicuramente,
al
di
là
delle
spesso
fumose
giustificazioni,
determinante
sulla
decisione
dovette
essere
la
dura
condizione
di
esule
senza
mezzi
che
lo
aveva
reso
facile
preda
delle
spie
dell’OVRA
che
operavano
in
Francia
per
corrompere
anche
col
denaro
i
fuorusciti.
Acquisitosi
così
al
fascismo,
Giannini
fonda
nel
luglio
del
1934
a
Parigi
“Il
Merlo”
col
sottotitolo
“Fischia
e se
ne
infischia
una
volta
a
settimana”,
dove,
nell’editoriale
del
primo
numero,
abbozza
un
tentativo
di
giustificazione
per
la
sua
inversione
di
rotta
dichiarando:
«Il
regime
che
governa
l'Italia
da
oltre
dieci
anni,
e
che
rappresenta
nei
consessi
internazionali
il
nostro
Paese,
non
può
oggi
essere
valutato
con
gli
stessi
criteri
adottati
allora
che
esso
era
nel
periodo
iniziale
di
conquista
del
potere
e di
assestamento
alla
vita
nazionale.
Oggi
che
l'Italia
sta
entrando
in
pieno
nell'attività
internazionale,
animata
sembra
da
spirito
di
pace,
mentre
all'interno
del
Paese
il
governo
cerca
una
diversa,
forse
ardita
soluzione
alle
concezioni
economiche
e
sociali
(soluzione
che
non
potrà
non
influire
anche
sull'indirizzo
politico
generale)
sarebbe
sterile
e
puerile
continuare
ad
esaminare,
criticare
e
giudicare
il
fascismo,
ponendosi
in
una
attitudine
di
pura
negazione
(…)
Obbedendo
a
tale
imperativo
categorico,
sappiamo
bene
che
questo
nostro
atteggiamento
ci
alienerà
la
simpatia
di
persone
con
le
quali
abbiamo
fatto
in
comune
gran
parte
del
nostro
cammino.
Il
distacco
è
per
noi
doloroso,
ma
riterremmo
di
venir
meno
ad
un
alto
dovere
morale
e
civile
se,
per
cedere
a
preoccupazioni
d'indole
personale
e
sentimentale,
ci
rifiutassimo
di
assumere
intera
la
nostra
responsabilità».
Con
lo
stesso
accanimento
con
cui
aveva
denigrato
il
fascismo,
ora
Giannini
attacca
il
mondo
e i
personaggi
del
fuoriuscitismo
antifascista
anche
con
calunnie
e
documenti
falsi,
seguendo
direttive
che
arrivano
da
Roma.
La
triste
perdita
di
ogni
obbiettività
e
correttezza
giornalistica
appare
palese
nei
commenti
de
Il
Merlo
sull’assassinio
dei
fratelli
Rosselli
presentato
prima
come
una
azione
comunista
originata
da
litigi
con
“Giustizia
e
Libertà”,
poi
da
una
vendetta
per
un
patto
non
mantenuto
con
contrabbandieri
di
armi,
negando
in
ogni
caso
una
qualsiasi
partecipazione
diretta
o
indiretta
del
fascismo.
Il
Merlo
sospende
le
pubblicazioni
nel
1937.
Il
nome
di
Giannini
comparirà
nell’elenco
dei
collaboratori
tenuto
dal
capo
della
polizia
del
regime
Arturo
Bocchini,
e
poi,
nel
1940,
dal
suo
successore
Carmine
Senise.
A
libro
paga
figuravano
Giannini
e la
sua
convivente,
a
partire
da
quando
il
giornalista
aveva
mutato,
in
Francia,
il
suo
orientamento
politico.
Nel
gennaio
del
1938
Giannini,
con
l’aiuto
finanziario
del
partito
fascista,
come
riconosce
lo
stesso
Giannini
nell’editoriale
d’apertura,
fonda
Tribuna
d’Italia
che
ha
breve
durata
e
verrà
chiuso
a
settembre
dello
stesso
anno,
mentre
Giannini
è
espulso
dalla
Francia
come
elemento
pericoloso
e
dopo
varie
peripezie
rientra
a
dicembre
in
Italia.
Qui
dal
1941
collabora
al
settimanale
Regime
Fascista
con
uno
pseudonimo
e
lavora
per
il
Ministero
della
Cultura
Popolare,
il
Minculpop,
per
l’allestimento
di
programmi
di
propaganda
radiofonici
per
l’EIAR,
la
RAI
di
allora.
Dopo
il
Gran
Consiglio
del
25
luglio
e la
“deposizione”
di
Mussolini,
con
un
classico
salto
della
quaglia,
diviene
antifascista
badogliano,
ma
nel
luglio
1944
viene
arrestato
dagli
alleati
e
incarcerato
a
Regina
Coeli
per
collaborazionismo,
e
poi
internato
in
un
campo
di
concentramento
italiano
da
cui
uscirà
nell’agosto
del
1945.
In
un
successivo
libro
di
memorie,
Io
spia
dell’OVRA,
romanzo
politico
dal
taccuino
di
un
fesso”,
stampato
a
Roma
nel
1946,
tenterà
nuovamente
di
giustificare
con
abili
e
artificiosi
argomenti
i
suoi
ambigui
comportamenti
forse
anche
per
celare
al
meglio
i
legami
occulti
che
aveva
intrattenuto
con
gli
apparati
riservati
del
regime
fascista.
Nel
dopoguerra
si
porta
su
posizioni
monarchiche
di
destra
e
fonda
nell’aprile
del
1946
l’ennesimo
settimanale
che
ricorda
nel
titolo
il
periodo
più
glorioso
del
suo
passato
di
giornalista:
Il
Merlo
giallo
col
sottotitolo
“Disintegratore
del
malcostume
politico”.
Muore
a 67
anni
nel
1952,
il
suo
ultimo
giornale
gli
sopravvivrà
fino
agli
inizi
del
1957.
Riferimenti
bibliografici:
R.
Ferruzzi,
N.
Pastina:
“Ai
tempi
del
Becco
Giallo,
la
rievocazione
di
due
redattori
sopravvissuti”,
La
Stampa
13/08/1974;
P.
Treves:
“Dalla
memoria:
Becco
Giallo
e
anni
venti”,
La
Stampa,
27/07/1974;
O.
Del
Buono:
Poco
da
ridere.
Storia
privata
della
satira
politica
dall’Asino
a
Linus,
De
Donato,
Bari
1976;
O.
Del
Buono,
L.
Tornabuoni:
Il
Becco
Giallo.
1924/1931,
Feltrinelli,
Milano
1972;
A.
Giannini,
Le
memorie
di
un
fesso.
Parla
Gennarino
fuoriuscito
con
l’amaro
in
bocca.
L’anteguerra,
la
guerra,
l’esilio”,
Imprimerie
Crété,
Levallois-Perrette
(Seine)
1934.