moderna
LA RIVOLUZIONE DEGLI SVIZZERI
SuI mutamenti introdotti nei campi di
battaglia
del Quattrocento dai mercenari svizzeri
di Matteo Avallone
“Nel
nome del Padre, del Figlio, dello
Spirito Santo,
questo sarà il nostro cimitero”
Preghiera delle fanterie svizzere prima
di un assalto
Una delle più impressionanti svolte
nella pratica della guerra in Occidente
ha origine nel luogo più impensabile e
per mezzo degli artefici più
improbabili. Tra XV e XVI secolo, le
innovazioni introdotte da poveri, ma
battaglieri montanari della regione
centrale delle Alpi, trasformano per
sempre il modo di combattere in
un’Europa ancora legata alla
predominanza della cavalleria feudale.
Le prime avvisaglie del cambiamento si
rivelano già nel Trecento. Nel novembre
del 1315 a Morgarten un migliaio di
uomini dei cantoni di Uri e Schwyz
annienta un’armata asburgica
numericamente superiore. È una delle
prime battaglie in cui un esercito
interamente basato sulla fanteria che
combatte in ordine chiuso con picche e
alabarde ha la meglio su di un altro
organizzato invece sul ruolo
preponderante della cavalleria.
Sul finire del secolo, la decisiva
battaglia di Sempach (9 luglio 1386),
ancora tra svizzeri e arciducato
d’Austria, conferma la straordinaria
efficacia di questo modo di combattere,
che nel frattempo va perfezionandosi.
Alla fine della giornata sul campo
rimane quasi la metà dell’esercito
austriaco, tra cui circa 400 nobili. Ha
così fine ogni tentativo da parte degli
Asburgo di estendere la propria
influenza agli strategici e redditizi
passi di montagna delle Alpi centrali, i
quali garantiscono i collegamenti
commerciali tra sud e nord Europa.
L’indipendenza degli orgogliosi cantoni
di montagna di Uri, Schwyz e Unterwalden
è assicurata. La loro progressiva
fusione con la più sofisticata cultura
ed economia delle ricche città quali
Zurigo, Lucerna e Berna genera,
nonostante i contrasti, uno scatto
impressionante nelle consuetudini
militari del tempo. Tramonta – per
sempre – il ruolo chiave della
cavalleria feudale, e con esso il
retroterra culturale di questa casta di
nobili guerrieri; sulla scena irrompe al
suo posto la forza bruta delle masse di
fanteria.
Ma nel concreto in cosa consistono le
innovazioni degli svizzeri? Sul campo di
battaglia le fanterie elvetiche
ricordano molto da vicino la falange
macedone di Alessandro: una muraglia
compatta di uomini armati di lunghe
picche, il cui collante è un formidabile
spirito di corpo. Questo “riccio”,
formato generalmente da cinque-seimila
uomini disposti in quadrato su quaranta
o sessanta file a seconda della
situazione, possiede la stessa forza
d’urto di un carro armato; è un
autentico schiacciasassi che, spinto
della propria massa, avanza e travolge
ogni ostacolo sulla propria strada.
Per comandanti abituati alla battaglia
tardo-medievale, la quale spesso si
fraziona in singoli duelli individuali,
vedere avanzare una folla compatta, che
si muove in maniera organizzata, in
grado di sopportare perdite spaventose e
alla fine di abbattersi sul nemico, deve
generare una terrificante sensazione di
impotenza.
Gli svizzeri danno così la loro risposta
al perpetuo problema di come un
combattente poco addestrato possa
sconfiggerne un altro superiore in
tutto. Infatti, in uno scontro corpo a
corpo, un semplice fante contadino,
armato di nulla di più dei propri
attrezzi da lavoro riadattati per la
guerra, non ha speranze contro un
combattente a cavallo, meglio
equipaggiato e che dedica l’intera
propria vita all’addestramento militare.
L’unico modo per prevalere è dunque
quello di fondere il singolo nel gruppo,
facendo leva sul numero e sulla forza
collettiva generata dalla coesione e
dalla disciplina.
Si tratta in fondo di sublimare il detto
“l’unione fa la forza”: la somma che si
genera sarà necessariamente più del
valore delle singole componenti
dell’insieme. A questa caratteristica
tecnica e di organizzazione militare se
ne sommano altre, più sfumate e
astratte, sottese alla specificità
sociale delle popolazioni dei cantoni
svizzeri.
Sin dalla nascita, ogni uomo di queste
terre di montagna deve affrontare una
vita difficile, in un ambiente rozzo e
brutale. L’economia è quasi interamente
votata alla sussistenza a causa del
territorio inospitale e povero. La
società è organizzata in clan dotati di
uno spiccato senso di autonomia e di
libertà. I primi insegnamenti militari
sono impartiti dagli anziani a ogni uomo
sopra i sedici anni e in pratica non
sono che l’estensione naturale della
rude vita del villaggio. Il fiero senso
di appartenenza, il coraggio, la
resistenza al dolore e alla fatica sono
un portato naturale di essa. Non c’è da
stupirsi che, declinate su di un campo
di battaglia, queste caratteristiche
“naturali” agiscano come uno
straordinario moltiplicatore di forza,
in grado di rendere possibili vittorie
clamorose contro eserciti all’apparenza
invincibili.
Dopo gli Asburgo, a incrociare le armi
con gli svizzeri è il turno del ricco
ducato di Borgnona e del suo ambizioso
sovrano, Carlo il Temerario. Nel marzo
del 1476 a Grandson la potente
cavalleria borgognona viene decimata
dalla selva di picche del quadrato
svizzero. È una piccola battaglia, alla
fine le perdite sono contenute, ma
questo scontro segna comunque una
tendenza ben precisa: sul campo il
quadrato svizzero (Geviert) è un
problema irrisolvibile per gli eserciti
del tempo.
Dopo aver ricostruito le proprie forze
con mercenari italiani, inglesi e
fiamminghi, Carlo è ansioso di tentare
la rivincita, ma a Morat nel giugno del
1476 il suo esercito ha ancora la
peggio. Questa volta però, più che una
sconfitta, si tratta di un autentico
massacro in cui perisce metà
dell’esercito borgognone: 10.000 caduti
contro solo 410 svizzeri. A Nancy, il 5
gennaio 1477, ha luogo l’ultimo atto
delle guerre tra svizzeri e borgognoni.
Ancora una volta è un trionfo elvetico,
ingigantito dalla morte in battaglia di
Carlo, che segna il tramonto del suo
effimero Stato.
Ormai la reputazione dei mercenari
elvetici è all’apice. Costituiscono la
spina dorsale dell’esercito di ogni
sovrano che possa permetterseli.
Assoldarli costa infatti una fortuna,
sono brutali, dediti al saccheggio di
tutto ciò che trovano sulla loro strada,
uccidono con facilità e non hanno remore
nel mancare alla parola data. Ma sono
una garanzia di vittoria. A volte sul
campo di battaglia è sufficiente la loro
comparsa per gettare nel panico il
nemico.
A Dornach nel 1499 l’imperatore
Massimiliano I vede soccombere le
proprie truppe, i Lanzichenecchi,
costruite proprio sul modello svizzero;
all’Ariotta, nel maggio 1513 anche
l’esercito francese viene sconfitto.
Eppure il tempo della predominanza degli
svizzeri si avvia al tramonto.
L’artiglieria diventa più potente e
manovrabile; archibugi e moschetti sono
sempre più affidabili e il loro impiego
sempre più comune. I densi, massicci
quadrati di picchieri, si trasformano in
un bersaglio fin troppo facile per
queste armi.
Il 13 settembre 1515 a Marignano si
scontrano i francesi di Francesco I e
una coalizione formata da cantoni
svizzeri, il ducato di Milano e il
marchesato di Mantova. In palio c’è il
controllo della ricchissima Lombardia.
Ma questa volta l’artiglieria francese,
fabbricata in lega di bronzo, gioca un
ruolo decisivo e apre squarci
terrificanti nel Geviert. Il 14
settembre, al termine dei combattimenti,
si contano quindicimila morti; di
questi, quasi i due terzi sono svizzeri.
Da Marignano in poi la politica della
Confederazione elvetica cambia. Il
tributo di sangue imposto è troppo alto
per non lasciare un segno profondo. Le
radici dell’attuale neutralità svizzera
si perdono tra l’orrore dei caduti di
questa lontana e cruenta battaglia del
Cinquecento.
La pratica del mercenariato non finisce
di colpo, ma a livello politico le mire
espansionistiche dei cantoni cessano per
sempre. Tuttavia, il vaso di pandora che
hanno scoperchiato non verrà mai più
richiuso. La guerra medievale, fatta di
perdite umane contenute, di esigui
eserciti dominati dalla cavalleria
feudale finisce per sempre.
Inizia la guerra moderna, con i suoi
sconvolgenti bagni di sangue. Le
battaglie del futuro saranno sempre più
un micidiale urto di eserciti sempre più
grandi e costosi; masse di uomini in cui
annega la stessa pietà per l’avversario,
degradato al livello di un pericoloso
nemico da annientare.
Riferimenti bibliografici:
M. Scardigli, Cavalieri, mercenari e
cannoni, Mondadori, Milano 2014.
A. Barbero, La guerra in Europa dal
Rinascimento a Napoleone, Carocci,
Roma 2003.
M. Scardigli, A. Santangelo, Le armi
del diavolo, Utet, Torino 2015. |