contemporanea
STALINGRADO. OBBIETTIVO STRATEGICO O
SIMBOLICO?
COME E PERCHÉ SI ARRIVÒ A COMBATTERE
SULLE RIVE DEL VOLGA
di Federico Toscano
Estate 1942
Russia meridionale
Il gruppo di armate sud della Wehrmacht
penetra nella steppa con i suoi
cingolati a ritmo serrato. Davanti a sé
gli spazi infiniti che inquietavano il
sonno di generali e soldati e la scarsa
resistenza delle truppe sovietiche,
impreparate come l’estate precedente
dinanzi alla soverchiante potenza
tedesca.
Gli ordini del Führer erano stati
chiari, bisognava avanzare sino al
Caucaso per impadronirsi dei giacimenti
petroliferi azeri, in particolare quelli
della zona attorno alla capitale Baku,
che fin dall’ottocento erano sfruttati
dall’allora Russia zarista. Dai pozzi
affacciati sul Caspio dipendeva una
larga fetta della produzione di greggio
dell’URSS: nel 1940 ne erano state
estratte ben 22,2 milioni di tonnellate
e ciò rendeva la conquista della regione
una priorità strategica per la Germania
al fine di poter reggere lo sforzo
bellico per gli anni avvenire. Non solo,
ma l’invasione del Caucaso avrebbe
permesso di sottrarre queste risorse ai
sovietici e contribuito a indebolire il
potenziale industriale, pur enorme e
decisivo, a disposizione dei
bolscevichi.
L’élite nazista e lo stesso Adolf Hitler
erano dunque persuasi che per abbattere
il gigante orientale era necessario
minarne le capacità produttive, ma
nonostante ciò altri elementi e
considerazioni fecero mutare, a un certo
momento, i piani del Comando Supremo
tedesco per l’estate del 1942.
Di fatti il Führer decise di assegnare
ai soldati stanziati nel quadrante
meridionale, che in primavera avevano
ormai annesso tutto il territorio
ucraino e si apprestavano a dirigersi
verso il Caucaso, un nuovo e ulteriore
obbiettivo: la città di Stalingrado. Al
fine di conseguirlo egli divise le sue
forze: il neonato gruppo di armate A, al
comando del feldmaresciallo Siegmund von
List, avrebbe condotto a termine
l’offensiva prevista verso i giacimenti
petroliferi azeri, mentre il gruppo B,
guidato dal generale Maximilian von
Weichs, si sarebbe occupato della presa
della città sul Volga.
Questa scelta era da un punto di vista
tattico piuttosto discutibile dato che
già l’anno precedente, una simile
decisione aveva contribuito a
compromettere il conseguimento
dell’obbiettivo più rilevante
dell’Operazione Barbarossa: la conquista
della capitale sovietica, Mosca. In quel
caso Hitler optò fin dall’inizio della
campagna, partita il 22 giugno 1941, per
dividere le forze a sua disposizione su
tre obbiettivi: a nord Leningrado, che
era da mesi cinta d’assedio senza alcuno
sbocco favorevole in vista, a sud
l’Ucraina e al centro per l’appunto
Mosca. Così facendo egli disperse
tragicamente la forza d’urto delle
armate tedesche, le quali durante
l’inverno, nel momento di massima
difficoltà, non riuscirono ad assestare
il colpo di remi decisivo per la
conquista della capitale sovietica.
Per comprendere come si giunse a questa
determinazione da parte del Führer di
occupare la città sul Volga, occorre
anzitutto dire che essa non fu chiara
fin dal principio. Di fatti, nella
riunione preparatoria delle offensive
estive tenutasi presso il comando delle
armate sud a Poltava (Ucraina) il 1°
giugno, Hitler, insistette con gli
ufficiali convenuti della necessità di
impadronirsi dei pozzi petroliferi
azeri, senza fare riferimento a
Stalingrado come obbiettivo strategico,
ma unicamente come teatro delle
operazioni di appoggio e copertura
rispetto alla conquista del Caucaso.
Che cosa portò dunque al mutamento dei
piani sopra descritto: occorre, giunti a
questo punto, scandagliarne le ragioni a
partire proprio dagli aspetti
strategici. L’eventuale caduta di
Stalingrado, è questa la domanda da
porsi, avrebbe intaccato l’enorme
potenziale produttivo dell’Unione
Sovietica?
Il paese era stato duramente colpito e
penalizzato dall’invasione nazista: per
iniziare il 40% della popolazione, cioè
poco meno di 80 milioni di persone che
risiedevano nei territori ucraini,
bielorussi, baltici e della Russia
europea vivevano dall’estate del 1941
sotto il giogo nazista e non potevano
contribuire in alcun modo agli sforzi
militari e produttivi sovietici. Ma
ancor di più del salasso demografico, di
relativo impatto su un paese di circa
200 milioni di abitanti, va sottolineato
come circa il 63% del carbone estratto e
il 38% del grano prodotto provenivano
dalle zone soggette a partire
dall’estate del 1941 all’occupazione
tedesca.
L’estrazione di greggio subì nel giro di
12 mesi una brusca battuta d’arresto
calando nel 1942 al 66,6% rispetto al
totale dell’anno precedente. Queste
risorse risultavano irrimediabilmente
perdute e infatti causarono nel breve
periodo un crollo della produzione di
energia elettrica e a seguire per ovvie
ragioni di ghisa e acciaio, ma alla
stregua di un pugile suonato ma non
ancora al tappeto, l’Unione Sovietica
seppe riorganizzarsi: più di 1.500
fabbriche vennero trasferite nelle
regioni orientali del paese, al di fuori
del raggio d’azione dei bombardieri
tedeschi e l’intero apparato industriale
fu asservito alle esigenze dell’economia
di guerra sopperendo così alla carenza
in termini assoluti di input
produttivi (materie prime fondamentali e
beni intermedi) con una concentrazione
pressoché totale degli stessi nella
realizzazione di armamenti.
A conferma di ciò giungono in soccorso i
dati sulla produzione bellica.
Quest’ultima già nel 1941, anno
dell’invasione, era superiore a quella
tedesca in tre settori fondamentali per
la condotta del conflitto: l’aviazione
da combattimento, i mezzi corazzati e i
pezzi d’artiglieria. Nei due anni
seguenti, il 1942 e il 1943, essa crebbe
in maniera significativa: solamente per
quanto riguarda i carri armati ne
vennero prodotti 48.535 a dispetto delle
29.100 unità uscite dalle fabbriche
tedesche.
Certamente va rimarcato che questi
risultati furono conseguiti a prezzo di
ridurre alla fame milioni di cittadini
sovietici e che un sacrificio così
gravoso e ingente solo un regime, che
faceva del disprezzo per la singola vita
individuale una caratteristica
fondamentale, come quello stalinista lo
avrebbe potuto imporre. Tutto ciò però
permise al paese di sopravvivere
all’urto dell’invasione e di sopperire
anche alla perdita della città di
Stalingrado.
Essa infatti da un punto di vista
produttivo, indipendentemente dal fatto
che fosse ancora in mano ai sovietici,
già a partire dall’inizio dell’autunno
1942 non era più in grado di garantire
le sue quote: l’acciaieria “Ottobre
Rosso”, lo stabilimento “Barricata” e la
mitica fabbrica di trattori (convertita
alla produzione dei temibili carri T-34)
erano ridotte a un cumulo di macerie a
causa dei bombardamenti, eppure come
detto l’industria bellica del paese non
ne risentì affatto.
In definitiva, le motivazioni di ordine
strategico non sembrano essere alla base
e sostenere la scelta operata da Hitler
di impiegare le sue truppe per attaccare
ed espugnare la città sul Volga.
Probabilmente le ragioni di questa
determinazione vanno rintracciate dunque
nella dimensione simbolica, che è sempre
presente nei conflitti armati, a maggior
ragione in una guerra di annientamento
su basi ideologiche quale era quella
sull’ostfront.
Stalingrado era infatti una città molto
cara al dittatore comunista, che proprio
tra quelle strade e in quelle zone si
era messo in luce come leader bolscevico
durante il corso della guerra civile
(1918-1921). All’epoca il centro abitato
si chiamava Tsaritsyn ed era sotto
attacco da parte delle truppe della
cosiddetta “Armata bianca” che
contrastavano la rivoluzione comunista e
intendevano ristabilire il legittimo
potere zarista, interrotto dopo secoli
dall’abdicazione di Nicola II Romanov.
Qui il giovane Stalin mostrò fin da
subito alcuni caratteri fondamentali che
si sarebbero poi rintracciati anni dopo
nel suo regime: il disprezzo per la vita
umana, compresa quella dei suoi uomini,
la totale assenza di scrupoli morali e
l’obbedienza incondizionata che esigeva
verso le sue direttive. Significativo a
tal proposito fu l’epurazione compiuta
nei confronti degli ex ufficiali
dell’esercito zarista, arruolati per
volere di Trockij, all’epoca commissario
del popolo per gli affari militari,
nella costituenda Armata Rossa: Stalin,
che sospettava circa la fedeltà di
questi uomini alla causa bolscevica,
diede ordine di ammassarli su di una
chiatta che poi fece affondare nelle
acque del Volga.
La propaganda sovietica, negli anni
successivi, celò i misfatti di colui che
ormai si dichiarava il “conquistatore di
Tsaritsyn” e che decise di legare
indissolubilmente il suo nome alla
città, ribattezzata per l’appunto
Stalingrado.
Fu proprio la valenza spiccata di questo
centro abitato sul Volga
nell’immaginario e nella biografia del
dittatore sovietico che convinsero
probabilmente Hitler a tentarne la
conquista. Non solo, questo senso di
importanza simbolica crebbe ancor di più
durante i mesi della battaglia, quando
il Führer si rese conto in cuor suo che
Stalingrado sarebbe stato il limite di
massima espansione del Reich e dunque
legò all’esito di quello scontro il
successo dell’intera campagna in terra
russa.
Egli, per questo motivo impose ai suoi
uomini, ben 290.000 soldati tra
tedeschi, rumeni, italiani e volontari
russi (gli Hiwi) di resistere sulle loro
posizioni fino alla morte, nonostante
fossero ormai circondati e privi di ogni
prospettiva di vittoria. Di loro, solo
91.000 sopravvissero ai terribili
combattimenti nel kessel e ormai
moribondi si arresero il 2 febbraio
1943.
In basso
l’immagine, scattata il 31 gennaio,
della resa del comandante in capo della
VI armata, il Feldmaresciallo Friedrich
von Paulus. Egli era stato promosso da
Hitler al più alto grado militare
tedesco nella speranza che per salvare
l’onore si togliesse la vita, ma
sprezzante aveva dichiarato: «Non ho
intenzione di spararmi per quel caporale
boemo».
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