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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 156 / DICEMBRE 2020 (CLXXXVII)


contemporanea

STALINGRADO. OBBIETTIVO STRATEGICO O SIMBOLICO?

COME E PERCHÉ SI ARRIVÒ A COMBATTERE SULLE RIVE DEL VOLGA

di Federico Toscano

 

Estate 1942

Russia meridionale

 

Il gruppo di armate sud della Wehrmacht penetra nella steppa con i suoi cingolati a ritmo serrato. Davanti a sé gli spazi infiniti che inquietavano il sonno di generali e soldati e la scarsa resistenza delle truppe sovietiche, impreparate come l’estate precedente dinanzi alla soverchiante potenza tedesca.

 

Gli ordini del Führer erano stati chiari, bisognava avanzare sino al Caucaso per impadronirsi dei giacimenti petroliferi azeri, in particolare quelli della zona attorno alla capitale Baku, che fin dall’ottocento erano sfruttati dall’allora Russia zarista. Dai pozzi affacciati sul Caspio dipendeva una larga fetta della produzione di greggio dell’URSS: nel 1940 ne erano state estratte ben 22,2 milioni di tonnellate e ciò rendeva la conquista della regione una priorità strategica per la Germania al fine di poter reggere lo sforzo bellico per gli anni avvenire. Non solo, ma l’invasione del Caucaso avrebbe permesso di sottrarre queste risorse ai sovietici e contribuito a indebolire il potenziale industriale, pur enorme e decisivo, a disposizione dei bolscevichi.

 

L’élite nazista e lo stesso Adolf Hitler erano dunque persuasi che per abbattere il gigante orientale era necessario minarne le capacità produttive, ma nonostante ciò altri elementi e considerazioni fecero mutare, a un certo momento, i piani del Comando Supremo tedesco per l’estate del 1942.

 

Di fatti il Führer decise di assegnare ai soldati stanziati nel quadrante meridionale, che in primavera avevano ormai annesso tutto il territorio ucraino e si apprestavano a dirigersi verso il Caucaso, un nuovo e ulteriore obbiettivo: la città di Stalingrado. Al fine di conseguirlo egli divise le sue forze: il neonato gruppo di armate A, al comando del feldmaresciallo Siegmund von List, avrebbe condotto a termine l’offensiva prevista verso i giacimenti petroliferi azeri, mentre il gruppo B, guidato dal generale Maximilian von Weichs, si sarebbe occupato della presa della città sul Volga.

 

Questa scelta era da un punto di vista tattico piuttosto discutibile dato che già l’anno precedente, una simile decisione aveva contribuito a compromettere il conseguimento dell’obbiettivo più rilevante dell’Operazione Barbarossa: la conquista della capitale sovietica, Mosca. In quel caso Hitler optò fin dall’inizio della campagna, partita il 22 giugno 1941, per dividere le forze a sua disposizione su tre obbiettivi: a nord Leningrado, che era da mesi cinta d’assedio senza alcuno sbocco favorevole in vista, a sud l’Ucraina e al centro per l’appunto Mosca. Così facendo egli disperse tragicamente la forza d’urto delle armate tedesche, le quali durante l’inverno, nel momento di massima difficoltà, non riuscirono ad assestare il colpo di remi decisivo per la conquista della capitale sovietica.

 

Per comprendere come si giunse a questa determinazione da parte del Führer di occupare la città sul Volga, occorre anzitutto dire che essa non fu chiara fin dal principio. Di fatti, nella riunione preparatoria delle offensive estive tenutasi presso il comando delle armate sud a Poltava (Ucraina) il 1° giugno, Hitler, insistette con gli ufficiali convenuti della necessità di impadronirsi dei pozzi petroliferi azeri, senza fare riferimento a Stalingrado come obbiettivo strategico, ma unicamente come teatro delle operazioni di appoggio e copertura rispetto alla conquista del Caucaso.

 

Che cosa portò dunque al mutamento dei piani sopra descritto: occorre, giunti a questo punto, scandagliarne le ragioni a partire proprio dagli aspetti strategici. L’eventuale caduta di Stalingrado, è questa la domanda da porsi, avrebbe intaccato l’enorme potenziale produttivo dell’Unione Sovietica?

 

Il paese era stato duramente colpito e penalizzato dall’invasione nazista: per iniziare il 40% della popolazione, cioè poco meno di 80 milioni di persone che risiedevano nei territori ucraini, bielorussi, baltici e della Russia europea vivevano dall’estate del 1941 sotto il giogo nazista e non potevano contribuire in alcun modo agli sforzi militari e produttivi sovietici. Ma ancor di più del salasso demografico, di relativo impatto su un paese di circa 200 milioni di abitanti, va sottolineato come circa il 63% del carbone estratto e il 38% del grano prodotto provenivano dalle zone soggette a partire dall’estate del 1941 all’occupazione tedesca.

 

L’estrazione di greggio subì nel giro di 12 mesi una brusca battuta d’arresto calando nel 1942 al 66,6% rispetto al totale dell’anno precedente. Queste risorse risultavano irrimediabilmente perdute e infatti causarono nel breve periodo un crollo della produzione di energia elettrica e a seguire per ovvie ragioni di ghisa e acciaio, ma alla stregua di un pugile suonato ma non ancora al tappeto, l’Unione Sovietica seppe riorganizzarsi: più di 1.500 fabbriche vennero trasferite nelle regioni orientali del paese, al di fuori del raggio d’azione dei bombardieri tedeschi e l’intero apparato industriale fu asservito alle esigenze dell’economia di guerra sopperendo così alla carenza in termini assoluti di input produttivi (materie prime fondamentali e beni intermedi) con una concentrazione pressoché totale degli stessi nella realizzazione di armamenti.

 

A conferma di ciò giungono in soccorso i dati sulla produzione bellica. Quest’ultima già nel 1941, anno dell’invasione, era superiore a quella tedesca in tre settori fondamentali per la condotta del conflitto: l’aviazione da combattimento, i mezzi corazzati e i pezzi d’artiglieria. Nei due anni seguenti, il 1942 e il 1943, essa crebbe in maniera significativa: solamente per quanto riguarda i carri armati ne vennero prodotti 48.535 a dispetto delle 29.100 unità uscite dalle fabbriche tedesche.

 

Certamente va rimarcato che questi risultati furono conseguiti a prezzo di ridurre alla fame milioni di cittadini sovietici e che un sacrificio così gravoso e ingente solo un regime, che faceva del disprezzo per la singola vita individuale una caratteristica fondamentale, come quello stalinista lo avrebbe potuto imporre. Tutto ciò però permise al paese di sopravvivere all’urto dell’invasione e di sopperire anche alla perdita della città di Stalingrado.

 

Essa infatti da un punto di vista produttivo, indipendentemente dal fatto che fosse ancora in mano ai sovietici, già a partire dall’inizio dell’autunno 1942 non era più in grado di garantire le sue quote: l’acciaieria “Ottobre Rosso”, lo stabilimento “Barricata” e la mitica fabbrica di trattori (convertita alla produzione dei temibili carri T-34) erano ridotte a un cumulo di macerie a causa dei bombardamenti, eppure come detto l’industria bellica del paese non ne risentì affatto.

 

In definitiva, le motivazioni di ordine strategico non sembrano essere alla base e sostenere la scelta operata da Hitler di impiegare le sue truppe per attaccare ed espugnare la città sul Volga.

 

Probabilmente le ragioni di questa determinazione vanno rintracciate dunque nella dimensione simbolica, che è sempre presente nei conflitti armati, a maggior ragione in una guerra di annientamento su basi ideologiche quale era quella sull’ostfront.

 

Stalingrado era infatti una città molto cara al dittatore comunista, che proprio tra quelle strade e in quelle zone si era messo in luce come leader bolscevico durante il corso della guerra civile (1918-1921). All’epoca il centro abitato si chiamava Tsaritsyn ed era sotto attacco da parte delle truppe della cosiddetta “Armata bianca” che contrastavano la rivoluzione comunista e intendevano ristabilire il legittimo potere zarista, interrotto dopo secoli dall’abdicazione di Nicola II Romanov.

 

Qui il giovane Stalin mostrò fin da subito alcuni caratteri fondamentali che si sarebbero poi rintracciati anni dopo nel suo regime: il disprezzo per la vita umana, compresa quella dei suoi uomini, la totale assenza di scrupoli morali e l’obbedienza incondizionata che esigeva verso le sue direttive. Significativo a tal proposito fu l’epurazione compiuta nei confronti degli ex ufficiali dell’esercito zarista, arruolati per volere di Trockij, all’epoca commissario del popolo per gli affari militari, nella costituenda Armata Rossa: Stalin, che sospettava circa la fedeltà di questi uomini alla causa bolscevica, diede ordine di ammassarli su di una chiatta che poi fece affondare nelle acque del Volga.

 

La propaganda sovietica, negli anni successivi, celò i misfatti di colui che ormai si dichiarava il “conquistatore di Tsaritsyn” e che decise di legare indissolubilmente il suo nome alla città, ribattezzata per l’appunto Stalingrado.

 

Fu proprio la valenza spiccata di questo centro abitato sul Volga nell’immaginario e nella biografia del dittatore sovietico che convinsero probabilmente Hitler a tentarne la conquista. Non solo, questo senso di importanza simbolica crebbe ancor di più durante i mesi della battaglia, quando il Führer si rese conto in cuor suo che Stalingrado sarebbe stato il limite di massima espansione del Reich e dunque legò all’esito di quello scontro il successo dell’intera campagna in terra russa.

 

Egli, per questo motivo impose ai suoi uomini, ben 290.000 soldati tra tedeschi, rumeni, italiani e volontari russi (gli Hiwi) di resistere sulle loro posizioni fino alla morte, nonostante fossero ormai circondati e privi di ogni prospettiva di vittoria. Di loro, solo 91.000 sopravvissero ai terribili combattimenti nel kessel e ormai moribondi si arresero il 2 febbraio 1943.

  

In basso l’immagine, scattata il 31 gennaio, della resa del comandante in capo della VI armata, il Feldmaresciallo Friedrich von Paulus. Egli era stato promosso da Hitler al più alto grado militare tedesco nella speranza che per salvare l’onore si togliesse la vita, ma sprezzante aveva dichiarato: «Non ho intenzione di spararmi per quel caporale boemo».

 

 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]