moderna
SULLA BATTAGLIA DI LEPANTO
STORIA DI UN GIORNO ENTRATO NELLA
LEGGENDA
di Titti Brunori Zezza
Era il 7 ottobre 1571, esattamente 450
anni fa, quando con un mare arrossato di
sangue e seminato di “di giubbe, di
turbanti, di carcassi, di frecce, di
archi, di tamburri, di nacchere, di
remi, di tavole, di casse, di valige e
sopra ogni cosa di corpi umani”
(Barbero 2010) si chiudeva il giorno in
cui si combatté quella che diverrà la
più famosa di tutte le battaglie nella
storia della marineria a remi.
L’anno prima Venezia era stata colpita
in uno dei territori più preziosi del
suo vasto “Dominio da mar” a seguito
dell’invasione da parte dell’Impero
ottomano dell’isola di Cipro, allora
tappa significativa lungo una delle
rotte marittime che attraversavano il
Mediterraneo nel senso dei paralleli.
Possedimento, questo, a lungo ambito da
Venezia in competizione con Genova per
la sua importante posizione strategica,
ma anche per la ricchezza di risorse
agricole e minerarie che l’isola
possedeva.
Vino, olio, miele, zucchero, cera,
zafferano e soprattutto sale avevano
rimpinguato i mercati veneziani da
quando, a seguito di un lungo, tenace
progetto di acquisizione, nel 1489 il
dominio sull’isola le era stato ceduto a
malincuore da Caterina Cornaro,
appartenente a una famiglia del
patriziato veneziano, che era andata
sposa nel 1468 al sovrano Giacomo II di
Lusignano e si era ritrovata reggente
dell’isola alla morte di costui.
Al suo rientro in laguna, racconta
Francesco Sansovino in “Venetia città
nobilissima e singolare” del 1581,
Caterina fu incontrata dal doge Agostino
Barbarigo e da tutta la nobiltà e le fu
poi donato il bellissimo castello di
Asolo dove visse tenendo corte fino al
1510 anno della sua morte. Da allora e
sino al 1570 il governo dell’isola fu
saldamente retto dai Veneziani. In
quegli anni i rapporti tra la
Serenissima e gli Ottomani erano
improntati a un reciproco rispetto in
quanto vantaggi economici derivavano a
entrambi dall’intreccio dei loro
traffici commerciali.
Dopo la firma del Trattato di pace del
1479 tra le due potenze a Costantinopoli
risiedeva in permanenza un ambasciatore
veneziano, il cosiddetto “bailo”, che
aveva il compito di intrattenere
rapporti diplomatici con il Sultano, del
quale, però, nel contempo controllava le
mosse inviando dettagliati resoconti al
Doge. Al momento dell’invasione di Cipro
ricopriva tale incarico Marcantonio
Barbaro manifestando preziose capacità
di relazionarsi con la Corte del sultano
di allora, Selim II, succeduto l’anno
prima a Maometto II “il Conquistatore”
di Costantinopoli.
A differenza del padre, che sempre il
Sansovino definisce “Principe
fortunato e prudente… che essaltò molto
la casa othomana” contenendo
l’aggressività espansionistica del suo
popolo, il figlio era un sovrano più
dedito ai piaceri terreni che alla
politica. Pressato, però, dal bisogno di
reperire risorse economiche per far
fronte a numerosi progetti in corso di
realizzazione nel suo vasto impero in
quel 1570 si era risolto a strappare ai
Veneziani, malgrado quel patto firmato
qualche anno prima, l’isola di Cipro che
egli riteneva facesse parte del suo
impero. E in effetti l’isola era stata
musulmana sino al 1191 quando Riccardo
Cuor di Leone la portò sotto le insegne
cristiane e restò come unico rifugio
crociato anche quando i musulmani
progressivamente estesero il loro
dominio in quell’area geografica.
I Veneziani erano convinti che le
imponenti opere difensive che avevano
posto in atto negli anni precedenti,
soprattutto in difesa dei due maggiori
insediamenti dell’isola, Nicosia e
Famagosta, sarebbero state in grado di
respingere l’assalto nemico. Invece nei
primi giorni di luglio del 1570 una
poderosa armata di circa 100.000 uomini,
sostenuta da una flotta di 350 navi, che
era stata allestita in gran segreto nei
mesi precedenti nell’arsenale di
Costantinopoli tanto da sfuggire allo
sguardo vigile del bailo veneziano,
invade l’isola e pone l’assedio a
Nicosia che in capo a qualche settimana
cade. Quindi sarà la volta di Famagosta
che resisterà sempre sotto assedio molto
più a lungo, circa un anno, e della cui
caduta e della tragica morte del suo
comandante in capo Marcantonio Bragadin
i Veneziani e l’Occidente intero
verranno a sapere solo qualche giorno
prima della vittoria conseguita nella
battaglia di Lepanto.
Da allora quell’isola resterà per molti
secoli a venire sotto il dominio
ottomano e tutt’oggi, dopo un lungo
travagliato contenzioso tra Greci e
Turchi, sussiste lo strascico di una
divisione politico-territoriale che vede
una Repubblica turco-cipriota,
riconosciuta internazionalmente solo
dalla Turchia, contrapporsi a una
Repubblica greco-cipriota che è entrata
nel frattempo a far parte della Comunità
europea.
Chi visitasse Nicosia oggi proverebbe
ancora grande ammirazione per
l’imponente opera di ingegneria militare
messa in atto dai Veneziani tra il 1567
e il 1570: consolidate le mura che
circondavano la città dotandole di
dodici bastioni, per sgomberare da
qualsiasi ostacolo la mira dei
difensori, erano state abbattute anche
tutte le costruzioni all’intorno e
persino un corso d’acqua era stato
deviato per rendere imprendibile la
città.
Ma a nulla valse tutto questo. La
notizia dell’invasione dell’isola giunta
in Occidente con la lentezza dei mezzi
di comunicazione di allora provoca
grande preoccupazione non solo nei
Veneziani. Infatti la minaccia di una
ulteriore espansione territoriale e
religiosa dell’Impero ottomano nel
Mediterraneo occidentale era a quel
tempo percepito come un pericolo
concreto anche da altri Stati.
Lo Stato pontificio, in primis, al cui
soglio era asceso nel 1566 Pio V
Ghislieri, uomo intransigente e fermo
nel difendere i valori cristiani, ma
anche la Spagna del re Filippo II,
allora alle prese con la rivolta nel sud
del Paese dei “moriscos”, una
enclave musulmana difficile da domare e
con i pirati barbareschi del nord
Africa.
Alla notizia dell’invasione di Cipro il
Papa si fece da subito promotore di
un’alleanza tra le maggiori potenze
europee contro l’odiato nemico,
coinvolgendo ovviamente Venezia, la
Spagna, Genova, la Savoia e Malta e
mettendo a disposizione anche le risorse
del suo Stato al fine di allestire una
flotta comune per portare soccorso agli
assediati e sconfiggere il temibile
nemico. Il coordinamento delle forze
cristiane sarebbe stato affidato al
giovane ventiquatrenne don Juan
d’Austria, figlio naturale di Carlo V e
fratellastro di Filippo II che
sopporterà, poi, il peso maggiore
dell’impresa.
Ma quanto travagliata fu la
concretizzazione di quella alleanza che
solo il 25 maggio 1571 nella sala del
Concistoro il Papa potè presentare come
una Lega Santa. Quanto estenuanti furono
le trattative condotte dai
rappresentanti diplomatici preposti a
mediare, gestire, interpretare i
desiderata dei rispettivi governi!
Rivalità, diffidenze, in particolare tra
veneziani e spagnoli, unitamente alle
reali difficoltà di allora di comunicare
tempestivamente a distanza, avevano
creato numerosi fraintendimenti tra
quegli alleati, con colpi di scena dalla
cadenza quasi giornaliera. Trascorsero
dunque molti mesi mentre tutto il
Mediterraneo era in fermento. Lo scontro
era nell’aria e ciascuna potenza si
adoperava come poteva per mettere in
mare la sua flotta.
Si studia la strategia da adottare: i
comandanti riflettono sulla tattica
migliore da impiegare per ciascuno di
loro. Si contano e si ricontano le
imbarcazioni necessarie per battere il
nemico, che erano varie, ciascuna con
diverse caratteristiche: galere, maone,
caramussali, palandarie e le galeazze,
fiore all’occhiello della marineria
veneziana: “alte come castelli in
mare”, irte di cannoni e di
colubrine e sempre schierate davanti al
grosso della flotta. Ma bisognava anche
procurarsi gli equipaggi, soprattutto i
rematori e i soldati, che non si
reperiscono con facilità, per cui per
quanto riguarda i primi l’arruolamento
viene imposto a volte forzatamente e
allora ecco la fuga sui monti di chi non
vuol essere cooptato, oppure si
impiegano i condannati al carcere e così
ci spieghiamo perchè oggi il termine
“galeotto” sia sinonimo di detenuto e
“galera” di carcere, oppure si cercano
volontari.
Ciascun imbarcato, civile o soldato,
aveva funzioni diverse e tutte
indispensabili: c’erano il comito e il
sopracomito con funzioni di comando, il
capociurma che gestiva il
vettovagliamento, un pilota, uno
scrivano, un cappellano e anche
artigiani specializzati come il
carpentiere, il calafato, il remiere, il
barilaro e anche il barbiere-chirurgo,
ma soprattutto c’erano quei rematori, un
centinaio per ogni galera, e tutti
dovevano pur essere sfamati con enormi
quantità di “biscotto” che bisognava
reperire. I Veneziani previdenti avevano
dislocato da tempo sull’isola di Corfù,
anch’essa allora facente parte dei loro
territori, un impianto di panificazione
all’ingrosso, obiettivo sensibile da
difendere sempre dagli assalti nemici.
Passano, così, altri mesi e finalmente
nei primi giorni di settembre del 1571
si riunisce a Messina la più imponente
flotta navale della cristianità, la
quale, però, in breve sarà costretta a
mutare la pianificazione dello scontro
navale con il nemico poiché la flotta
ottomana nel frattempo ha attraversato
il Mediterraneo proponendosi di risalire
l’Adriatico per colpire Venezia al
cuore, mentre i corsari berberi giungono
nei pressi della laguna di Venezia
seminando terrore.
Rintuzzati dai Veneziani i loro attacchi
a Cattaro e a Corfù, con problemi
sanitari a bordo e temendo di essere
presi alle spalle dal nemico, gli
Ottomani verso la fine di settembre
ridiscendono lungo la costa dalmata sino
a Prevesa. Non ricevendo indicazioni
utili dal Sultano per le ben note
difficoltà di comunicazione ed essendo
ormai sopraggiunta la stagione
autunnale, invece di raggiungere
Costantinopoli, come era prassi allora,
entro il 26 ottobre giorno di San
Demetrio, sempre in attesa di ordini,
decidono di rifugiarsi nello stretto
braccio di mare che all’epoca del loro
primo insediamento in quell’area, per
una reminiscenza dei luoghi d’origine,
avevano chiamato “Piccoli Dardanelli”.
Un limite, questo, ritenuto da loro
invalicabile, ben protetto da due
avamposti che avevano da subito
fortificato per ricoverare in sicurezza
le loro imbarcazioni quando si
trovassero lontano dalla madrepatria.
Era quello lo stretto passaggio
dall’ampio golfo di Patrasso a quello di
Corinto, allora denominato dai Veneziani
golfo di Lepanto invece che di Naupaktos
come i Greci lo chiamavano.
Certamente la data in cui avverrà poco
dopo lo storico scontro risulta per quei
tempi anomala. Infatti a partire
dall’autunno e sino alla primavera
successiva la navigazione nel
Mediterraneo si faceva a quel tempo
molto rara per il possibile
sopraggiungere di avversità atmosferiche
per cui anche le operazioni belliche in
quel periodo venivano sospese. Ma le
difficoltà incontrate nell’allestimento
e nel coordinamento dell’ingente flotta
cristiana, le condizioni meteo avverse
degli ultimi tempi e il reciproco studio
delle mosse da parte dei due
schieramenti nemici avevano
procrastinato il momento dello scontro.
La flotta cristiana, tuttavia, sfidando
eventuali burrasche, desiderosa di
vendetta, dopo essersi spostata da
Messina a Corfù per imbarcare altri
soldati, alla fine decide di stanare il
nemico.
Arriva così il fatidico giorno e le due
flotte vanno incontro l’una all’altra in
quello stretto specchio di mare. Tutte
le galere alzano gli stendardi di
battaglia, i Veneziani il loro gonfalone
scarlatto e dorato con il leone di San
Marco. Gli equipaggi ballano
freneticamente al suono assordante delle
trombe, dei pifferi, dei tamburi e
pregano ciascuno il proprio dio
impetrando la vittoria poiché in certi
frangenti gli uomini sono tutti uguali:
coraggiosi o vili, crudeli o generosi,
buoni o malvagi. Poi le cannonate, le
scariche di artiglieria, il fuoco greco,
gli speronamenti e quindi l’assalto
della fanteria che dalla “rembata” si
lancia sulla galera nemica. Infine il
saccheggio in un’orgia incontenibile di
violenza e di smania di bottino.
Fu una battaglia navale dura, senza
esclusione di colpi. La flotta ottomana
perse in quanto la sua potenza di fuoco
risultò da subito nettamente inferiore.
I suoi arcieri erano “bellissimi da
vedere con quella diversità di turbanti
che portano in testa e con l’habito”,
come rileva Ferrante Caracciolo nei suoi
Commentarii del 1581, ma le loro
frecce risultarono poco efficaci contro
uomini ben difesi dalle loro armature,
abili nello sparare con l’archibugio e
nel bombardare le navi nemiche con palle
di ferro e di pietra.
Le forze cristiane ebbero la meglio sul
piano politico e militare, ma senza
significative conseguenze positive per
il mondo cristiano tanto che meno di due
anni dopo, il 7 marzo 1573, verrà
sottoscritta una pace separata tra
Venezia e l’Impero ottomano. Gli
interessi economici pragmaticamente
ebbero la meglio sulle altre motivazioni
che, secondo gli alleati della Lega
Santa, li avrebbero dovuto indurre a
proseguire nell’azione bellica. Artefici
di quel trattato di pace conservato
nell’Archivio di Stato di Venezia,
lettere d’oro su pergamena, furono il
doge Alvise Mocenigo e il sultano Selim
II.
Enorme però dopo la vittoria fu
l’impatto emotivo e propagandistico di
quella battaglia in tutto l’Occidente
tanto che il suo ricordo perdura ancora,
complice anche la rapida diffusione
della notizia tramite l’impiego dei
caratteri a stampa che vedono nella
Venezia di allora un centro attivissimo.
Incisioni, acquetinte, dipinti a olio
realizzati da numerosi artisti, da
Tiziano al Tintoretto, al Veronese, ma
anche più avanti nel tempo, da
Sebastiano Ricci, nonché da Gustave Dorè
hanno celebrato a più riprese e fissato
nella memoria collettiva il grande
evento, quella vittoria per mare che
sfatava la fama di invincibilità della
flotta ottomana e aveva mantenuto libero
il mondo cristiano.
Oggi la Lepanto che vide quel giorno il
suo mare arrossarsi di sangue è un’amena
località balneare che ha fatto
dell’attività turistica la sua fonte
economica principale. Attorno al suo
porticciolo, dove si dondolano le barche
dei pescatori locali e attraccano quelle
da diporto battenti bandiere di diverse
nazionalità, numerosi bar e taverne e
alberghi offrono ristoro d’estate al
turista accaldato. Da qui si diparte un
ampio lungomare ombreggiato da imponenti
platani che denunciano la presenza di
acqua nel sottosuolo, quell’acqua che
scende in abbondanza dai monti
retrostanti dell’Etolia e alimenta le
numerose fontanelle.
Non lontano da Lepanto sfocia in mare
anche il fiume Acheloo di antica
memoria, oggi chiamato Aspropotamo, uno
dei più lunghi della Grecia. I sedimenti
accumulati alla foce da quest’ultimo
hanno fatto sì che nel tempo siano
scomparse, inglobate nella terraferma,
parte delle isolette rocciose che
costituivano al tempo della battaglia
l’arcipelago delle Curzolari. Là, parte
della flotta cristiana, l’ala sinistra
per la precisione, nonché l’ala destra
di quella ottomana, si incunearono nel
momento iniziale dello scontro e per
questo da parte di alcuni si parla
ancora oggi della battaglia delle
Curzolari.
Tracce delle opere difensive con cui gli
Ottomani avevano fortificato i due
avamposti sono ancora oggi visibili, ma
l’uno e l’altro si sono trasformati in
due piccoli insediamenti, Rion e
Andirion è il loro nome, acquisendo
rinnovata visibilità in quanto
costituiscono i terminali del nuovo
imponente ponte inaugurato in occasione
delle Olimpiadi tenutesi in Grecia nel
2004.
Neppure la linea di costa, assai più
avanzata rispetto al passato, oggi
corrisponde più a quella visibile nel
XVI secolo. A ridosso della cinta
muraria che delimita il porticciolo
della cittadina un “Parco culturale”
invita a conservare memoria di quel
giorno, una memoria scevra da
strumentalizzazioni improprie poiché la
contrapposizione tra vincitori e vinti
viene annullata dal senso della vanità
della vittoria e della sconfitta che si
susseguono e si scambiano le parti per
ogni popolo.
Una statua di bronzo raffigurante Miguel
de Cervantes, che partecipò a quella
battaglia tra le forze spagnole e che
mostrerà sempre con orgoglio le ferite
ivi riportate, accoglie il visitatore
all’ingresso. Il suo braccio destro
alzato sembra trovare risposta in quello
di un patriota greco che sugli spalti
delle mura regge la fiaccola della
libertà, monumento della Grecia moderna
alla propria liberazione avvenuta secoli
dopo.
Qui il 7 ottobre dell’anno 2000 a
ricordo di quanti caddero o rimasero
feriti in quella grandiosa battaglia
navale anche Venezia ha voluto lasciare
scritto sulla pietra: «A memoria
imperitura della più grande battaglia
nella storia della marina a remi e a
monito solenne perchè i popoli del
Mediterraneo in ripudio della guerra
costruiscano insieme la pace».
Riferimenti bibliografici:
A. Barbero, Lepanto. La battaglia dei
tre imperi, Laterza, Roma-Bari 2010. |