N. 19 -
Luglio 2009
(L)
legnano, 29 MAGGIO 1176
Storia di una battaglia che sfuma nella
leggenda
di
Cristiano Zepponi
Lo
scontro tra i Comuni italiani e l’Impero, che toccò
l’apice nel corso del XII sec., affondava le radici
nella radicale diversità che caratterizzava le due
strutture politiche.
Federico di Hohenstaufen,
duca di Svevia divenuto re nel 1152, giunse per la prima
volta in Italia nel 1154, chiamato dal papa e da alcune
piccole città lombarde in difesa della loro integrità
territoriale ed autonomia politica, minacciata dai
centri maggiori (tra cui Milano, che si era messa in
luce sopraffacendo la vicina e prosperosa Lodi).
Aveva ventotto anni.
L’imperatore, di conseguenza, assunse un ruolo super
partes; in breve, riunì un’assemblea di giuristi che
confermò il pieno diritto d’autorità ereditato
dall’Impero Romano e condannò il comportamento di
Milano, messa in sostanza al bando – incoraggiando gli
altri Comuni alla disobbedienza nei confronti del
potente centro lombardo - dall’Impero; si spostò poi a
Roma, in aiuto del pontefice contro Arnaldo da
Brescia, un chierico legato alla patarìa
che osteggiava il potere temporale dei papi.
Catturato ed ucciso sul rogo l’oppositore, ottenne dal
papa Adriano IV la solenne incoronazione.
Fu,
insomma, un intervento diplomatico, che peraltro permise
di redigere un’indagine conoscitiva sulla situazione
politica e sociale delle città italiane; Ottone di
Frisinga, ecclesiastico e zio dell’Imperatore, vi
descrisse lo stupore suscitato dall’ampia partecipazione
dei cittadini della penisola al governo della città.
Federico I “Barbarossa” tornò in Italia quattro
anni dopo, nel 1158, quando convocò a Roncaglia
una nuova assemblea pubblica (dieta) –
solenne e caratterizzata dalla presenza dei maggiori
maestri di diritto romano dell’Università di Bologna –
nel corso della quale emanò un decreto (Constitutio
de regalibus) in cui si definivano le
prerogative dell’autorità regia (o “regalìe”):
controllo delle vie di comunicazione,
dell’amministrazione della giustizia, della riscossione
delle imposte, dell’autorità di battere moneta e di
muovere guerra. Un altro decreto, la “Constitutio
pacis”, vietò le leghe fra le città comunali e
le guerre fra privati; per finire, l‘imperatore impose
il riconoscimento della sua superiore autorità
(attraverso la formale sottoscrizione di un rapporto
feudale) alle varie dinastie aristocratiche della zona.
Lo
accompagnava, stavolta, anche un esercito ragguardevole,
integrato dalle milizie delle città rivali di Milano
(Pavia, Como, Cremona, i superstiti della distrutta
Lodi); e proprio Lodi fu ricostruita, con tanto di
palazzo imperiale al centro, mentre Crema fu rasa al
suolo; a Milano, a quel punto, non rimase che fare atto
di sottomissione.
L’anno seguente, alla morte di Adriano IV, la
maggioranza del Conclave (fedele alle tradizioni
autonomistiche della Curia romana) nominò Alessandro
III, ma una minoranza filoimperiale si schierò per
l’elezione di Vittore IV.
Federico indisse allora un suo Concilio a Pavia per
scegliere tra i due, che, inutile a dirsi, elesse
Vittore; al che Alessandro III scomunicò l’Imperatore,
schierandosi di conseguenza al fianco dei Comuni
umiliati, ed in attesa di rivalsa.
Milano, dicevamo, aveva dovuto fare buon viso a cattivo
gioco durante la bufera; però, nonostante questo,
restava potente, e temibile. Per questo, aveva potuto
ignorare l’editto d’isolamento del 1154, continuando la
politica di annessione di città minori, ottenuta con
alleanze imposte allo scopo di fare fronte comune.
In
questo modo, i deboli si legavano sì alla sua politica,
ma la loro fedeltà sarebbe venuta probabilmente a
mancare al momento dello scontro, qualora anch’essa
avesse dovuto difendersi senza badare a sorvegliare la
riluttante obbedienza degli alleati.
I
primi scontri, del 1160, furono favorevoli a Milano:
grazie alla cooperazione delle truppe bresciane, le
milizie della città riuscirono a tenere a bada gli
imperiali, e addirittura a sconfiggerli nel mese
d’agosto. Subito dopo, sull’onda di questi successi, si
pose mano alla ricostruzione di Crema.
Questa fiammata, però, svanì presto, e si rivelò
illusoria. Già l’anno seguente, infatti, gli imperiali
strinsero d’assedio Milano, che, stremata dalla fame e
dalle epidemie, dovette arrendersi.
Il
primo marzo del 1162 i consoli si recarono a Lodi, agli
accampamenti di Federico, e fecero atto d’obbedienza;
quattro giorni dopo, trecento cavalieri gli portarono i
gonfaloni e le chiavi della città.
Federico di Svevia, che sicuramente eccelleva in
politica, non primeggiava certo in buon senso. Con
ottusa intransigenza, infatti, non si limitò ad imporre
l’abbattimento delle difese militari (e dunque delle
mura, in modo da poter attraversare l’abitato con
l’esercito in assetto di guerra), ma pretese la
dichiarazione di abiura dal pontefice di Roma e di
fedeltà all’antipapa.
Inoltre, prima abbandonò Milano al saccheggio delle
truppe, e poi incaricò le milizie delle città alleate di
completare l’opera di distruzione, condotta con
agghiacciante metodicità.
La
popolazione fu allontanata dalle abitazioni, e suddivisa
in gruppi per quartiere; poi, si scatenò il flagello.
Milano aveva già perso buona parte delle abitazioni,
costruite in legno e distrutte da precedenti incendi;
inoltre, gran parte degli edifici romani furono
saccheggiati in seguito per ricostruire quanto distrutto
in quell’occasione, si salvarono gli edifici religiosi,
e solo nella leggenda l’aratro passò sulle macerie, per
cancellare simbolicamente ogni possibilità di vita
futura.
Ciò
nonostante, dimentico dei rovesci della fortuna,
Federico causò senza dubbio una spaventosa distruzione;
che però, invece di fiaccare le velleità di resistenza,
rinvigorì gli spiriti, e seminò ulteriore desiderio di
vendetta.
Due
anni dopo, intuendo la necessità di unirsi per scampare
ad un simile destino, alcune città venete (Verona,
Vicenza, Padova e Treviso) si unirono in Lega (“Veronese”),
gettando un seme destinato a dare frutti fecondi.
Il 7
aprile 1167, infatti, fu proclamata la Lega Lombarda
tra Brescia, Cremona, Bergamo e Mantova. Secondo la
tradizione, le città strinsero una riunione solenne a
Pontida, nel bergamasco (“L’han giurato, li han
visti in Pontida..” scrisse Berchet), all’interno del
monastero benedettino di S.Giacomo, promossa attivamente
da Pinamonte da Vimercate.
Il
primo a parlarne è stato Bernardino Corio (nato a
Milano nel 1459) nella sua “Patria Historia”
del 1503, ovvero più di tre secoli dopo; oggi, questo
prolungato silenzio è considerato dagli studiosi più
attenti una delle stranezze che portano a ritenere che a
Pontida, con tutta probabilità (e con buona pace dei
coloriti sostenitori dell’odierna Lega Nord), non
avvenne nessun giuramento. Pazienza: se non capitò lì,
sarà capitato da un’altra parte.
Comunque sia, pur non avendo partecipato
all’organizzazione dell’alleanza, i superstiti di Milano
furono tra i primi ad aderirvi, e la ricostruzione della
città, favorita dalla momentanea assenza dell’avversario
– sceso a Roma per farsi nuovamente incoronare
dall’antipapa Pasquale III - figurò tra i
suoi primi impegni.
Il
primo dicembre 1167, poi, le due Leghe – Lombarda e
Veronese – si fusero; e aderirono alla nuova entità
politica Venezia, Piacenza, Parma, Modena, Bologna,
Ferrara, mentre un appoggio venne anche dal lontano
imperatore di Bisanzio e dal re di Sicilia. Gli ultimi
ad unirsi al blocco italico furono i pavesi ed il ducato
di Monferrato, convinti dalla costruzione ad occidente
della nuova città-piazzaforte di Alessandria,
così chiamata in omaggio di Alessandro III.
Nonostante la forza potenziale dell’alleanza
anti-imperiale, la coesistenza di centri determinati
alla guerra e di membri ambigui e pronti al tradimento
favorì un lungo periodo di attesa degli eventi. Neanche
l’assedio di Alessandria, iniziato la settimana santa
del 1775, provocò l’atteso scontro: Federico si ritirò,
di fronte alle forze comunali schierate a Tortona, e le
due parti si accomodarono con un armistizio firmato a
Montebello.
Fu,
comunque, l’ultimo indugio. I milanesi, che conoscevano
direttamente l’impeto della cavalleria imperiale ed
avvertivano l’imminenza dello scontro, apprestarono le
difese a Legnano, sulla direttrice di marcia fra
Como e Pavia, nel frattempo tornate all’antica alleanza
con Barbarossa.
Se
paragonati alla solennità epica della tradizione, gli
eventi – per significato politico, partecipanti e
conseguenze – appaiono oggi fin troppo modesti, e
trovano un senso soprattutto come ammonimento contro i
pericoli connessi ad un uso distorto della storia, che,
quando resa leggenda, può piegarsi a giustificare
qualunque stranezza.
Nelle pieghe della storia si può trovare qualsiasi
lezione si cerchi, specie estrapolando gli eventi dai
propri contesti, e tacendo del peso del caso nelle umane
vicende; l’onestà, qui come altrove, è un privilegio
raro.
Federico, acquartierato a Cairate, stava
muovendosi verso Pavia, dove stazionavano alcune forze
di riserva, la mattina del 29 maggio 1776. Forse per
aver avuto sentore di questa marcia, forse per
sorveglianza, forse per caso, alle sei del mattino
settecento cavalieri milanesi si erano allontanati dal
carroccio (un carro di legno, utilizzato per
trasportare la croce che serviva da sostegno morale e da
punto di riferimento visivo per le truppe risucchiate
dalla mischia), avanzando di tre miglia verso i boschi
che impedivano l’osservazione dell’accampamento nemico.
Quando si trovarono di fronte le truppe imperiali, i
cavalieri, come d’abitudine, caricarono impetuosamente,
riuscendo solo a farsi respingere verso Milano dalla
preponderanza numerica degli avversari. Le milizie
rimaste a difesa del carroccio, appiedate e poco
numerose, si trovarono così investite dagli imperiali.
Testimoni germanici scrissero che questi fanti, per
difendersi, scavarono un fossato di forma quadrata
attorno al simbolico carro; ma non si riesce a capire
come costoro, pesantemente attaccati, ne trovassero il
tempo ed il modo.
Probabilmente, se si intende la descrizione in senso
meno letterale, si può arguire che i difensori serrarono
le fila facendo muro con gli scudi.
Il
coraggio, di certo, consentì la resistenza; ma questa,
per quanto tenace, sarebbe stata senz’altro sopraffatta
se i cavalieri fuggiaschi non avessero trovato truppe
fresche e numerose sulla strada di Milano; e queste, in
prevalenza composte da bresciani, caricarono il fianco
degli assalitori, rovesciando le sorti dello scontro.
L’imperatore Barbarossa, disarcionato, scomparve dalla
vista dei suoi, che lo credettero ucciso. Il panico
s’impossessò allora delle sue forze, che si diedero alla
fuga fino al Ticino, dove molti caddero annegati
sotto il peso delle armature (un destino che un giorno,
ironicamente, abbraccerà anche il loro sovrano, annegato
nel tentativo di attraversare il fiume Salef in
Anatolia). Molti altri furono massacrati durante la
rotta; e gli inseguitori, a quanto pare, indugiarono
soprattutto sui sopravvissuti comaschi, considerati
traditori.
Alle
tre del pomeriggio lo scontro era concluso.
La
pace con i Comuni fu firmata a Costanza, nel
1183: il documento attribuì ai vincitori – sotto la
forma del diploma, ovvero della generosa concessione -
l’esercizio delle “regalìe” in cambio di un formale
riconoscimento dell’autorità imperiale. Ai primi vagìti
dell’indipendentismo come del “sentire comune” e della
coscienza nazionale italiana, purtroppo, mancavano
ancora lunghi secoli, nonostante quello che oggi,
raccontando l’episodio, si vorrebbe da più parti far
credere; accettare il proprio passato, qualunque esso
sia, resta una delle controprove della maturità di un
popolo
un altro labbro / a proferir
s'accinge / il magnanimo voto, un altro core / a
mantenerlo è presto, / pugnando al nuovo di contro
al rapace / fulvo Signor, che avanza / pe' campi di
Legnano.
G. Verdi, “La battaglia di Legnano”, 1849 |