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CONTEMPORANEA


N. 12 - Dicembre 2008 (XLIII)

LA GUERRA DEGLI ULTIMI
lo scontro del Chaco

di Cristiano Zepponi

 

La Storia, per molti, è scritta dai presidenti, dai re, dai papi, e da pochi altri eletti. Spesso, si ragiona in termini di continenti, d’ere, d’imperi, come se non si possedesse una lente accurata per scandagliarne le venature, e scrutarne le pieghe; “un piccolo paese nulla può contro uno grande, come i pochi contro i molti, o il debole contro il forte”, Mencio docet. Il piccolo paese, diremmo, è out, che lo voglia o no.

Accade tuttavia che delle volte, come esasperati dall’impossibilità di scansare il cono d’ombra, anche i piccoli paesi reclamino la loro parte di gloria, un riflesso qualunque dell’agognata grandezza. Un modesto “posto al sole” (come si direbbe dalle nostre parti).

Qualcosa del genere accadde in America del sud, nel corso dei primi anni ’30, intorno alla questione del ‘Gran Chaco’, la piana desertica che si estende tra i fiumi Paraguay e Paraná, e l'altopiano andino. La questione dei confini nella zona, seppur contestati sin dall’inizio del secolo, era infatti rimasta ai margini di tutti gli accordi frontalieri firmati nel corso dell’Ottocento, soprattutto a causa della scarsa importanza economica e strategica attribuita alla regione: inoltre, gli spagnoli non avevano mai segnato con precisione i limiti delle audiencias che poi avrebbero dato vita ai due paesi.

Le cose, tuttavia, cambiarono nel corso dei primi anni del Novecento: la Bolivia, infatti, iniziò allora a costruire piccoli avamposti nell’area, e cominciò così ad introdursi poco a poco in un territorio che il Paraguay considerava sotto la sua sovranità, nonostante la scarsa attenzione attribuita fin'allora a quello che sembrava soltanto uno squallido deserto. Le prime schermaglie furono subito acquietate grazie alla mediazione argentina ed in seguito alla firma di un accordo nel 1907; nei primi anni Venti però, il Paraguay volse lo sguardo al Chaco iniziando a costruire fortificazioni ed a promuovere l’immigrazione nella zona, al fine di rafforzare i suoi diritti sul territorio. Entrambi i contendenti, peraltro, subirono pesantemente le conseguenze economiche della crisi del ’29, che non furono estranee all’apertura delle ostilità.

Naturalmente, le velleità guerresche di questi due piccoli paesi non sarebbero bastate a causare la guerra che s’apprestava a cominciare, ma godevano del supporto di altre immancabili consigliere: in primo luogo, le compagnie petrolifere, convinte (erroneamente, per giunta) che la zona celasse un deposito a cielo aperto d’oro nero. L’americana Standard Oil, prima ancora che fosse sparato un colpo, aveva ottenuto i diritti di sfruttamento di un territorio che doveva ancora essere conquistato; l’anglo-olandese Royal Dutch Shell, al contrario, dovette rivolgersi al Paraguay per strappare il monopolio agli avversari, e dovette quindi schierarsi in suo favore, nello scontro che stava per iniziare.
Allo stesso modo, a molti in Bolivia faceva gola un accesso all’Oceano, dopo averlo perduto in seguito alla disastrosa guerra contro il Cile del 1879-83.

Le guerre degli ultimi, a volte, possono tradire discrete affinità. Una serie di elementi ricorrenti, senza i quali gli sviluppi avrebbero potuto rivelarsi diversi, cavalcano un’escalation di ostilità, in modo del tutto casuale ed autonomo.
La Bolivia, allora, registrava il dominio del «grande tripode» delle compagnie minerarie per l'estrazione dello stagno, molto richiesto sui mercati mondiali: la Patiño, creata da un imprenditore di Cochabamba e sostenuta anche da capitali stranieri, la Aramayo, dotata di capitali misti boliviani e britannici, e la Hochschild, associata ad interessi svizzeri. Nel 1931, Simon Patiño favorì la salita al potere di Daniel Salamanca, debilitato nel fisico quanto assetato di quella “parte di gloria” di cui si diceva in precedenza, caldeggiata vivamente dai consiglieri filo-fascisti che lo attorniavano (tra i quali, in precedenza, si annoverava Ernst Roehm, ideatore e fondatore delle SA naziste). Il paese, per giunta, non vantava una grande tradizione bellica, ma aveva anzi “collezionato nella sua storia soltanto disastri militari”, per usare le sue parole al momento dell’investitura. Ora, però, era “giunto il momento del riscatto. Una strepitosa vittoria cancellerà il nostro triste passato. E questa vittoria la troveremo facendo guerra al Paraguay, l’unico paese che in questo momento siamo sicuri di battere”. Si elemosinavano vittorie sicure, pugni di morti o passeggiate militari, e si seguiva una prassi che conosciamo bene, per nostra eterna vergogna.

La scelta, d’altra parte, non poteva rivelarsi più infelice. Il Paraguay era certamente un paese meno popolato, visto che non raggiungeva nemmeno il milione di abitanti (fermandosi a 880.000 circa), mentre la Bolivia ne vantava il triplo (2.150.000 circa); ma la sua compattezza etnica, i suoi precedenti bellici, la disponibilità di moderne armi occidentali e l’ausilio di istruttori francesi lo rendevano un nemico temibile, molto più del previsto.

Lo studio della storia avrebbe forse portato Salamanca a riconsiderare più miti propositi di conciliazione: alcuni decenni prima, nel 1865, il Paraguay si era dimostrato capace di sostenere un conflitto contro Brasile, Argentina ed Uruguay insieme, sfiorando anche il successo prima del completo esaurimento delle “riserve umane” disponibili; “cercò anche di organizzare un’estrema difesa inviando al fronte donne e bambini, ma alla fine dovette arrendersi”, scrisse Arrigo Petacco.

Anche stavolta, l’esercito paraguayano si trovava in inferiorità numerica, seppur con un rapporto più favorevole; inoltre, nonostante l’ingente apporto di mezzi (camion, velivoli, artiglieria) e di consiglieri (l’esercito boliviano era guidato dal generale tedesco Hans Kundt), la forte componente indios nelle file militari stentava ad abbracciare l’entusiasmo nazionalista degli ufficiali bianchi.

“Ovvi vantaggi stavano dalla patte della Bolivia: essa aveva il triplo della popolazione del Paraguay, il suo esercito era stato bene addestrato dal generale Kundt, e aveva armi in abbondanza, comprate con i prestiti dei banchieri americani; ma la Bolivia, come risultò poi, non colse mai un vero successo. Per quanto riguardava il morale c'era una netta disparità tra i due eserciti: gli uomini del Paraguay pensavano di combattere in difesa della loro madrepatria, l'esercito della Bolivia era costituito principalmente da indiani coscritti, spesso arruolati a forza e talvolta trasportati in catene nel Chaco. L'ambiente fisico favoriva il Paraguay, i cui soldati muovevano su un terreno e in un clima familiari, mentre, i boliviani, con i polmoni abituati all'aria sottile dell'altipiano, si ammalavano e morivano nei bassipiani densi di vapori. La maggiore eguaglianza sociale del Paraguay dava pure un chiaro vantaggio a questa nazione, poiché il comune soldato e l'ufficiale combattevano fianco a fianco, mentre un abisso divideva gli indiani dell'esercito boliviano e la classe dei comandanti. Le prime linee dell'esercito boliviano erano spesso composte da una massa apatica di indiani, male alloggiati e nutriti, e molte miglia indietro si trovava una seconda linea di difesa in cui i ‘signori ufficiali’ vivevano comodamente, fumando e bevendo in abbondanza, e spesso con il conforto delle loro amanti”, scrisse Hubert Herring.

Dopo alcuni anni di scaramucce, accadute già a partire dal ’28, la situazione precipitò. Il 10 giugno del 1932, senza alcuna dichiarazione di guerra, la 4° divisione boliviana lasciò i contrafforti andini di Camiri e, dopo un breve tratto a bordo di camion, cominciò la marcia verso il fortino paraguayano “Carlos Antonio Lopez”, una modesta struttura di legno a guardia del lago Pitiantuta. A guardia dell’acqua potabile, a dire il vero.
Cinque giorni dopo, la sua presa annunciò l’inizio di quella che sarebbe stata chiamata la ‘guerra del Chaco’.

Se si potesse affermare che la conquista di un territorio semi-desertico e assolutamente inabitabile, vasto come l’Italia, costituisca un trionfo, allora i boliviani registrarono una serie di successi notevoli nel corso dei primi mesi di guerra, avanzando senza sosta nella piana contesa.
I paraguayani, intelligentemente, decisero invece di “difendere il Chaco abbandonandolo”, ed attuarono una serie di ritirate per impedire di essere agganciati in una battaglia campale dall’avversario. Il generale Josè Felix Estigarribia cedette terreno, avvicinandosi al contempo alle fonti di rifornimenti e di rinforzi.

La sfortuna peggiore di un generale, però, è quella di dover rispondere ad un presidente attento alla pubblica opinione. Le pressioni di Eusebio Ayala, leader paraguayano, lo spinsero ai primi di settembre ad una controffensiva contro il forte Boqueron, appena conquistato dai boliviani.

Superato l’ostacolo, i soldati paraguayani avanzarono in pieno territorio avversario, fino ad assediare Saavedra, dove i boliviani avevano nel frattempo organizzato una linea di difesa; come già in Europa, vent’anni prima, i due nemici si trincerarono uno di fronte all’altro, in attesa di una mossa, mentre a La Paz si registravano i primi tumulti.

Stavolta, furono i boliviani a premere sul loro generale, ottenendo una controffensiva novembrina che in breve si trasformò in una mischia furibonda: “Paraguayani e boliviani lottarono con inaudita ferocia. Dopo un’accanita sparatoria, quando rimasero senza munizioni si scontrarono all’arma bianca, massacrandosi coi calci dei fucili, coi pugnali, coi badili”, scrisse lo storico paraguayano Giulio Cesare Chaves. Senza avanzare di un metro, se non per recuperare alcuni dei duemila corpi rimasti tra le linee.

Rinforzato da ufficiali tedeschi e materiali americani (soprattutto bombardieri), Kundt riprese l’assalto all’alba del nuovo anno, ottenendo la liberazione di Saavedra dall’assedio che la cingeva, e la riconquista dei forti di Platanillos e Nanawa.
Mentre sullo sfondo s’intensificava il lavorìo delle diplomazie (concentrato nelle capitali La Paz e Asunciòn, ma attivo anche nei confinanti, Brasile ed Argentina, ovviamente interessati alla pacificazione della regione ma al contempo schierati l’uno con gli assalitori, e l’altro con gli assaliti) e della Società delle Nazioni, mentre risuonava l’eco degli appelli di papa Pio XI (capace di strappare solo una breve tregua in occasione del natale 1932), gli USA si mossero con decisione proponendo di fermare la guerra sulla linea del fuoco. Un’offerta, questa, che – se poteva convincere la “Commissione Americana dei Neutrali” – non soddisfaceva affatto i desiderata paraguayani, che avrebbero avuto tutto da perdere da un simile esito, e non si sentivano già sconfitti. I rappresentanti del paese lasciarono la Conferenza di Washington, mentre dal fronte giungeva notizia di un’altra offensiva contro le truppe boliviane.

Al tempo stesso Kundt, per ovviare alla situazione di difficoltà venutasi a creare a causa dell’eccessiva dispersione delle sue truppe, preparò un attacco decisivo; una volta riunite le sue forze, le scagliò il 14 luglio del ’33 in direzione di Nanawa, senza riuscire nell’intento. L’utilizzo dei più moderni strumenti di distruzione (dai lanciafiamme alle autoblindo, dai bombardieri alle artiglierie) non permise di agganciare il grosso delle truppe avversarie, prontamente ritiratesi. La vittoria, frettolosamente comunicata a tutti i boliviani, si rivelò in realtà pura invenzione.

I paraguayani, ancora una volta, trovarono la forza per disturbare le colonne avanzanti, attaccandole ai fianchi, tagliando le vie di comunicazione, impedendo l’afflusso di rifornimenti, attuando quella tattica guerrigliera, individuale, che li aveva resi famosi. Al contempo, la situazione boliviana peggiorò velocemente: una pesante inflazione, in primis, indebolì le basi economiche del paese. L’elezione di Roosevelt, che sconfessò apertamente la precedente amministrazione, la privò inoltre del sostegno degli USA.
A peggiorare le cose, nel dicembre del ’33 i paraguayani colsero il loro primo successo costringendo alla resa due divisioni boliviane (4a e 9a) nel corso della battaglia a Campo de Via, e provocando la fuga confusa delle forze avversarie superstiti. Kundt, responsabile della perdita di 10.000 uomini, fu sostituito dal generale Enrique Peñaranda.

Il Paraguay, però, era ormai esausto, e non riuscì ad assestare il colpo finale, nonostante l’ecatombe d’indios in corso tra le file avversarie, decimate dalla sete e dalla malaria, dalla dissenteria e dal caldo. Il 1934 se ne andò così, all’insegna di un’emorragia d’uomini che non vedeva la fine.

Salamanca, preoccupato per l’apparente inattività dell’esercito, decise allora di rimuovere Peñaranda, e di sostituirlo con il generale Lanza. Si recò allora a Villa Montes, dove risiedeva il Quartier Generale dell’esercito, per informarlo della sua decisione.

Il sottoposto in questione non aveva d’altra parte nessuna voglia d’obbedire, dopo un così breve mandato, e all’alba del 27 novembre accerchiò la villa che ospitava il superiore ed il sostituto, prima di richiedere – per usare un eufemismo ironico – la conferma dell’incarico. Il caso volle che anche il presidente vantasse uno spirito acuto, e commentò d’un colpo: “Complimenti, amico mio: è il primo accerchiamento che le riesce”. Subito dopo, acconsentì; altrettanto velocemente, terminata l’emergenza, tornò al suo posto lo sconfitto – ma mansueto – Kundt.

L’ultima, disperata leva d’indios, reclutati in massa, permise di organizzare un colpo definitivo, che aggirandone i fianchi permettesse di impegnare lo sfuggevole esercito paraguayano. La colonna di fanti, mal addestrati e comandati in tedesco, prese allora la strada del Chaco.

Estigarribia scoprì il piano per caso, grazie alla cattura di un corriere nemico, per uno di quegli improbabili casi che si verificano in guerra, e decidono delle vite di branchi d’uomini capitati da chissà dove. Il comandante paraguayano, valutando l’entità del pericolo, spedì allora un’avanguardia veloce verso il pozzo Irindague, il solo capace di abbeverare una tale massa, nell’arco di centinaia di chilometri. Sapeva di poter contare sulla maggior conoscenza del terreno, e delle condizioni di viaggio al suo interno.
La spedizione del colonnello Eugenio Garay, dopo una marcia di dodici giorni, lo raggiunse in effetti prima dei boliviani, e provvide a distruggerlo. Molte migliaia d’indios, tra cui la gran parte dei minatori boliviani – arruolati per l’occasione - ricoprirono il terreno, in un ventaglio chilometrico, mentre vagavano in cerca d’acqua.
Gli osservatori della Società delle Nazioni che sorvolarono la zona, in seguito, non dovettero lavorare granché di fantasia.

La strage del pozzo Irindague sembrò davvero schiudere le porte della vittoria ai Paraguyani, che difatti, liberati dall’angoscia di un doppio avvolgimento, si lanciarono all’attacco delle linee avversarie. Sfiduciati, esausti ed ormai ingestibili, i soldati boliviani rincularono violentemente, dopo aver abbozzato un’improbabile resistenza.

Ai primi d’aprile del 1935, l’avanzata superò il confine preesistente, e le truppe paraguayane cominciarono l’invasione del Chaco boliviano; il 7 del mese, entrarono in Bolivia; il 16 del mese cadde Charagua, e la marcia proseguì verso Camiri.

L’euforia del successo aveva però offuscato la reale condizione dell’esercito paraguayano, che dopo l’ultimo sforzo era ormai totalmente esaurito, e non poteva più mobilitare riserve. Per colmo d’ironia della guerra sudamericana più insensata dell’ultimo secolo entrambi i contendenti dovettero chiuderla all’ultima mano del poker, le risorse sul tavolo esaurite, per ottenere un guadagno che era ormai passato di mente ad entrambi, e che non valeva minimamente lo sforzo profuso.

I due piccoli paesi accettarono, a sorpresa, le proposte della Conferenza Panamericana per la Pace promossa dal presidente argentino Lamas a Buenos Aires, e comprendente anche Brasile, Cile, Perù, Uruguay e USA. Il 10 giugno del 1935 entrò in vigore il cessate il fuoco.
Alla firma del trattato, il 21 luglio del 1938, il Paraguay ottenne i tre quarti del Chaco boreale, pari a 150.000 chilometri quadrati d’insalubre deserto. La Bolivia, invece, ottenne una striscia di terra sulle rive del fiume Paraguay, senza ottenere uno sbocco al mare.

Si stima che per ottenere questo risultato siano morti dai 100.000 ai 140.000 uomini. Dell’agognato petrolio, a quanto si sa, nessuna traccia.

 

 

 

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